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Nel 2023 lo scenario internazionale è atteso beneficiare di un allentamento di alcune tensioni che hanno caratterizzato il 2022: dai rincari dei prezzi, soprattutto energetici, alle pressioni sulle catene di fornitura. Se dal lato dell’offerta i vincoli appaiono quindi meno stringenti, la domanda mondiale è vista in indebolimento, a causa dei rallentamenti che riguarderanno i paesi avanzati. È prevista in rafforzamento, invece, la crescita degli emergenti.
Permangono rischi al ribasso, anche se attenuati, soprattutto legati all’evoluzione della guerra e alle tensioni economico-politiche tra le due principali potenze economiche (USA e Cina).
Le più recenti previsioni delle istituzioni internazionali vedono per quest’anno un netto rallentamento del ciclo economico mondiale, che però registrerà un recupero nel prossimo.
Nel 2022 il commercio mondiale ha realizzato un aumento (+3,2%) in linea con il ritmo di crescita medio annuo degli ultimi venti anni (+3,3%). Tale dinamica positiva è stata raggiunta nonostante il conflitto russo-ucraino, i blocchi produttivi in Cina dovuti alla politica zero-Covid e i conseguenti colli di bottiglia in alcune catene di fornitura globali. Si caratterizza per una crescita concentrata nei due trimestri centrali dell’anno e una brusca riduzione nel 4° (-2,1%).
Nello scenario CSC, il commercio mondiale è quindi ipotizzato in rallentamento nel 2023 (+2,0%), con una lieve revisione al ribasso rispetto alle previsioni di ottobre (+2,3%). Tale dinamica sconta un’eredità negativa dal 2022 (-0,8%), a causa della forte caduta nel 4° trimestre, e incorpora una crescita in rafforzamento nel corso dell’anno. Nel 2024 la dinamica ipotizzata per gli scambi internazionali di beni (+3,0%; Tabella 4) tornerà vicina ai ritmi di lungo periodo.
Gli scambi mondiali hanno mostrato una forte resilienza anche al conflitto esploso nel 2022. Il venir meno di importanti attori della fornitura mondiale di materie prime e intermedi cruciali, come il gas, l’argilla, il grano e i fertilizzanti, ha comportato una riorganizzazione delle forniture, attraverso fornitori alternativi o sostituzioni di prodotto, nei limiti del possibile, che ha contribuito a sostenere la dinamica degli scambi. In questo modo il commercio mondiale, nel corso dell’ultimo anno, ha potuto superare il sentiero di crescita pre-pandemia (Grafico 22). L’allentamento delle tensioni nelle catene globali di fornitura è ben visibile nella dinamica del Global Supply Chain Pressure Index, un indice che integra una serie di indicatori, che spaziano dal costo di trasporto alle difficoltà logistiche, al sentiment degli operatori, con l’obiettivo di fornire una sintesi delle potenziali strozzature delle catene di fornitura globali. Dall’indice composito emerge una forte e continua riduzione delle tensioni, segnalando che le pressioni sulla catena di approvvigionamento globale sono in normalizzazione. Anche l’abbandono della politica zero-Covid da parte delle autorità cinesi ha contribuito molto alla stabilizzazione delle condizioni degli scambi globali.
Nonostante le minori pressioni sulle catene di fornitura, emergono segnali di debolezza nella dinamica degli scambi per i primi mesi dell’anno. L’indice dell’attività portuale di container - RWI/ISL Container Troughput Index - a gennaio segna un forte rallentamento, principalmente nei porti del Nord Europa. Segnali non completamente negativi provengono dalla componente ordini esteri globale del PMI che, sebbene sia rimasta da marzo 2022 sotto la soglia neutrale, segnalando quindi contrazione, nel 1° bimestre del 2023 mostra una riduzione nel ritmo di caduta degli ordini.
Gli indicatori di incertezza permangono su livelli elevati, sebbene al di sotto dei picchi registrati nel corso degli ultimi tre anni (Grafico 23). Ciò ha fortemente influito sugli investimenti diretti esteri nel mondo: nei primi tre trimestri del 2022, secondo una stima OCSE-UNCTAD, sono cresciuti del 12% in termini annui (molto meno del +60% nel 2021). In particolare, risultano penalizzati i paesi del G20, che registrano una riduzione del 5%, trainata dal crollo degli IDE in entrata in Cina (-34%) e, in misura inferiore, negli Stati Uniti (-16%). L’Unione europea appare in controtendenza rispetto alla maggior parte dei paesi del G20, registrando un tasso di crescita sostenuto (+59%) e quasi doppio rispetto a quello del 2021 (+31%). Le previsioni per il 2023 dell’UNCTAD sono di un marcato rallentamento dei capitali esteri investiti nel mondo, a causa della crescita molto più contenuta nei paesi sviluppati, delle peggiori condizioni finanziarie e della maggiore incertezza, che colpisce particolarmente alcuni paesi in via di sviluppo.
Un possibile freno agli scambi globali potrebbe provenire dalle ulteriori misure restrittive del libero scambio internazionale, che includono sia aumenti delle tariffe doganali, sia quote all’import e all’export e altri strumenti che elevano barriere non tariffarie al commercio. Secondo quanto rilevato dal Global Trade Alert, il numero di interventi è sensibilmente aumentato negli ultimi tre anni (Grafico 24).
Nell’ultimo biennio a sostenere la crescita degli scambi globali sono stati soprattutto i paesi avanzati, Area euro e Stati Uniti, mentre i paesi emergenti hanno complessivamente rallentato. In particolare, ciò che è venuto meno è stato il contributo degli scambi cinesi, mentre gli altri paesi emergenti asiatici hanno continuato a sostenere il commercio mondiale fino al 3° trimestre 2022 (Grafico 25). Nell’ultimo trimestre 2022 c’è stato un crollo generalizzato degli scambi in entrambe le aree.
Questa dinamica negativa nasconde, però, un miglioramento per le importazioni cinesi, che nell’ultima parte dell’anno scorso sono tornate a crescere, contribuendo positivamente alla dinamica della domanda mondiale (Grafico 26). Tuttavia, la riduzione avvenuta nella domanda estera delle altre aree ha più che compensato la crescita della componente cinese.
