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Dopo la crisi finanziaria del 2008, le piccole e medie imprese italiane avevano avviato un graduale percorso di rafforzamento patrimoniale, grazie anche ad alcuni anni di bassi tassi di interesse - dal 2016 - e a un crescente rafforzamento degli istituti di credito. In virtù di un aumento della capitalizzazione e di una riduzione del livello medio di indebitamento (per le PMI, il rapporto tra debiti finanziari e capitale netto è progressivamente diminuito a partire dal 2011, arrivando al 66,9% nel 2019, da 99,5%), anche la sostenibilità del debito era migliorata, consentendo al sistema produttivo italiano di arrivare alle porte della pandemia in una situazione di maggiore solidità patrimoniale.
Nel 2020, nonostante lo shock dato dai vincoli all’attività economica, le ingenti misure di sostegno introdotte dai Governi e dalle Banche Centrali hanno permesso alle imprese dei principali paesi avanzati di resistere ai mesi più duri della pandemia, registrando poi diffusi recuperi, pur se di entità e intensità diversi. In Italia, un sistema produttivo caratterizzato da piccole e medie imprese, flessibili e più rapide, inserite in catene di fornitura spesso più corte e locali rispetto ad altri competitor europei e internazionali, ha inoltre contribuito a una ripresa sostenuta dopo la crisi pandemica.
Nel 2021, secondo i dati dell’ultimo Rapporto PMI di Cerved (novembre 2022), le PMI sono state in grado di cogliere appieno i benefici del recupero post-Covid, registrando una diminuzione delle imprese in area di rischio: dal 10,7% del 2020 al 9,0% (dopo che erano salite rispetto al 7,0% del 2019). Nel 2021 erano anche aumentate le imprese in area di solvibilità, dal 59,3% nel 2020 al 66,5% (dopo la flessione rispetto al 64,5% del 2019).
Secondo le stime Cerved, la dimensione aziendale si conferma correlata al rischio: le medie imprese sono più solide delle piccole, con rispettivamente il 6,6% delle prime in area di rischio nel 2021, contro il 9,6% delle seconde. Le imprese di minori dimensioni sono anche quelle che hanno subito un aumento più marcato della rischiosità nel 2020, passando dal 7,3% del 2019 all’11,4%, mentre le grandi aziende in area di rischio, inserite per confronto, erano passate dal 5,0% del 2019 al 6,6% nel 2020.
A conferma della reattività delle piccole imprese italiane, dopo le difficoltà del 2020 la percentuale di piccole imprese in area di solvibilità è aumentata di 7,5 punti nel 2021, mentre sono diminuite di 1,8 punti quelle in area di rischio e di 5,7 quelle in area di vulnerabilità (Grafico A).
Inoltre, nel confronto internazionale l’indebitamento delle PMI italiane rimane sostanzialmente in linea con quello delle imprese dei principali partner europei, nonostante la sostenuta dinamica dei prestiti negli ultimi anni favorita dalle garanzie pubbliche di emergenza nel 2020: nel 2021, secondo i dati raccolti da BACH, la quota di capitale e riserve sul totale delle passività per le PMI è pari al 42,6% in Italia, meglio del 36,5% in Francia e poco sotto il 48,0% in Germania. Le piccole e medie imprese – grazie alla loro capacità di esser rimaste nelle catene globali del valore e di sostenere in filiera tante eccellenze italiane – hanno quindi contribuito in modo determinante alla tenuta dell’occupazione e ai record registrati dall’export, oltre che rappresentare un’opportunità per i percorsi di reshoring che si dovessero avviare in Italia.
Nel 2022 però questo processo di recupero, appena iniziato, ha dovuto confrontarsi con le conseguenze dell’aggressione russa all’Ucraina, lo shortage di materie prime e la crisi energetica. Shock che, con l’impennata dell’inflazione, il conseguente incremento dei tassi di interesse e quindi peggiori condizioni di accesso al credito, stanno causando una erosione del livello di liquidità rispetto alle esigenze operative.
