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La dinamica delle esportazioni italiane si è dimostrata robusta agli shock globali degli ultimi anni, sia in termini assoluti che relativamente a quella degli altri principali esportatori europei.
Negli ultimi quattro anni, infatti, le vendite all’estero di beni italiani sono cresciute complessivamente del 13,8%, a prezzi costanti (dati doganali), nonostante la caduta subita nel 2020. La performance italiana risulta nettamente migliore di quelle della Spagna (+7,6%) e soprattutto della Germania (-2,0%) e della Francia (-4,7%). Si è creata, quindi, un’ampia forbice rispetto alle esportazioni tedesche e francesi, che nel 2022 si posizionano ancora sotto ai livelli pre-Covid (Grafico A).
Su questa performance molto positiva influiscono numerosi fattori, in buona parte strutturali, che hanno sostenuto la competitività dell’industria italiana in un contesto internazionale reso estremamente sfidante e incerto dagli shock del Covid e dell’invasione russa in Ucraina, dalle tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina e dalle trasformazioni produttive connesse alla doppia transizione green e digitale.
In questo Focus passiamo in rassegna, senza pretesa di esaustività, i principali punti di forza della manifattura italiana, che potranno sostenere la dinamica dell’export anche nell’orizzonte previsivo.
In primo luogo, la forte e dolorosa contrazione della base manifatturiera, in atto da più di dieci anni, è andata di pari passo con un rafforzamento dell’insieme delle imprese attive, in termini di dimensione, internazionalizzazione e resilienza agli shock.
Il numero delle imprese manifatturiere in Italia, infatti, si è drasticamente ridotto del 23,7% dal 2007 al 2020 (-112mila unità). Una dinamica simile è stata registrata in Spagna (-21,0%), mentre in Francia il calo è stato molto più contenuto (-7,0%) e in Germania, al contrario, è avvenuto un significativo aumento (+10,1%).
La contrazione della base manifatturiera in Italia è stata accompagnata, soprattutto negli ultimi anni, da una significativa ricomposizione dimensionale: dal 2014 il numero di imprese medie e grandi è in aumento, mentre quelle piccole e soprattutto micro sono ancora in calo. Anche in questo caso, si ritrova una dinamica simile in Spagna; in Francia e Germania, invece, sono in aumento le imprese micro e quelle medie risultano in diminuzione.
Le imprese italiane medie e grandi sono quasi tutte esportatrici: più di nove su dieci, una percentuale più elevata di quella registrata per lo stesso gruppo dimensionale nelle altre tre grandi economie europee considerate. Di conseguenza, alla ricomposizione dimensionale ha corrisposto un aumento della quota di imprese esportatrici italiane, dal 20,8% nel 2012 al 22,8% nel 2019 (escludendo il 2020, a causa delle chiusure internazionali da Covid). Tale quota è in calo in Germania, seppure su livelli più elevati (33,8%), mentre è rimasta sostanzialmente stabile in Spagna (21,6%) e Francia (11,2%), dove è molto più bassa.
In sintesi, la ricomposizione dimensionale italiana ha comportato uno spostamento delle risorse verso le unità più efficienti, più produttive, più attive nei mercati esteri.
L’industria italiana è fortemente integrata nelle filiere produttive internazionali, in modo molto diversificato, per prodotto e per posizione lungo le catene globali del valore. È ben posizionata, in particolare, nei nodi a monte delle filiere, come fornitrice di semilavorati di alta qualità. Diversificazione e flessibilità hanno permesso alle imprese italiane di subire relativamente meno i colli di bottiglia e gli shock asimmetrici che hanno colpito le supply chain internazionali. A differenza di quanto accaduto al manifatturiero tedesco, maggiormente esposto alle forniture dall’Europa dell’Est e dal resto del mondo (soprattutto attraverso i Paesi Bassi, principale paese di origine dell’import tedesco) e specializzato in settori produttivi, come l’automotive, fortemente frammentati a livello globale e dipendenti dalla componentistica cinese e di altri paesi asiatici.
Ciò è evidenziato dalla percentuale estremamente elevata di imprese manifatturiere tedesche che denunciano carenze di materie prime e prodotti intermedi, che ha raggiunto un picco del 92% a inizio 2022 e rimane ancora al 62% a inizio 2023. Una quota molto maggiore di quella registrata negli altri paesi europei: in Italia, dove la scarsità è comunque cresciuta molto fin dal 2021, si è attestata intorno al 20% nell’ultimo anno (Grafico B). È vero, però, che i colli di bottiglia, che hanno colpito in modo particolarmente severo le imprese tedesche, hanno effetti indiretti sull’attività manifatturiera anche in Italia, date le strette connessioni produttive tra i due paesi.