Lo scenario previsivo CSC incorpora un cambio nel baricentro della crescita degli scambi mondiali: rallenteranno fortemente quelli dei paesi avanzati, colpiti dall’inflazione e dalla politica monetaria restrittiva, mentre riprenderanno maggiore dinamicità quelli degli emergenti.
Questo scenario di crescita assume l’assenza di una escalation nelle tensioni politico-economiche legate al conflitto russo-ucraino e ai rapporti tra Stati Uniti e Cina, e una maggiore cooperazione internazionale tra le due principali aree economiche occidentali (USA e UE). Ciò riguarda, in particolare, il contenimento degli effetti di alcuni provvedimenti approvati nell’ultimo biennio dall’Amministrazione Biden, primo fra tutti l’Inflation Reduction Act (IRA agosto 2022), che potrebbero essere deleteri per gli scambi commerciali tra i due alleati.
Nel 4° trimestre del 2022 il PIL americano è aumentato dello 0,6%, per la seconda volta consecutiva dopo il rimbalzo nel 3° (+0,8%). Questo miglioramento viene dopo due trimestri negativi, nella prima metà dell’anno. Anche grazie al recupero nella seconda metà del 2022, l’economia USA ha chiuso il 2022 con una crescita del PIL del 2,1%, un livello del 6,3% superiore a quello pre-Covid (4° trimestre 2019).
Gli investimenti fissi lordi hanno confermato il trend negativo (-1,2% nel 4° trimestre) già osservato a partire dal 2° trimestre del 2022 (-3,3% la contrazione cumulata). Mentre la tenuta dei consumi (+0,3% nel 4° trimestre, di cui +0,6% di servizi, -0,1% di beni) ha sostenuto il prodotto totale, unitamente all’aumento della spesa pubblica (+0,9%; Grafico 27).
Alla luce del dato sull’ultimo trimestre 2022, la variazione acquisita per il 2023 è migliorata al +0,9%, rispetto al +0,4% che si registrava fino al 3° trimestre.
Ciononostante, lo scenario ipotizzato per l’anno in corso è stato rivisto al ribasso di 0,4 punti percentuali (da +1,1%), alla luce del recente ulteriore irrigidimento della strategia di politica monetaria americana (si veda il paragrafo seguente).
Nello scenario del CSC si ipotizza una crescita del PIL degli Stati Uniti dello 0,7% nel 2023 e dell’1,6% nel 2024.
I punti di attenzione nel quadro economico statunitense sono i seguenti:
La FED sta continuando a rialzare i tassi ufficiali: all’unanimità a marzo li ha portati nella forchetta 4,75-5,00%. Il tasso di riferimento fino a marzo 2022 era fermo a 0,00-0,25%, fin da aprile 2020. Il tasso effettivo FED, da 0,08% a inizio 2022, è salito a 4,56% a febbraio 2023 (Grafico 28).
L’inflazione, intanto, si è già ridotta in misura significativa (+6,0% a febbraio 2023, da un picco di +9,1% a giugno 2022), anche se resta ben oltre l’obiettivo FED (+2,0%). Negli USA resta troppo alta anche l’inflazione esclusi energia e alimentari (+5,5%): ciò riflette la forte domanda interna e, quindi, le pressioni diffuse sui prezzi, non limitate all’energia (Grafico 29). Le retribuzioni nominali negli USA hanno accelerato al +5,1% annuo nel 4° trimestre 2022, incorporando in parte l’aumento dei prezzi.
Secondo la FED, la disoccupazione resta poco sotto il valore di lungo termine (stimato al 4,0%) e l’economia americana genera abbastanza nuovi posti di lavoro, nonostante lo scenario complicato. In altri termini, può rimanere in salute anche se frenata dalla stretta monetaria.
A marzo il comunicato FED continua a indicare che il tasso ufficiale sarà alzato ancora nelle prossime riunioni. Il FOMC (Federal Open Market Committee) ha segnalato che la maggioranza dei suoi membri intende alzare i tassi di un altro quarto di punto, a 5,00-5,25% entro fine 2023. Per il 2024, quasi tutti i membri del FOMC intendono abbassare i tassi e la maggioranza indica un livello di 4,25-4,50% entro fine anno, ovvero un taglio di quasi un punto.
I mercati scontano un sentiero leggermente diverso per i tassi. I future indicano infatti tassi FED fermi al picco di 4,75-5,00% fino a metà del 2023. E indicano una probabilità significativa che primi tagli ci siano già entro dicembre (a 4,00-4,25%; stime CME). Nel 2024, secondo i future, il taglio dei tassi FED proseguirà in misura marcata, fino al 2,75-3,00% a fine anno.
Nello scenario CSC, coerentemente con tali indicazioni, la FED deciderà un ultimo piccolo rialzo dei tassi nei prossimi mesi, entro giugno, fino al 5,25% e poi si ipotizza l'inversione di rotta. Nel 2024 si ipotizza il proseguire del taglio dei tassi FED verso valori meno restrittivi (al 3,00% a fine anno). Lo scenario CSC di ottobre incorporava un rialzo minore tra il 2022 e il 2023 (a un massimo di 4,50%).
La politica monetaria sta frenando l’economia USA già dagli ultimi mesi del 2022. Il livello neutrale del tasso, di lungo periodo, è stimato al 2,5% dal FOMC: il tasso effettivo FED ha superato tale livello a settembre dello scorso anno e nel 2023 arriverà a distanziarlo di quasi 3 punti. L’impatto della politica monetaria restrittiva sarà invece alleggerito nel corso del 2024, quando comunque il tasso effettivo supererà la soglia di circa due punti.
Il tasso FED resterà superiore a quello BCE, con una distanza media pari a +1,3 punti nel 2023 e molto meno nel 2024 (a +0,2). Ciò continua a esercitare una spinta a indebolire l’euro rispetto al dollaro, anche se i rialzi BCE hanno limitato la distanza tra i due tassi e, dando un segnale ai mercati, hanno invertito la tendenza alla svalutazione dell’euro.