In prospettiva, secondo stime Cerved, il tasso di deterioramento dei prestiti aumenterà per le PMI nel 2023, risentendo della bassa crescita prevista nell’anno. Rimarrà comunque lontano dai massimi raggiunti nel 2012 e avrà dinamiche non diverse da quello per le grandi imprese (Grafico B). Il miglioramento del tasso di deterioramento nel 2024 (dal 3,8% del 2023 al 3,4%) conferma le microimprese come la categoria più rischiosa (3,6%), seguite dalle medie imprese (2,9%) e dalle grandi (2,7%), ma vede le piccole con il dato migliore (2,6%). In questo contesto sfavorevole, le piccole imprese potrebbero però risentire maggiormente del graduale esaurirsi delle misure pubbliche di sostegno al credito.
Sottostante a questo scenario, Cerved, nel suo Cerved Industry Forecast di gennaio 2023, prevede il fatturato delle imprese in generale accelerazione nel 2024, rispetto alla frenata del 2023, sia nello scenario base (+1,2%), sia in quello peggiore, caratterizzato da una persistenza delle tensioni sui prezzi delle materie prime e del clima di incertezza. La sostenibilità del debito e le previsioni variano però tra i diversi settori, anche in modo rilevante: i servizi non finanziari e il sistema moda sono previsti crescere a doppia cifra (16,1% e 13,3%, rispettivamente, 2021-2024); altri settori, più colpiti dai rincari energetici e dallo shortage di materie prime (es. produzioni di carta, cemento e calce, vetro, mangimi per animali e imballaggi in metallo), potranno registrare performance inferiori anche di 20 punti percentuali rispetto ai settori migliori. In termini complessivi, grazie alla prevista ripresa della redditività e alla contenuta leva finanziaria, la capacità delle imprese di ripagare i propri debiti nel medio termine è ancora elevata. In assenza di un significativo deterioramento delle condizioni economiche dell'industria, la vulnerabilità del settore produttivo rimarrebbe quindi contenuta.
Le imprese fragili sono, in generale, individuate come quelle non più in grado di operare secondo le normali condizioni di mercato e di coprire i costi del debito con i profitti correnti, divenendo dipendenti dai creditori per continuare a esistere. Le loro caratteristiche peculiari sono state variamente definite dalla letteratura, così come gli effetti sulla crescita del paese del loro mantenimento in vita, visto che comporterebbero un’allocazione errata del capitale. Una serie di analisi ha tentato di comprendere quali tra le imprese che ricevono prestiti bancari, garanzie pubbliche o sostegno dagli investitori possano beneficiare di un tentativo di salvataggio, o quantomeno un sostegno, e quando invece sarebbe auspicabile, per l’economia nel suo complesso, incoraggiare il processo di "distruzione creatrice", in cui le imprese falliscono e nascono secondo le regole di mercato. Una riflessione emersa nuovamente durante la pandemia, non solo in Europa o negli Stati Uniti, in cui la rapidità con cui era necessario rispondere alla crisi diffusa di liquidità non ha permesso una ponderata distinzione tra le imprese beneficiarie, anche per non rischiare di sottostimarne i collegamenti indiretti e non immediatamente individuabili.
In questi stessi anni, infatti, è emersa con forza l’importanza di catene di fornitura sicure e resilienti, evidenziando la stretta interdipendenza tra imprese, esistente in molte produzioni e ponendo al centro dell’attenzione non tanto le singole aziende ma il loro ruolo all’interno delle filiere. Un cambio di prospettiva che trasforma anche l’approccio con cui si guarda alle imprese di minori dimensioni: non solo per la loro numerosità e rilevanza per il valore aggiunto e l’occupazione, ma anche per il loro contributo indiretto alla crescita. Inoltre, è opportuno sottolineare l’eccezionalità dello shock che ha rappresentato il lockdown, in cui una serie di misure restrittive della mobilità, a livello globale, hanno di fatto impedito alle imprese di operare, investire e produrre ricavi, trasformando anche imprese sane e profittevoli in apparenti “zombie”. Ancor più importante è soffermarsi sulla mobilità di tale status: le imprese possono entrare in uno stato di difficoltà, rimanerci per qualche esercizio e poi uscirne, anche in percentuali rilevanti.
