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Per capire l’effetto dello shock nei prezzi delle commodity, in particolare dell’energia, del 2021 e 2022, sulla redditività dell’industria italiana, esistono diverse fonti statistiche, aggiornate al 2022.
I dati trimestrali di contabilità nazionale elaborati dall’ISTAT fotografano l’andamento del mark-up solo per il totale della manifattura italiana, senza uno spaccato settoriale, ma fornendo un utile dettaglio su andamento del prezzo dell’output e del prezzo dell’input, oltre che del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup); ne emerge un aumento dei margini nel 2020, un’erosione nel 2021 e per gran parte del 2022, un recupero a fine anno (si veda il par. 5).
In base ai dati annuali di contabilità nazionale, sempre di fonte ISTAT, è possibile ottenere stime più dettagliate per singoli comparti della manifattura (in base alla differenza tra deflatore del valore aggiunto e Clup), ma senza riuscire a monitorare gli andamenti relativi di prezzo dell’output e prezzo dell’input. Ne emerge un quadro piuttosto eterogeneo tra i diversi settori negli ultimi tre anni, ma senza la possibilità di spiegare compiutamente i driver di tali andamenti.
In questo Focus, per gli anni 2020, 2021 e 2022, si stima, con dati annuali, l’andamento del margine operativo lordo (MOL) nella manifattura, sia con un dettaglio per 16 settori, sia seguendo separatamente le dinamiche dei rincari degli input e degli aumenti dei prezzi di vendita.
Rispetto alle due fonti di contabilità nazionale, i risultati che derivano da questo esercizio vanno letti in modo leggermente differente: forniscono una stima dell’ampiezza dello shock sui prezzi, che non include altre risposte delle imprese (a parte l’aumento dei listini), né include gli interventi di policy adottati in tale periodo, specie dopo lo shock energetico.
Sulla base delle tavole input-output dell’economia italiana (tavola “simmetrica”, di fonte OCSE) si è calcolata, per ciascuno dei 16 settori della manifattura, la composizione percentuale dei suoi costi nel periodo pre-crisi (escluso il costo del lavoro).
Questo fornisce la base di partenza dell’analisi: una fotografia della situazione pre-pandemia (2018), su cui si è poi abbattuto lo shock ai prezzi delle commodity e dell’energia (Tabella A).
Risulta anzitutto la nota distinzione tra settori più o meno energivori (prima riga della tabella): per esempio, nel settore della metallurgia i costi energetici pesavano per l’11%, in quello dei minerali non metalliferi per il 9%, mentre nel settore automotive solo per l’1% e nel tessile per il 2%.
Emergono anche significative differenze tra settori che si approvvigionano direttamente di materie prime (agricole, metalli ecc.) e altri che, invece, acquistano maggiormente beni intermedi, specie dallo stesso settore, ma anche dagli altri settori della “filiera”.
Per esempio, per il settore alimentare, le materie prime non energy contano per il 17%, mentre i beni intermedi dello stesso settore contano per il 26% dei costi (su un totale di 34% degli intermedi). Questa è una distinzione importante per stimare di quanto sono aumentati i costi di ogni settore, perché le variazioni dei prezzi a monte, sui mercati internazionali, sono tipicamente più ampie di quelle registrate sui beni intermedi.
Oltre ai valori che si ritrovano lungo la “diagonale” della matrice degli input (es. l’incrocio “settore alimentare che acquista input alimentari”), non vanno tralasciati gli altri beni che il singolo settore acquista dagli altri settori della manifattura. Questi valori possono, in modo piuttosto aggregato, disegnare il concetto di filiere produttive.
Continuando l’esempio dell’alimentare, sommando al 26% della diagonale anche l’8% dei beni che viene acquistato da altri comparti (chimica, carta e stampa, gomma-plastica ecc.), si arriva appunto al 34% totale di costi per “beni intermedi”. L’incidenza dei beni intermedi in tale settore, peraltro, è di gran lunga più contenuta rispetto a quella nell’attività metallurgica, al 55% (dove la quota dei beni intermedi del proprio settore arriva al 40%), o quella del settore dei prodotti in metallo, al 65%. Tra i comparti in cui l’incidenza totale degli input intermedi è più alta, ci sono anche il settore della meccanica strumentale (63%), le apparecchiature elettriche (62%), l’ automotive (59%) e gli altri mezzi di trasporto (58%).
Per calcolare l’aumento dei costi dovuto ai rincari di energia e altre materie prime, si sono applicate a questa struttura pre-crisi le variazioni dei prezzi internazionali di tali commodity negli anni oggetto di analisi (prezzi in dollari tradotti in euro, fonte Refinitiv e Banca mondiale).
Come noto, le maggiori variazioni si sono avute per il prezzo del gas (+397% e +163% nel 2021 e 2022). Ma anche gli altri rincari sui mercati delle commodity sono stati significativi, sia per le derrate agricole (+20% e +27% nel 2021-2022), che per i metalli (+42% nel 2021; Grafico A).
Per la parte di costi che corrisponde ad acquisti di beni intermedi (es. un’impresa del settore alimentare che acquista biscotti, da farcire con la propria crema, invece di acquistare il grano), si è applicata la variazione dei prezzi alla produzione del settore coinvolto.
Una quota significativa dei costi in molti settori è relativa all’acquisto di servizi (inclusi nella voce “altro” nella tabella). Alcuni di questi costi sono stati tenuti invariati, perché non coinvolti in misura significativa dai rincari delle commodity (es. servizi professionali).
