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Per provare a ridurre l’inflazione, la BCE ha iniziato a rialzare il tasso di interesse ufficiale a luglio 2022, quando era a zero e, in poco più di otto mesi li ha alzati altre cinque volte e a ritmi molto sostenuti, mai meno di 50 punti base (vedi par. 7).
Sugli effetti restrittivi dei rialzi gli economisti sono quasi tutti concordi. A partire dalla stessa BCE, che lo scrive ripetutamente a ogni nuova mossa. La stretta monetaria, infatti, toglie inequivocabilmente risorse agli investimenti delle imprese e frena le nuove operazioni di finanziamento (e fa lo stesso per le famiglie e i consumi).
A causa di questi canali di impatto, tra loro legati, l’aumento dei tassi di interesse è tipicamente seguito da una frenata degli investimenti delle imprese. Anche per i consumi delle famiglie si determina un effetto recessivo, per motivi analoghi. E quindi, la stretta monetaria conduce quanto meno a un marcato rallentamento dell’economia, visto che vengono colpite due delle tre componenti della domanda.
Il punto è: fino a che punto i rialzi dei tassi hanno sviluppato pienamente la loro efficacia? In altre parole, quanto tempo impiegano i rialzi dei tassi a dispiegare tutti i loro effetti sulla dinamica del PIL? La risposta a questo interrogativo è importante perché, se non si conosce in anticipo il lag esistente, può accadere che a fronte di un rialzo dei tassi, nei primi mesi e trimestri, si abbia l’illusione che gli impatti sull’economia siano contenuti, correndo il rischio di alzarli troppo (Grafico A).
Come indicato dalla letteratura economica, le decisioni sui tassi si trasmettono quasi immediatamente sui mercati finanziari, mentre è molto più graduale la trasmissione sulle condizioni finanziarie di famiglie e imprese, e poi queste rivedono più lentamente le loro decisioni di consumo e investimento. Per questo i rialzi dei tassi impattano l’economia reale con ritardi ampi e variabili. L’ampiezza di questi ritardi è influenzata dalla struttura dell’economia, dalle aspettative sui mercati finanziari, dalle decisioni di famiglie e imprese, dall’interazione tra tutti questi fattori. Inoltre, la concomitanza con altri eventi economici (il rimbalzo post-pandemico, lo shock energetico), rende più complessa la valutazione dei “lunghi e variabili” ritardi della politica monetaria.
Evidenze empiriche mostrano che per l’Eurozona, in media, un rialzo dei tassi raggiunge la sua piena efficacia in termini di impatto sul PIL dopo un anno e mezzo, e sull’inflazione tra uno e due anni. Quindi i rialzi dei tassi decisi dalla BCE non hanno ancora sviluppato pienamente i loro effetti e ciò imporrebbe molta prudenza alla stessa Banca centrale.
Se, infatti, la politica monetaria deve evitare che una temporanea impennata dell’inflazione diventi un fenomeno persistente sostenuto da fattori di domanda, allo stesso tempo deve raggiungere l’obiettivo senza mettere a rischio la stabilità finanziaria e minimizzando gli impatti negativi sull’economia.
In questo senso, seppur con ampia incertezza, diversi elementi lasciano ritenere che le decisioni di politica monetaria già adottate siano più che sufficienti.
Innanzitutto, il peggioramento delle ragioni di scambio e la perdita di potere d’acquisto causati dai rincari dell’energia hanno già contenuto la domanda aggregata nell’Eurozona, attenuando le pressioni sui prezzi: nel 3° trimestre 2022 (ultimo disponibile) la domanda di beni e servizi era ancora sotto i livelli pre-pandemia.
Il numero di disoccupati continua a rimanere ben al di sopra dell’offerta di lavoro: nell’Eurozona supera di 6 milioni quello dei posti vacanti. Allo stesso tempo, la crescita dei salari è moderata, attorno al 3%, e non ci sono indizi di una spirale salari-prezzi.
Inoltre, la riduzione del prezzo del gas nei primi mesi di quest’anno, facendo venire meno la ragione principale dell’aumento dell’inflazione (nel 2022 ha pesato per circa il 60% sull’aumento dei prezzi), consentirà il lento rientro della stessa.
Infine, nell’Eurozona, le stesse aspettative di inflazione a 12 mesi che emergono dai mercati finanziari, cui è legato sia l’andamento dei salari che quello dell’inflazione, sono al momento al 2,7%, dal picco del 7,5% raggiunto ad agosto scorso (dati mensili); mentre le aspettative a lungo termine sono intorno all’obiettivo del 2%.