Sulla base delle informazioni di bilancio e degli score di rischiosità, Cerved ha elaborato una stima delle imprese italiane più fragili. Sono state analizzate le imprese di capitali di cui è già disponibile il bilancio 2021, pari a oltre 953.500 imprese. Rispetto alla dimensione d’impresa, queste società sono per il 79,6% microimprese, per il 16,4% piccole imprese, per il 3,2% medie e per lo 0,8% grandi imprese. Le sole PMI sono, quindi, il 19,6% del campione Cerved. Nell’ambito di queste imprese sono state individuate le fragili, distinte da quelle solide.
Per quanto riguarda la composizione settoriale, secondo la classificazione del Sistema informativo sul Rischio di Credito, le società di capitali di cui è disponibile il bilancio 2021 sono composte per l’1,7% di aziende agricole, il 15% da imprese di costruzioni, l’11,4% dall’industria, il 70,1% dai servizi e l’1,8% da utility. Considerando le sole PMI, queste percentuali variano in modo rilevante: mentre la quota di aziende agricole e di costruzioni rimane costante, sale molto la percentuale ascrivibile all’industria (25,4%) e scende quella dei servizi (55,7%); le utility salgono di poco, al 2% (Grafico C).
Nell'ambito delle circa 953.000 imprese considerate, solo il 2,4% può essere considerato fragile. Una percentuale simile, il 2,6%, sono le fragili tra le PMI, e ciò conferma la sostanziale solidità delle piccole e medie imprese italiane. Inoltre, la quota di imprese fragili è relativamente contenuta nei diversi macrosettori, sia tra le imprese di tutte le dimensioni sia tra le PMI (Grafico D). Unico punto critico è che tra il 2019 e il 2021 il numero di imprese fragili si è ridotto considerando il totale imprese (-17,2%), mentre è aumentato tra le PMI (+27,4%).
Considerando i singoli settori a un dettaglio ancora maggiore (micro-settori), tra i primi trenta per incidenza delle imprese fragili solo quattro non sono collegabili, direttamente o indirettamente, alle restrizioni adottate con la pandemia nel 2020: la maggior parte di questi 30 micro-settori sono infatti legati alla convivialità, alla ristorazione o ai trasporti. Questi 30 micro-settori pur essendo relativamente piccoli, in termini di quota di imprese sul totale del campione Cerved (meno del 10%), racchiudono un’ampia quota delle imprese fragili (26%). Ciò indica che, come era normale attendersi, la fragilità delle imprese nei dati sul 2021 (post-pandemia) riguarda principalmente i settori più colpiti dalle restrizioni anti-Covid.
L’aumento o la diminuzione delle imprese fragili non significa che nel tempo ad essere fragili siano sempre le stesse: la maggioranza delle imprese che erano fragili nel 2019 sono risultate sanate nel 2021 (51%; Grafico E). Ancor più pronunciata è la differenza all’interno delle PMI: le imprese sanate nel 2021 (rispetto al 2019) sono oltre il 66,4%, mentre la somma di imprese fuori dai radar (assenza di informazioni sullo “status”), in procedura e ancora fragili è del 33,6%.
Questa elevata mobilità tra lo status di fragile e quello di “sanata” va letto accanto al dato sull’aumento di PMI in fragilità nel 2021, sopra citato: i dati Cerved rassicurano sul fatto che anche le piccole e medie imprese divenute fragili in larga maggioranza riescono a uscire da situazioni di difficoltà. Infatti, considerando il totale delle PMI (fragili e no), quelle che sono ancora fragili dal 2019 al 2021 sono solo lo 0,6%.
La mobilità delle imprese dentro e fuori lo status di “fragile” emerge anche dall’analisi dei vari settori. La percentuale delle imprese sanate è oltre il 40% in tutti i settori per il totale delle imprese, e oltre il 57% in tutti i settori per le PMI (Grafico F). Nel biennio 2019-2021 le piccole e medie imprese si dimostrano, quindi, più mobili in termini di status rispetto al totale delle imprese: numericamente sono molte di più quelle che entrano ed escono dalla condizione di fragilità.