La sovra-performance del manifatturiero italiano è spiegata anche dalla dinamica degli indicatori di competitività dell’export, sia quelli tradizionali di costo e prezzo sia quelli che misurano i miglioramenti qualitativi dei beni esportati.
Dal lato dei costi, nel settore manifatturiero italiano si è registrata, almeno dal 2015, una dinamica contenuta del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup), con un’evoluzione favorevole rispetto agli altri principali paesi europei e in particolare alla Germania. Ciò rappresenta un profondo cambio di passo rispetto ai precedenti aumenti del Clup in Italia (soprattutto prima della crisi finanziaria globale del 2008), fuori scala rispetto a ciò che era avvenuto nel resto d’Europa. Secondo stime CSC, dal 2000 al 2014 la perdita di competitività di costo del manifatturiero italiano può essere associata a una minore crescita dell’export di poco meno di un punto percentuale all’anno. Al contrario, tale fattore ha offerto negli ultimi anni un contributo positivo di circa 2-3 decimi di punto all’anno.
Inoltre, l'aumento dei prezzi degli input intermedi nell’ultimo biennio, legato al balzo di quelli delle commodity e in particolare dell’energia, non ha fatto perdere competitività all’industria italiana grazie al fatto che i prezzi sono cresciuti anche altrove in Europa; nei confronti degli Stati Uniti, dove i prezzi energetici sono saliti di meno ma quelli di altre commodity almeno altrettanto, ha giocato un ruolo positivo anche la svalutazione dell’euro sul dollaro.
Il contenimento del costo del lavoro, specie attraverso guadagni di produttività, resta una priorità per sostenere la competitività, anche a fronte del balzo dei costi energetici, che ha messo sotto pressione i margini delle imprese di alcuni settori manifatturieri (si veda il Focus 5).
Allo stesso tempo, è proseguito un trend di lungo periodo di ricomposizione intra-settoriale dell’export italiano su prodotti di qualità, a maggiore valore aggiunto. Una misura indiretta della qualità dei beni esportati è ricavata dal rapporto tra i valori medi unitari dell’export e i prezzi alla produzione dei beni destinati ai mercati esteri. L’indicatore riflette tutto ciò che nell’andamento del valore non è spiegato dalla dinamica dei prezzi; in particolare, un suo aumento può segnalare la ricomposizione dei flussi di export verso beni più evoluti.
In base a questa misura, l’export manifatturiero italiano è stato sostenuto da una ricomposizione qualitativa più rapida di quella tedesca e francese, sia nel lungo periodo che nell’ultimo triennio. Questo risultato è robusto a livello settoriale: i comparti manifatturieri che hanno registrato guadagni di qualità relativamente più elevati sono quelli che hanno ottenuto una migliore performance dell’export, rispetto agli stessi settori tedeschi e francesi (primo e secondo riquadro nel Grafico C).
È interessante notare che questa relazione è assente, invece, tra export italiano e spagnolo (ultimo riquadro nel Grafico C): la performance settoriale italiana rispetto alla Spagna è spiegata dalla dinamica dei prezzi relativi.
Una competizione di prezzo che risulta meno importante rispetto alla Francia e non significativa con la Germania. Nei confronti del principale esportatore europeo, appunto la Germania, hanno maggiore peso fattori di competitività non di prezzo.
La crescita dell’export italiano risulta superiore a quello tedesco e francese in tutti i settori manifatturieri, a eccezione dell’abbigliamento e pelle (primi due riquadri del Grafico C).
In termini assoluti, a trainare la crescita italiana sono stati i prodotti farmaceutici, quelli petroliferi e gli altri mezzi di trasporto (esclusi gli autoveicoli). Hanno avuto un ruolo anche fattori particolari: il farmaceutico ha beneficiato della produzione di medicinali anti-Covid; nel mercato dei raffinati petroliferi, colpito dalle conseguenze del conflitto russo, è molto aumentata la domanda di prodotti raffinati per i paesi, come l’Italia, attrezzati per soddisfarla; gli altri mezzi di trasporto hanno registrato vendite eccezionali, specie nel comparto marittimo (mentre resta debole quello aerospaziale). Andamenti che dimostrano, comunque, la capacità degli esportatori italiani di cogliere le opportunità nei mercati più dinamici, in particolare quello nord-americano. Per questi tre settori, infatti, gli Stati Uniti rappresentano il primo mercato estero di destinazione (nel farmaceutico sono dietro al Belgio, che costituisce però un grande hub di distribuzione logistica).