Per i costi che nelle tavole I/O sono imputati alla distribuzione all’ingrosso e al dettaglio e ai servizi di trasporto, pari a una quota ampia del totale in tutti i settori manifatturieri, è stata applicata la variazione dei corrispondenti prezzi alla produzione dei servizi nel 2020-21-22, per misurare l’aumento dei costi (dovuto soprattutto al caro-carburanti) che le imprese hanno subito.
Per ogni settore, è stato incluso nel calcolo anche l’aumento del costo del lavoro, in base alle dinamiche del Clup nel triennio di studio, calcolato sulla base dei dati settoriali ISTAT.
L’andamento del Clup è stato molto eterogeneo, dopo un calo generalizzato nel 2020: alcuni settori hanno registrato un deciso aumento nel 2021, proseguito nel 2022, come l’industria alimentare (+20,5% nel 2022 sulla media 2018-19), il settore tessile (+22,3%), la gomma-plastica (+15,8%), la chimica (+15,8%) e i mezzi di trasporto (+16,5%). Altri, al contrario, hanno ridotto il Clup sia nel 2021 che nel 2022, come ad esempio il legno (-11,3% nel 2022 rispetto la media 2018-19), la fabbricazione di computer ed elettronica (-9,4% nel 2022 rispetto la media 2018-19) e la farmaceutica (-4,1% sempre nel 2022 rispetto la media 2018-19). Il Clup della metallurgia, invece, è diminuito nel 2021 (-11,7%), per poi aumentare l’anno successivo (+6,1%; -5,7% nel 2022 sulla media 2018-19).
In risposta al balzo dei costi, le imprese italiane hanno ritoccato al rialzo i loro listini di vendita, in modo molto marcato se confrontato con precedenti fasi di rincaro. La misura di questi rincari è fornita dai prezzi alla produzione, di fonte ISTAT (medie annue di dati mensili), disponibili per i 16 settori oggetto di studio con qualche rielaborazione, dato che le due classificazioni non coincidono esattamente (Grafico B).
L’aumento dei prezzi di vendita è avvenuto in Italia, nel corso del 2021, con un ritardo di vari mesi durante i quali le imprese hanno assorbito i rincari. Nei dati annuali questo ritardo viene in parte nascosto.
In media nel 2021 l’aumento dei prezzi alla produzione nel settore manifatturiero è stato di +6,5%, con una variazione molto alta per la metallurgia (+32%), ma contenuta invece per gli altri settori (+2% nel tessile, +3% nell’alimentare). Questo divario è chiaramente dovuto agli ampi rincari delle quotazioni dei metalli nel 2021, come ad esempio il rame (+50,9%), il ferro (+48,5%) e l’alluminio (+45,1%).
La maggior parte degli aumenti dei prezzi di vendita si è concentrata nell’ultimo anno, il 2022 (+13% in media nella manifattura), quando al balzo delle quotazioni agricole e dei metalli del 2021 si sono sommati i rincari energetici, in particolare del gas, ma anche petrolio e carbone, rendendo non più sostenibile il mantenimento invariato dei listini industriali. I ritocchi ai listini sono stati piuttosto eterogenei: i più intensi ancora nella metallurgia (+23%) ma anche nei minerali non metalliferi (+20%), mentre i meno intensi nella farmaceutica (+2%), elettronica (+5%), altri mezzi di trasporto (+5%) ed automotive (+6%).
Il risultato che emerge da queste elaborazioni in termini di margini operativi, per 16 settori del manifatturiero (espressi come MOL in percentuale del fatturato, per avere una misura confrontabile tra i diversi settori) è di andamenti piuttosto disomogenei, sia negli anni, sia tra settori (Grafico C).
È possibile, infatti, individuare dinamiche molto differenti tra comparti, rispetto ad un totale di -1,8 punti percentuali in media nel 2022 sul 2018-19. Alcuni settori subiscono un’erosione dei margini nel 2021 e recuperano nel 2022: è il caso dei minerali non metalliferi (da 14,3% in media nel 2018-19, a 8,5% nel 2021, ma poi a 10,7% nel 2022) e anche della meccanica strumentale.
Altri settori recuperano margini nel 2021, ma perdono nel 2022, come gli altri mezzi di trasporto (da 11,6% in media nel 2018-19 a 10,9% nel 2021 ma poi a 8,7% nel 2022).
Ci sono anche settori che vedono gradualmente crescere i margini in tutto il triennio. Per esempio, i prodotti in metallo (da 15,7% in media nel 2018-19 a 18,8% nel 2022). Si consideri, tuttavia, che alcuni settori presentano ancora, nel 2022, ampi gap rispetto al pre-Covid e si tratta, in alcuni casi, proprio di settori per cui si stima un aumento dei margini (per esempio legno-carta -6% in termini di valore aggiunto, metallurgia e prodotti in metallo -1,9%).
Viceversa, altri settori subiscono una erosione della redditività sia nel 2021 che nel 2022. Ad esempio, l’alimentare (da 10,3% in media nel 2018-19 a 5,7% nel 2022), ma anche l’elettronica e il tessile.
Questa eterogeneità di andamenti è coerente con l’indicazione dei dati trimestrali sul mark-up: queste stime indicano che, attorno a un risultato medio di margini solo in lieve calo nel 2021-2022, si è avuta una significativa dispersione di andamenti, sia in calo, sia in aumento.
Tendenzialmente, i settori più a monte delle filiere produttive hanno ottenuto risultati meno negativi dei settori posti più a valle (per es. la farmaceutica, gli alimentari, l’automotive). Questi ultimi, infatti, a diretto contatto con la fase della distribuzione commerciale (che è riuscita a tenere sostanzialmente costanti i suoi margini) e con il consumo finale (compresso per buona parte del periodo di analisi) hanno avuto più difficoltà nel ritoccare al rialzo i listini di vendita.