La FED, inoltre, dopo aver fermato prima dell’atteso (marzo 2022), visto il balzo dell’inflazione, il piano di Quantitative Easing che realizzava enormi acquisti di titoli americani, già da giugno scorso, sta limitando il reinvestimento in bond delle somme incassate da quelli che giungono a scadenza: titoli per 95 miliardi al mese non vengono riacquistati. Non si prevedono vendite di titoli. Lo stock di titoli accumulato, perciò, si sta gradualmente riducendo, anche se resta ampio: a febbraio in portafoglio ci sono ancora 5.365 miliardi di dollari in Treasury e 2.623 in Mortgage Backed Security.
Il percorso di riduzione dello stock, già abbastanza avanzato, sta rimuovendo la spinta al ribasso sui tassi USA di medio-lungo termine. Il rendimento del Treasury decennale, piuttosto volatile negli ultimi mesi, è comunque lungo un trend crescente: 3,61% a febbraio, da 1,63% a fine 2021.
L’Eurozona ha registrato una crescita di +3,5% nel 2022, con un profilo trimestrale crescente nella prima parte dell’anno (+0,6% nel 1° e +0,9% nel 2°) e in rallentamento a partire dal 3° trimestre (+0,4%). Le informazioni relative al 4° trimestre hanno evidenziato una situazione di sostanziale stagnazione (zero sul trimestre precedente, rivisto al ribasso dalla stima preliminare di +0,1%).
Il PIL dell’area supera i livelli del 2019 di +2,3%. Tra le principali economie europee, la crescita nel 2022 è stata sostenuta soprattutto dalla buona performance di Spagna (+5,5%) e Italia (+3,7%), meno da Germania (+1,8%) e Francia (+2,6%).
Nel 2022, la crescita dell’Area euro è stata trainata principalmente dalla dinamica piuttosto sostenuta della domanda interna, soprattutto nella prima parte dell’anno.
Per quanto riguarda gli investimenti (+3,7% annuo), sono aumentati quasi ovunque, ma in particolare in Irlanda (+25,9%), Grecia (+11,9%) e Italia (+9,4%), mentre meno consistente è stato il contributo proveniente da Francia (+2,2%) e Germania (+0,4%) e negativo quello dell’Austria (-0,9%). Dopo un 1° trimestre negativo (-0,7%), l’accelerazione degli investimenti nel 2° trimestre (+0,9%), ma soprattutto nel 3° (+3,9%), ha guidato la crescita dell’area. Tuttavia, l’andamento positivo si è interrotto nel 4° (-3,6%), plausibilmente per via dell’impatto negativo che gli inediti rincari energetici e i conseguenti aumenti dei costi di produzione hanno esercitato sull’attività produttiva delle imprese (-0,3% la produzione industriale nel 4°) e per i primi effetti dei rialzi dei tassi.
I consumi delle famiglie, invece, cresciuti di +4,3% in media annua, dopo un 1° trimestre debole (+0,1%), hanno visto un graduale aumento nella parte centrale dell’anno (+1,1% nel 2° e +0,9% nel 3°), nonostante l’elevata inflazione, anche grazie al risparmio in eccesso accumulato dalle famiglie, la cui propensione è scesa nel 3° trimestre al 13,3%, tornando sui valori del 2019. La spesa delle famiglie ha riguardato specialmente i servizi, il cui rimbalzo ha beneficiato della completa riapertura delle attività e della fine delle restrizioni pandemiche.
Infine, anche l’aumento delle esportazioni (+7,0% annuo) ha contribuito a dare impulso alla crescita, nonostante la sostanziale stagnazione nell’ultima parte dell’anno (+0,1%) indichi un certo indebolimento di tale componente.
Per quanto riguarda le prospettive, i segnali provenienti dai principali indicatori congiunturali degli ultimi mesi sono di un graduale miglioramento. La discesa dei prezzi delle commodity energetiche, il recupero del tasso di cambio euro/dollaro e l’inversione del trend inflazionistico suggeriscono un’attenuazione dei fattori più critici. Anche le indicazioni derivanti dalle principali indagini qualitative sul clima di fiducia (109,6 in media a gennaio-febbraio da 106,5 nel 4° trimestre l’indice ESI) e sulle aspettative occupazionali (99,8 da 95,3 nello stesso periodo l’indice EEI) sono di attese più ottimistiche (Grafico 30).
La risalita dell’indice composito del PMI dell’Area euro (52,0 a febbraio, da 50,3 di gennaio) conferma una situazione economica più positiva, soprattutto per l’attività legata ai servizi (52,7 il PMI del settore), segnalando espansione per il secondo mese consecutivo, grazie alla crescita dei nuovi ordini.
Tuttavia, le prospettive rimangono ancora molto fragili e incerte. Il PMI manifatturiero si è stabilizzato a febbraio (a 48,5), interrompendo il trend di discesa degli otto mesi precedenti, ma rimanendo comunque in zona di contrazione. Inoltre, emerge una forte eterogeneità tra le aziende manifatturiere di Italia, Grecia e Spagna che hanno supportato la produzione dell’area e quelle di Germania e Francia in cui prosegue il calo.
Inoltre, l’alta inflazione persistente e la stretta monetaria condizioneranno negativamente l’anno in corso. Per il 2023, infatti, le ultime previsioni della BCE stimano un’inflazione che continuerà a rimanere sopra il target quest’anno (+5,3%) con la core ancora in salita (+4,6%) comprimendo il potere d’acquisto delle famiglie e lasciando poco margine per un’espansione dei consumi. L’intonazione restrittiva adottata dalla Banca centrale influirà negativamente sui driver della crescita, indebolendo in particolare gli investimenti delle imprese. L’effetto degli impulsi restrittivi della politica monetaria, già parzialmente riflessi nel rallentamento del credito bancario, si materializzerà più intensamente nei prossimi trimestri.