Viceversa, l’export di settori centrali del manifatturiero italiano, come macchinari e impianti, metalli e prodotti in metallo, autoveicoli, è cresciuto molto meno nell’ultimo triennio, attestandosi nel 2022 ancora intorno ai livelli pre-Covid (Tabella A). Tale dinamica sconta una debolezza settoriale comune agli altri paesi europei: la performance tedesca e francese è stata peggiore (sotto il livello pre-Covid); ciò ha pesato soprattutto sull’export manifatturiero tedesco, data la sua forte specializzazione nell’ automotive (pari al 16,7% del totale nel 2022, ben dieci punti percentuali in più rispetto all’Italia).
Tra i paesi di sbocco gli Stati Uniti hanno offerto il maggiore contributo all’espansione dell’export italiano (+4,1 punti percentuali, su un totale di 30% in valore); superando la Francia al secondo posto come destinazione delle vendite (10,4% contro 10,0%). Il mercato tedesco resta saldamente in prima posizione come quota (12,4%), contribuendo in modo sostanziale, quasi pari al mercato USA, all’aumento dell’export italiano (+4,0 punti; Tabella B).
Il tasso di aumento più elevato delle vendite italiane, però, si è registrato in Belgio e nei Paesi Bassi, che rappresentano dei centrali nodi logistici nella distribuzione e nelle filiere internazionali. Ciò fornisce un ulteriore indizio del rafforzamento delle connessioni commerciali e produttive dell’Italia in Europa e con il resto del mondo.
La debole performance verso il Regno Unito, invece, è da ricondurre alla sua uscita dall’Unione europea nel gennaio 2020. Il nuovo Accordo Commerciale e di Cooperazione, entrato in vigore nel gennaio 2021, ha avuto il merito di ridurre l’incertezza geoeconomica, di istituire rapporti preferenziali e di cooperazione in numerosi ambiti economici, giuridici e sociali, di assicurare l’assenza di dazi; ma non ha eliminato le barriere non tariffarie e le frizioni insorte nei servizi finanziari, nelle qualifiche professionali, in alcuni ambiti del level playing field (concorrenza, sussidi, ecc.), nello scambio di dati. Secondo stime CSC, l’impatto della Brexit può essere valutato in una minore crescita delle vendite italiane in UK di 16 punti percentuali cumulati. Un effetto negativo ancora più forte, di circa 24 punti percentuali, è stimato per le vendite tedesche, che infatti si sono ridotte nel periodo considerato. L’impatto è stato massimo dal lato delle importazioni, sia italiane che tedesche, dal Regno Unito (circa -37% cumulato rispetto allo scenario senza Brexit).
Infine, la presenza italiana in Cina resta debole: vi è destinato il 2,6% delle vendite all’estero, contro il 6,8% di quelle tedesche. Anche se, nonostante le difficoltà incontrate nei rapporti economici e politici con la Cina nell’ultimo triennio, le vendite italiane hanno registrato un aumento robusto (di oltre un quarto, in valore) e nettamente maggiore rispetto a quelle tedesche.
In conclusione, l’export italiano si è dimostrato più dinamico di quello tedesco e francese, in quasi tutti i settori e mercati di destinazione. Questo miglioramento è legato in larga parte a fattori strutturali, come il rafforzamento della base manifatturiera, la posizione diversificata tra prodotti e lungo le supply chain e un generale miglioramento della qualità dei prodotti. Un ruolo significativo ha giocato anche la competitività di costo che però, quest’anno e il prossimo, potrebbe non fornire lo stesso contributo positivo. Infatti, sebbene i prezzi dell’energia siano scesi considerevolmente, rimangono ben più alti di quelli registrati fino a inizio 2021 e soprattutto molto più di quelli sperimentati in altri paesi, come ad esempio Stati Uniti, Cina, Giappone. Poiché il riequilibrio del cambio euro-dollaro non riuscirà a fornire il sostegno che ha offerto nel 2022 è ragionevole attendersi un peggioramento della competitività di costo. Peraltro, verranno gradualmente meno anche i sostegni pubblici legati all’aumento dei prezzi dell’energia che avevano contribuito positivamente alla competitività delle imprese.