È quindi essenziale grande cautela da parte della BCE nel procedere a nuovi aumenti dei tassi perché la probabilità che questi si rivelino eccessivi rispetto alla situazione sta crescendo molto velocemente e rappresenta uno dei principali fattori di rischio dell’attuale quadro economico. I prestiti alle imprese nell’Eurozona, guardando medie trimestrali annualizzate, sono diminuiti a gennaio dell’1,3% da una crescita del 9,8% a ottobre scorso.
Rialzi eccessivi, infatti, avrebbero importanti effetti negativi sulla crescita di tutti i paesi dell’Area e potrebbero mettere a rischio la stabilità finanziaria. In questo senso, l’aumento senza precedenti dei tassi ufficiali da parte di un elevatissimo numero di banche centrali al mondo può avere ripercussioni negative difficilmente quantificabili al momento. Nell’Unione monetaria, anche per effetto della sua incompleta definizione e dei ritardi nella realizzazione dell’unione bancaria e del mercato dei capitali, il rischio di frammentazione dei mercati finanziari rimane elevato.
Se la letteratura indica tempi dilatati per l’impatto dei rialzi dei tassi sul PIL nell’Eurozona, è importante quantificare i ritardi per quel che riguarda l’economia italiana. Una semplice analisi econometrica realizzata dal CSC, che mette in relazione il tasso di interesse Euribor a 3 mesi, cioè il tasso interbancario preso come riferimento dell’Eurosistema (e i suoi ritardi) con il PIL, in un periodo che va dal 1996 al 2022, permette di stimare dopo quanti trimestri si materializza l’effetto della politica monetaria sulla crescita economica.
Nella specificazione econometrica sono incluse, oltre al tasso di interesse, altre variabili esplicative, tra cui il prezzo del gas (il cui impatto negativo maggiore sul PIL è già stato stimato dal CSC avvenire tra il quarto e il sesto trimestre successivo).
Dai risultati empirici (Grafico B) emerge che occorrono cinque trimestri affinché il tasso di crescita economica risponda ad una variazione del tasso di interesse. Con un impatto significativo (e negativo) pari, in media, a circa -0,6%.
L’analisi econometrica è stata condotta dal CSC anche con un modello multivariato (VAR), che include (come nella stima precedente) il tasso Euribor a 3 mesi e il PIL italiano, ma anche il rendimento medio dei BTP e il tasso di interesse sui prestiti alle società non finanziarie. La stima è realizzata nel periodo di 20 anni che va dal 3° trimestre del 1999 (a partire dall’introduzione dell’euro) al 4° trimestre del 2019 (per escludere la pandemia).
Il meccanismo di trasmissione così delineato tiene conto sia del canale del credito alle imprese (e alle famiglie), che si riflette sulle scelte di investimento (e di consumo), sia del canale dei rendimenti dei titoli pubblici italiani, che comporta un maggior onere per interessi dello Stato e, quindi, una minore possibilità di spesa pubblica.
La stima del VAR evidenzia che un aumento dei tassi di politica monetaria dell’1%, di cui l’Euribor a 3 mesi è utilizzato come una proxy, determina un effetto complessivamente negativo e statisticamente significativo, che raggiunge un picco in corrispondenza del 5° trimestre (pari a -0,42%; Grafico C). La risposta del PIL è inizialmente positiva (come confermato da una vasta letteratura empirica, che trova origine in Sims), ma in termini cumulati è univocamente negativa (pari a -0,57%) e persistente: si protrae per dieci trimestri, ovvero due anni e mezzo.
I risultati sono robusti all’utilizzo di diversi periodi alternativi di stima (come il 1999-2022, il 2005-2019, il 1999-2010) e all’inclusione di ulteriori variabili, quali il tasso di cambio euro-dollaro, il prezzo del petrolio e il tasso di disoccupazione italiano.
Le due stime del CSC convergono su un lag di cinque trimestri tra un aumento dei tassi e il massimo impatto negativo sul PIL. Dunque, l’impatto recessivo tarderebbe oltre un anno nel dispiegarsi interamente. Si tratta di stime sostanzialmente in linea con quelle citate prima riguardo l’intera Eurozona.
Applicando questo risultato allo scenario attuale, se si considera che il rialzo BCE è partito a inizio del 3° trimestre 2022, l’indicazione è che il maggior impatto recessivo in Italia si vedrà entro la fine del 2023, anche se la stretta inizia a frenare l’economia già nel corso di quest’anno.