Per il 2024, i prezzi dell'energia più bassi, un’inflazione più vicina al 2% e l’allentamento della stretta monetaria contribuiranno a creare condizioni più favorevoli per la crescita dell’economia dell’Eurozona.
L’ipotesi CSC per il biennio 2023-24 è di una crescita moderata dell’attività. Per quest’anno, risulta più difficile escludere in maniera certa un ulteriore rallentamento, per via dell’elevata incertezza che caratterizza lo scenario internazionale, dell’inflazione ancora alta e dell’impatto della stretta monetaria. Lo scenario incorpora quindi un +0,5% per il 2023, leggermente rivisto al rialzo rispetto alle previsioni di ottobre, seguito da una crescita più sostenuta nel 2024, pari al +1,2%.
La BCE a marzo ha alzato ancora i tassi (a 3,50%), come già anticipato un mese prima in modo irrituale, proseguendo nella rapida stretta monetaria iniziata a luglio 2022, con alcuni mesi di anticipo rispetto alle attese iniziali. Ciò ha segnato l’uscita dalla policy monetaria iper-espansiva nell’Eurozona mantenuta per oltre 6 anni (da aprile 2016), e accentuata durante il periodo della pandemia: il tasso sui prestiti alle banche era a zero e quello sui depositi delle banche a -0,50% (Grafico 31).
Il rialzo è stato motivato dall’inflazione troppo sopra l’obiettivo del +2,0% e la necessità di tenere a freno le aspettative. L’inflazione era stata spinta dai prezzi energetici, che ora frenando la stanno riducendo (+8,5% a febbraio, da un picco di 10,6% a ottobre). La dinamica di fondo, misurata al netto di energia e alimentari, è sempre rimasta molto più bassa (+5,3%), sebbene sopra l’obiettivo, e sta continuando a crescere lentamente per gli effetti di second round dei rincari energetici (es. servizi di trasporto; Grafico 32).
La BCE temeva anche il proseguire dell’indebolimento dell’euro sul dollaro (che accresce i prezzi in euro delle commodity quotate in dollari), considerata la risalita dei tassi USA che era stata già avviata.
Le quotazioni di gas e petrolio sono fuori del raggio d’azione della BCE, ma sono calate proprio durante la stretta monetaria, per altri motivi. L’economia europea ha già frenato nella seconda metà del 2022 a causa dello shock energetico: ciò poteva essere sufficiente a evitare un balzo delle aspettative di inflazione.
L’aumento dei tassi indebolisce ancor più la dinamica dell’economia, dato che è già sopra il tasso “neutrale” nell’Eurozona: dalle dichiarazioni di alcuni membri del board e da stime di vari istituti, si può ritenere che oggi tale valore si trovi al 2,00/2,50%. La politica monetaria, quindi, con i rialzi decisi finora, ha già ampiamente completato la fase di “normalizzazione”, rispetto al livello zero: ormai, dopo il rialzo di febbraio, la policy è certamente restrittiva, sebbene meno che negli USA.
Inizialmente, fino a settembre 2022, il rialzo dei tassi stava producendo un ulteriore indebolimento dell’euro, ma in seguito si è registrato il rafforzamento che la BCE auspicava rispetto al dollaro.
La Banca centrale ha indicato a marzo che, per le successive sedute, il sentiero dei tassi resta da definire e dipenderà dai nuovi dati che saranno resi disponibili. Eliminando, quindi, l’indicazione esplicita secondo cui “i tassi saranno alzati ancora”.
Tutto ciò per abbassare la dinamica dei prezzi al consumo, contando dichiaratamente sull’impatto restrittivo che i rialzi dei tassi hanno sulla domanda.
Il tasso di mercato Euribor è stato guidato al rialzo dai tassi ufficiali, iniziando a risalire già prima dal territorio negativo: 2,85% in media a marzo 2023, da -0,58% a dicembre 2021, ovvero un aumento di oltre tre punti. Questo forte aumento dei tassi a breve contribuisce a frenare il credito all’economia reale nel corso del 2023, per il finanziamento sia dei consumi che degli investimenti.
L’Euribor proseguirà su questa strada nei prossimi mesi. I future sui tassi di mercato nell’Eurozona indicano un aumento fino a un massimo di 3,30% nell’agosto 2023. Ma a ciò farebbe seguito già a fine anno e poi nel 2024 un’inversione di rotta, molto limitata rispetto a quella negli USA, con un tasso di mercato che arriverebbe a 2,84% a fine anno prossimo (coerente con un taglio di 0,50).
Nello scenario CSC, coerentemente con le indicazioni dei future, la BCE non alzerà più i tassi ufficiali nei prossimi mesi, restando al 3,50%. Entro dicembre 2023 si ipotizza un primo taglio di 0,25. Per il 2024 è attesa prima una stabilità e poi un secondo taglio di un quarto di punto entro fine anno (a 3,00%).
Gli acquisti di titoli emessi nell’Eurozona tramite il Quantitative Easing-2 pre-pandemia sono stati fermati dalla BCE a luglio 2022, in anticipo di alcuni mesi rispetto alle attese a seguito del balzo dell’inflazione in primavera; il massiccio programma “emergenziale” (PEPP) era scaduto a marzo.
Relativamente al QE-2, la BCE ha deciso a febbraio che, da inizio marzo 2023, lascerà ridursi molto lentamente lo stock di titoli in portafoglio, non riacquistando una parte dei titoli in scadenza, pari a 15 miliardi di euro al mese (quindi, una riduzione molto più graduale di quella negli USA).
Riguardo invece al PEPP, la Banca centrale continuerà fino al 2024 almeno, come deciso a febbraio, a reinvestire in titoli tutte le somme incassate da quelli che scadono, evitando un’erosione dello stock accumulato. Tali riacquisti di titoli PEPP sono flessibili: nei tempi, nel tipo di titoli, tra paesi membri, in modo da poter “intervenire” eventualmente per riequilibrare i tassi tra paesi.
I bond in bilancio BCE, perciò, finora sono rimasti stabili: 4.943 miliardi di euro a febbraio. Di questi, 2.587 miliardi sono titoli pubblici dell’Eurozona e 344 sono corporate bond emessi da imprese europee, mentre lo stock di titoli del pandemic programme è di 1.685 miliardi. Altri 326 miliardi vengono da vecchi programmi, in riduzione perché non beneficiano di reinvestimenti a scadenza.
La fine degli acquisti addizionali ha già lasciato spazio a un aumento dei tassi di mercato di medio-lungo termine nell’Area e a un limitato ampliamento degli spread sovrani. Con i riacquisti parziali dai prossimi mesi, quindi la riduzione dello stock, la domanda di tali titoli si ridurrà, allentando ulteriormente il freno ai tassi.
Il terzo strumento BCE sono i prestiti alle banche. A settembre e dicembre 2022 sono scadute le prime due TLTRO-3, operazioni “straordinarie” pre-pandemia, della durata di 3 anni, con le quali la BCE ha prestato ampie risorse alle banche europee. Nate per favorire il credito a famiglie e imprese, si sono rivelate fondamentali durante la pandemia per evitare difficoltà nella raccolta bancaria. Ne restano attive otto, peraltro già ridotte dai rimborsi anticipati da parte delle banche, per un totale di prestiti pari a 1.218 miliardi. Queste operazioni arriveranno a scadenza gradualmente, ogni tre mesi: la maggiore a giugno 2023 (549 miliardi), l’ultima a dicembre 2024. I prestiti totali BCE, incluse le operazioni ordinarie, ammontano a 1.258 miliardi a febbraio, di cui 332 miliardi a banche italiane (da 453 un anno prima).
Le banche dell’Eurozona, a fronte di tali prestiti e anche degli acquisti BCE di titoli (che intermediano), continuano a detenere ampi depositi liquidi presso Francoforte (4.296 miliardi a febbraio), sebbene in calo; 275 miliardi sono depositi di banche italiane (da 417 un anno prima). Su tali depositi, le banche non devono più pagare il tasso negativo, ma anzi percepiscono un interesse sempre più significativo (2,50% da febbraio): la stretta monetaria, quindi, produce tramite questo tasso un miglioramento per la redditività degli istituti.
Il prezzo del petrolio Brent sta proseguendo lungo un percorso di lenta moderazione, iniziato da luglio 2022, che lo ha portato a 82 dollari al barile in media a marzo 2023, un livello ancora poco sopra a quello “di equilibrio” (60-70 dollari). Il prezzo aveva raggiunto un massimo a giugno del 2022, a 123 dollari in media (da 74 a fine 2021), mentre il picco giornaliero è stato toccato l’8 marzo dello scorso anno, a 133 dollari, dovuto ai timori innescati dalla guerra, visto che la Russia è uno dei principali produttori di petrolio (con una quota dell’11% sul totale mondiale).
La “speculazione” finanziaria, ovvero le scommesse al rialzo sul petrolio, alimentate dall’invasione russa dell’Ucraina, ha amplificato le fluttuazioni del prezzo, spiegando i picchi nel 2022; ma non ha determinato i punti di svolta nelle quotazioni. Che sono stati guidati dal mercato fisico del petrolio, che prima ha registrato uno squilibrio tra domanda e offerta nel 2020, con eccessivo accumulo di scorte, ha attraversato un lungo processo di riequilibrio, con un forte ed eccessivo decumulo nel 2021 che spiega il balzo del prezzo e una risalita nel 2022 che spiega la moderazione.
L’ultimo scenario della Energy Information Administration prevede un profilo di stabilità e poi moderazione per il prezzo: 81 dollari a fine 2023, 75 a fine 2024. Tenendo conto anche di tale indicazione, lo scenario CSC ipotizza il permanere del prezzo sui valori dei primi due mesi del 2023 fino a fine anno. A ciò seguirebbe un’ulteriore moderazione nel corso del 2024, su valori ormai vicini a quelli di equilibrio per il mercato mondiale. In questo scenario, il Brent si attesterebbe in media a 83 dollari nel 2023, in calo dai 101 del 2022, scendendo a 78 nel 2024. Questi valori, rispetto a quelli dello scenario CSC di ottobre, comportano una piccola revisione al ribasso per il 2023 (-8 dollari).
Nel 2022 si è registrata una crescita della domanda (+2,3 mbg), ma più ancora dell’offerta mondiale (+4,3 mbg, stime EIA). La seconda si è riportata così sopra i consumi. Quindi, il mercato mondiale nel 2022 è stato ben rifornito (+0,6 mbg), in aggregato. Le scorte di greggio OCSE sono risalite e a fine 2022 sono tornate quasi ai valori pre-crisi (-3,9%; Grafico 33). Ma si è verificata una redistribuzione dei flussi, con i paesi occidentali che acquistano meno petrolio russo, il quale è stato indirizzato verso altri grandi paesi asiatici. Questa complicata “transizione” nel 2022, in presenza di offerta abbondante, spiega perché il prezzo è in flessione ma resta più alto del “normale”.
La risalita dell’offerta nel 2022 è stata dovuta soprattutto alla maggiore estrazione negli USA e nei paesi OPEC, mentre la Russia non ha subito ripercussioni, continuando a estrarre 10,9 mbg. I consumi di petrolio sono cresciuti negli USA e in Europa e in vari emergenti, non in Cina dove sono rimasti stabili.
Nel 2023 e 2024 è atteso il proseguire di una eccedenza di offerta rispetto alla domanda, dato che l’estrazione si espanderebbe nei due anni (+1,2 e +1,5 mbg) a un ritmo di poco inferiore a quello dei consumi (+1,1 e +1,8 mbg). Nel 2023, è atteso un forte calo dell’estrazione in Russia (-1,1 mbg), mentre l’offerta sarebbe ancora in crescita negli USA e piatta nell’OPEC. Il gruppo di paesi OPEC e non-OPEC a febbraio ha notato un buon grado di aderenza dei singoli membri alle quote di produzione stabilite, prolungando l’accordo fino a fine 2023. La domanda è stimata tornare a crescere in Cina, insieme a vari paesi emergenti, mentre si appiattirebbe nei paesi occidentali.
In questo scenario, proseguirebbe la risalita delle scorte di greggio OCSE, più nel 2023 che nel 2024, riportandole ampiamente sui livelli pre-crisi. Questo lento percorso virtuoso nel mercato fisico mondiale motiva l’ipotesi CSC di un prezzo che prosegue la sua moderazione fino al 2024, pur restando di circa 10 dollari sopra il valore storico “di equilibrio”.
Lo scenario CSC si basa sull’ipotesi di un prezzo del gas in Europa sostanzialmente costante, sui livelli moderati raggiunti a inizio 2023 (50 euro/mwh, pari alla media febbraio-marzo) per i prossimi tre trimestri del 2023 e poi fino a fine 2024. Il prezzo TTF si assesterebbe quindi ben al di sotto dei 124 euro medi nel 2022. Questo comporta una netta revisione al ribasso rispetto allo scenario CSC di ottobre, quando si ipotizzavano prezzi ancora molto alti (204 in media nel 2023).
Il prezzo del gas europeo negli ultimi mesi si è significativamente abbassato (Grafico 34). Dopo il picco toccato nell’estate 2022 (236 euro in media in agosto e massimo storico giornaliero a 330), il gas ha virato al ribasso nel corso dei mesi invernali, scendendo a 53 euro a febbraio e a 47 a marzo 2023, un valore inferiore a tutti i dati mensili del 2022. Resta comunque più elevato dei valori pre-crisi: a fine 2019 era di appena 13 euro.
Scongiurati i timori di una scarsità di volumi in Europa nei mesi invernali, tra fine 2022 e inizio 2023, i mercati ora non incorporano più tale rischio nei prezzi correnti. Gli stock di gas sono rimasti significativi in Italia e negli altri principali paesi europei (e questo significa che il fabbisogno per stoccaggi nei prossimi mesi è più basso). L’offerta russa di gas ai paesi dell’Europa occidentale è stata ridotta in misura marcata nel 2022 rispetto agli anni precedenti (-52% in Italia attraverso il Tarvisio), ma la maggior parte dei paesi UE è stata in grado di trovare forniture alternative (altre fonti, altri esportatori) e anche di ridurre i propri consumi interni di gas, industriali e domestici (-9,8% in Italia nel 2022), in modo da limitare il fabbisogno di importazione. Peraltro, le condizioni climatiche hanno favorito i minori consumi.
Anche il prezzo del gas negli USA si è moderato molto a partire da fine 2022 (-73% a febbraio 2023 rispetto ad agosto, 2,38 da 8,79 dollari/mmbtu). Il livello, come in Europa, rimane più alto rispetto al pre-Covid (+46% da fine 2019). Resta il fatto che il rincaro negli USA era stato decisamente inferiore rispetto a quello in Europa (+292% in agosto 2022 da fine 2019, rispetto a +1.416%; nel mese di picco: 8,79 rispetto a 70,04 dollari/mmbtu). I due mercati sono correlati ma “separati”, dato che ancora oggi il gas è trasportato principalmente tramite gasdotti (via terra e sottomarini, ma non transoceanici), mentre quello liquefatto e trasportato via mare (GNL) conta meno.
I prezzi delle commodity non energetiche restano alti, sebbene in un quadro non omogeneo, che lascia spazio alla flessione del prezzo di alcune, ma anche a nuovi rincari. Questi ultimi sembrano essere legati al recente miglioramento delle attese di crescita per molti paesi avanzati ed emergenti, che sostiene le prospettive della domanda di varie materie prime (es. metalli).
Le quotazioni dei metalli sono risalite negli ultimi mesi, dopo la fase di moderazione nella seconda metà del 2022 (Grafico 35): rame +16,8% a febbraio 2023 da ottobre 2022, alluminio +7,1%. Invece, i prezzi agricoli proseguono in diminuzione: il grano registra un -9,9% negli ultimi mesi.
Le quotazioni, anche per le commodity in calo, sono molto più elevate di quelle pre-crisi: rame +47,1% da fine 2019, grano +87,2%. Da oltre due anni, i prezzi sono molto alti rispetto ai livelli passati. Dunque, i rialzi (che erano iniziati nella seconda metà del 2020) si sono rivelati persistenti, anche perché alle tensioni del 2021 si sono sommate nel 2022 le spinte al rialzo per i prezzi di varie commodity a seguito del conflitto in Ucraina, legate al timore che parte dell’offerta divenisse indisponibile (es. grano).
I dati ICSG sul mercato fisico mondiale del rame confermano nel 2022 la scarsità di offerta (-376mila tonnellate), ma in miglioramento rispetto al 2021 (-455mila) contrariamente a ciò che faceva temere il conflitto. Quindi, da un lato occorrono investimenti in nuova capacità produttiva e questo tiene alti i prezzi, ma dall’altro i mercati stanno “correggendo” al ribasso rispetto a rincari passati dimostratisi eccessivi.
Per il grano, invece, i dati IGC per la stagione 2022-23 stimano il proseguire dell’aumento della produzione, meno dei consumi mondiali, in una condizione di mercato ben rifornito (+6,9mila tonnellate). La situazione è migliorata rispetto al piccolo gap di offerta del 2021-22 (-2,2mila). Non si è registrato, comunque, il temuto “vuoto produttivo” a seguito della guerra in Ucraina.
Le previsioni elaborate nel corso del 2022 suggerivano già che le quotazioni di numerose commodity non energetiche sarebbero calate nel 2023. La Banca mondiale a fine ottobre (incorporando quindi nello scenario parte della moderazione dell’energia) ipotizzava per i prezzi dei cereali un parziale ribasso nel 2023 (-5,6%) e una discesa più marcata per i metalli (-15,0%), quest’ultima in linea con gli andamenti recenti dei prezzi. Per il 2024, viceversa, la previsione di Banca mondiale era di una sostanziale stazionarietà per i metalli (+0,8%) e un piccolo ribasso per i cereali (-0,9%). Lo scenario sembra dunque che la persistenza dei prezzi su valori elevati si possa prolungare ancora di un anno.
I paesi emergenti subiscono effetti eterogenei dal contesto caratterizzato nei paesi avanzati da inflazione e tassi d’interesse elevati. In particolare, questi ultimi determinano prospettive differenziate di crescita in relazione alla solidità delle finanze pubbliche e di bilanciamento delle partite correnti, che trovano espressione anche nella maggiore o minore tenuta dei tassi di cambio.
Nel 2022 la crescita dei paesi emergenti è stata del +3,9% e tutte le principali economie sono cresciute, tranne la Russia che ha registrato un segno negativo (-2,2%). Nel periodo di previsione 2023-2024, le economie emergenti sono attese crescere rispettivamente del +4,1% e del +4,5%. I tre quinti della crescita nel 2023 verrà dai contributi di Cina e India.
I paesi asiatici continueranno a essere il traino della crescita degli emergenti, contando per quasi un terzo del PIL mondiale (Grafico 36). Come l’anno precedente, i paesi più a rischio saranno gli emergenti europei, perché esposti alle pressioni inflazionistiche, alle incertezze dell’esito del conflitto ucraino e fortemente dipendenti dalle prospettive di rallentamento della locomotiva tedesca. Il Medio Oriente continuerà a beneficiare degli introiti derivanti dal livello elevato, seppur in calo, dei prezzi degli idrocarburi, che hanno un peso consistente nel paniere di esportazioni di quest’area geografica.
L’aumento dei prezzi nel 2023 è previsto essere sotto controllo per gli emergenti asiatici (Grafico 37). Viceversa, l’inflazione continua ad attestarsi su valori preoccupanti in Argentina, Turchia e Iran, dove l’aumento dei prezzi potrebbe arrivare rispettivamente intorno al +76%, al +51% e al +40%. Si registra un’elevata inflazione (oltre il +10%) anche in alcuni emergenti dell’Europa dell’Est (Polonia, Romania, Ungheria) e in alcuni paesi medio orientali o africani (tra cui Pakistan, Nigeria ed Egitto).
L’attività economica in Russia sarà fortemente influenzata dall’evolversi della guerra in corso, ma le stime prevedono una crescita del PIL quasi nulla nel 2023 insieme a una dinamica dei prezzi al consumo nell’ordine del +5,0%. Le attese di inflazione sono per ora invariate in Cina, poco sopra al +2,2%, e in India, attorno al +5,0% nel 2023, valori leggermente inferiori rispetto a quelle incorporate nelle ultime previsioni del CSC.
I paesi emergenti che esportano idrocarburi continuano a beneficiare di venti favorevoli alla crescita, soprattutto attraverso la realizzazione di significativi surplus commerciali (Russia e Arabia Saudita), o comunque, di un alleggerimento dei deficit nelle partite correnti (Nigeria e Iran). Molti paesi esportatori di idrocarburi hanno anche istituito dei fondi sovrani nazionalizzati e collegati al bilancio pubblico, ottenendo quindi un effetto di sollievo sul saldo di bilancio (Grafico 38).
L’India, insieme alle Filippine, è uno dei paesi più esposti dal lato delle partite correnti, importando gran parte degli idrocarburi necessari a soddisfare il proprio fabbisogno energetico. Egitto, Pakistan, Thailandia e Brasile sono tra le economie emergenti che manifestano un più evidente “deficit gemello”, ovvero un disavanzo simultaneo nelle partite correnti e nel bilancio pubblico. È rilevante notare come Turchia e Argentina, con evidenti problemi di iper-inflazione, manifestino anche squilibri sul piano fiscale e commerciale.
Non stupisce che proprio questi due paesi stiano scontando maggiormente fughe di capitali a seguito del rialzo dei tassi negli USA. Il cambio dollaro/peso argentino è in caduta libera da mesi, mentre la lira turca ha subito un crollo a seguito della guerra in Ucraina (Grafico 39). L’Argentina sconta anche l’incertezza politica legata all’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, che incide sugli investimenti. Il rischio di insolvenza si ripercuote sul tasso di cambio.
Il real brasiliano, che si svalutava in seguito alla pandemia, si è lievemente apprezzato a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina, seppure i dati più recenti indichino una battuta di arresto. Infine, da notare come, l’economia russa rimane un’economia poco diversificata e legata all’andamento del prezzo degli idrocarburi: il tasso di cambio del rublo è calato di pari passo con la discesa dei prezzi di gas e petrolio.
Il periodo di impasse legato all’uscita dalle politiche zero-Covid e il conseguente aumento dei contagi, ha lasciato più rapidamente del previsto la strada a una ripartenza veloce. Ciò è avvenuto anche sotto la spinta di un ritorno al turismo durante le vacanze del Capodanno lunare, a fine gennaio, in cui il volume dei viaggi turistici è aumentato del 23% su base annua e le entrate del turismo sono aumentate del 30%. Il settore dei servizi ha registrato i tassi di crescita più elevati, mentre l’industria non tiene ancora il passo, per via di una domanda internazionale ancora debole. Frenano soprattutto le esportazioni cinesi verso Stati Uniti ed Europa, in parte compensate dalle esportazioni verso la zona ASEAN.
I dati PMI confermano la ripartenza veloce dei servizi, in accelerazione a febbraio e con le aziende che segnalano il più rapido aumento dell'attività dallo scorso agosto. La ripresa è stata sostenuta dal più forte aumento di nuovi affari dall'aprile 2021, in rimbalzo dopo il ritiro delle restrizioni legate alle politiche zero-Covid. Gli indici PMI per la manifattura mostrano segnali di ripresa anche dal lato dei mercati esteri, con la crescita dei nuovi ordini di esportazione che ha raggiunto il massimo in quasi quattro anni. Per la manifattura, febbraio segna un ritorno alla crescita, con l’aumento sia della produzione che dei nuovi ordini. La ripartenza dell’industria dovrebbe accompagnarsi a nuovi aumenti dell'occupazione, rendendo l’offerta più solida e allentando quindi le pressioni sulle catene di approvvigionamento, con effetti positivi anche sui tempi di consegna.
Un’ulteriore spinta alla crescita proviene dal sostegno finanziario del Governo cinese al settore immobiliare, per facilitare il completamento delle costruzioni avviate, con effetti che si propagano su manifattura e servizi. Il provvedimento dovrebbe restituire dinamismo alla domanda di nuove abitazioni da parte delle famiglie.
La ripartenza cinese non sarà accompagnata da pressioni inflazionistiche perché, contrariamente a quanto accaduto in Europa e negli Stati Uniti, la spinta prevalente sarà sul lato dell’offerta e la politica monetaria manterrà un profilo moderatamente accomodante. Le pressioni sui prezzi nel frattempo sono rimaste sottotono, con le imprese che registrano solo lievi aumenti dei costi dei fattori di produzione e dei prezzi di vendita.
Per l’anno in corso, l’obiettivo governativo di crescita del PIL fissato intorno al +5% sembra quindi plausibile. La Cina è attesa mantenere lo stesso ritmo di crescita anche nel 2024.
Dopo la rapida crescita economica, trainata dal rimbalzo della domanda rimasta compressa durante la pandemia, l’economia indiana sta rallentando a causa dell'aumento dell'inflazione, della politica monetaria più restrittiva e della rupia più debole; fattori che stanno frenando la domanda stessa. Infatti, da un lato l’inflazione comprime i consumi delle famiglie, dall’altro i tassi di interesse elevati fanno da zavorra agli investimenti. La crescita del PIL rallenterà dal +6,8% del 2022 al +5,5% nel 2023. L'inflazione è attesa scendere da una media annua del +6,9% nel 2022 al +5,1% nel 2023. La Reserve Bank of India (RBI) ha aumentato il tasso repo di 25 punti base, al 6,50%, nel febbraio 2023, dopo un rialzo di 35 pb nel dicembre 2022. La RBI probabilmente alzerà nuovamente il tasso ufficiale nei prossimi mesi, portandolo al 6,75% entro la metà del 2023.
La bassa crescita delle economie avanzate si trasmetterà all’economia brasiliana attraverso vari canali, tra cui un più elevato costo del capitale, minori afflussi di liquidità dall’estero, minore turismo e domanda estera debole. Tassi di interesse in aumento nelle economie sviluppate implicano, infatti, costi di indebitamento più elevati nel Paese e ridotti afflussi di capitale. Il tasso di policy in Brasile è al 13,75%, mentre l'inflazione è pari al +5,8%, portando a un tasso di interesse reale molto restrittivo (intorno al +8%).
Nel complesso, il rallentamento della domanda mondiale implica volumi di esportazioni brasiliane inferiori, anche se i prezzi delle materie prime restano ancora relativamente elevati e portano sollievo alle partite correnti. Il PIL è atteso crescere dell'1,5% sia nel 2023, sia nel 2024.
La Russia è riuscita a contenere i danni subiti dalle sanzioni dei paesi occidentali conseguenti all’invasione dell’Ucraina e dalla riduzione dei quantitativi di gas esportati in Europa. Ciò grazie all’impennata dei prezzi del gas stesso, che ha in parte compensato gli effetti negativi delle citate conseguenze della guerra. La recessione nel 2022 è stata più contenuta del previsto (-2,2%) e nel 2023 si attendono timidi segnali di ritorno alla crescita (+0,3%). Tuttavia, l’elevato grado di incertezza sull’evoluzione del conflitto si ripercuote anche sull’affidabilità di tale scenario previsivo.
L’incertezza generata dalla guerra in Ucraina pesa in modo particolarmente marcato sulle prospettive di sviluppo delle economie emergenti. Il precipitare delle relazioni tra Occidente e Russia e il protrarsi delle tensioni tra USA e Cina spingono verso un cambiamento marcato nei rapporti tra le economie avanzate e alcune economie di peso nei paesi emergenti (Cina, Russia e Iran in primis). Il rischio è che la “faglia di attrito” si cicatrizzi in una nuova “cortina di ferro”, con il conseguente ritorno a un sistema di equilibri bipolari nell’arena internazionale.
Il tasso di cambio dell’euro sul dollaro, sceso sotto la parità a ottobre 2022, è risalito alla fine dell’anno e si posiziona, con una certa volatilità, intorno a 1,07 dollari nei primi mesi del 2023. Resta quindi sotto al precedente punto di minimo (febbraio-maggio 2020).
Il cambio effettivo nominale dell’euro (rispetto a 41 valute mondiali) ha registrato, invece, una dinamica molto più robusta, posizionandosi ampiamente sopra il minimo di tre anni fa. L’euro, infatti, si è rivalutato rispetto a un ampio insieme di valute, per gli effetti asimmetrici dell’invasione dell’Ucraina e i diversi tempi di reazione delle banche centrali nelle altre economie mondiali (Grafico 40).
Il rafforzamento del dollaro era iniziato nel 2021, con le pressioni inflazionistiche e le aspettative di un avvio del processo di normalizzazione delle politiche della FED. Si è accentuato nel 2022, con l’avvio effettivo del forte rialzo dei tassi USA. La risalita dell’euro nell’ultimo bimestre 2022 è associata all’accelerazione negli aumenti dei tassi da parte della BCE.
Inoltre, il recupero della moneta unica è stato favorito dal parziale rientro dei prezzi energetici, che avevano peggiorato maggiormente i conti con l’estero europei e le prospettive (rispetto a quelle USA), e da una crescita economica più robusta nell’Area euro di quanto atteso, a fronte degli effetti del conflitto in Ucraina. Il recupero dell’euro è parziale e soggetto a variabilità, perché i prezzi energetici restano alti, anche in prospettiva, e l’incertezza geoeconomica è ancora elevata. Un possibile ulteriore peggioramento dei rapporti con la Russia continua a rappresentare un rischio al ribasso per la moneta unica.
Il CSC assume nel biennio previsivo un cambio dollaro-euro stabile intorno ai valori di inizio 2023 (1,07). Ciò corrisponde a un livello poco sopra i valori medi del 2022 (1,05), dopo un calo dell’11,3% rispetto al 2021 (1,18).