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Nel 2023 il commercio mondiale di beni ha registrato un brusco arretramento (-1,9%), ancora più ampio di quanto assunto nel rapporto di ottobre scorso (-1,0%). I fattori che hanno contribuito alla caduta sono numerosi e ancora presenti a inizio 2024: fiacca domanda di beni manifatturieri e di investimento; tassi di interesse ai massimi; prezzi energetici stabilmente superiori alle quotazioni pre-pandemia; forti tensioni e sempre maggiore frammentazione geopolitica. In Europa pesa, inoltre, la recessione tedesca.
Le prospettive di crescita mondiale appaiono, però, in graduale miglioramento. Il rientro dell’inflazione accresce il potere d’acquisto e la fiducia delle famiglie, che sostengono i consumi; tale rientro, inoltre, avvicina la discesa dei tassi di interesse e, quindi, la risalita degli investimenti. La produzione industriale è attesa in graduale rafforzamento, grazie a una maggiore domanda di beni (dopo l’avvenuto recupero nei servizi), alla necessità di adeguare il livello delle scorte e anche a politiche industriali favorevoli in alcuni paesi, come gli USA.
Il commercio mondiale di beni è quindi atteso tornare a crescere quest’anno e l’anno prossimo, seppur a ritmi modesti (Tabella A), e a fine biennio si riporterà sui ritmi di espansione del PIL mondiale.
Nel biennio di previsione il PIL globale si manterrà su un sentiero di espansione, anche se a ritmi moderati. La crescita sarà sostenuta: dalle economie emergenti, in lieve accelerazione; da quella USA, che in aggregato non sembra aver risentito molto degli alti tassi, ma è prevista in graduale rallentamento anche per l’aumento dell’incertezza connessa alle elezioni presidenziali; e solo nel 2025 da una migliore dinamica nell’Eurozona che quest’anno rimarrà ancora sui ritmi del 2023.
Esistono, tuttavia, significativi rischi al ribasso, che riguardano un aumento delle tensioni geopolitiche, un’escalation dei conflitti militari in atto e ulteriori interruzioni nelle catene globali di fornitura, soprattutto nei trasporti internazionali. In positivo, invece, potrebbero sorprendere una possibile tenuta del robusto ritmo di crescita degli Stati Uniti e una ripartenza più veloce dell’economia europea, a partire da quella tedesca, soprattutto nel caso di un rientro dei tassi più rapido dell’atteso.
Va poi aggiunto che il prezzo del petrolio è salito negli ultimi mesi, spinto dalla domanda degli emergenti e dalle limitazioni alla produzione dei paesi Opec e della Russia e quest’anno si avvicina alla soglia dei 90 dollari. E anche il prezzo del gas rimarrà sostanzialmente stabile sui valori attuali, che sono bassi rispetto al 2022, ma alti rispetto al periodo pre-pandemia.
La crescita italiana ha sorpreso in positivo nel 2023, arrivando al +0,9% annuo nonostante tassi e inflazione alti. Seppur in decelerazione dai ritmi altissimi del 2021-2022, che incorporavano il recupero post-pandemia, l’economia italiana è cresciuta a un passo ben più elevato rispetto ai modesti ritmi pre-pandemia, e pari al doppio di quello medio dell’Eurozona. Peraltro, se non si fosse verificato uno straordinario decumulo delle scorte (-1,3% il contributo al PIL nel 2023), la crescita del PIL italiano sarebbe addirittura arrivata al +2,2%. Ciò è stato possibile grazie a vari fattori, soprattutto l’espansione degli investimenti, ancora trainati dagli incentivi per le costruzioni (si veda il Focus n. 1), a cui si è affiancato il completamento del recupero nel settore dei servizi, che ha tenuto alta la spesa delle famiglie nonostante la contrazione del reddito disponibile in termini reali.
Nel biennio di previsione 2024-2025, oltre al miglioramento della domanda globale che darà nuovo impulso all’export, due fattori potranno sostenere ancora la crescita italiana su ritmi significativi.
Il primo è il taglio dei tassi di interesse (Grafico A). La BCE da alcuni mesi sta aspettando di vedere nei dati se i rialzi che hanno portato il tasso ufficiale al 4,50% sono in grado di accompagnare l’inflazione europea all’obiettivo del +2,0%. L’inflazione, tuttavia, ha quasi smesso di scendere da qualche mese, attestandosi al +2,4% a marzo (stesso valore di novembre scorso). In più, la dinamica dei prezzi al netto di energia e alimentari ha rallentato finora solo al +2,9%, un valore ancora troppo sopra l’obiettivo. In Italia va molto meglio: inflazione totale al +1,3% e core al +2,3%. Questo, peraltro, è alla base dell’atteso recupero del reddito disponibile reale delle famiglie, un essenziale combustibile per la crescita.
I tassi alti indeboliscono la dinamica dell’economia, tramite l’impatto restrittivo sulla domanda interna, cioè consumi e investimenti. Negli ultimi comunicati ufficiali, è divenuto evidente che la BCE non sta più pensando a ulteriori rialzi e intravede l’inizio di una fase di tagli. Secondo i mercati, i tassi resteranno stabili ancora per due mesi, prima di iniziare a scendere a giugno 2024, al più tardi luglio. Una tempistica avvalorata, informalmente, da alcuni membri del Board BCE. Si tratterebbe di uno slittamento rispetto alle stime di pochi mesi fa, visto che il primo taglio era atteso per maggio, prima ancora per aprile. Lo scenario di previsione segue queste indicazioni, e ipotizza un primo taglio a giugno, a cui ne seguiranno altri tre entro fine anno, di un quarto di punto ciascuno, per arrivare a un tasso del 3,50%, un punto meno di oggi; nel 2025 seguiranno altri tre tagli, fino al 2,75%. A tali livelli, la politica monetaria continuerà a essere di poco restrittiva a fine orizzonte previsivo, molto meno rispetto ad oggi. Ciò potrà dare maggiore slancio agli investimenti e anche ai consumi.
Rispetto a questo scenario, il rischio che si arrivi invece a un rialzo dei tassi può considerarsi minimo. Mentre non è da escludere che una maggiore persistenza dell’inflazione europea oltre la soglia del +2,0% possa indurre la BCE a rimandare ancora la discesa dei tassi. Tanto più se la FED decidesse di aspettare ancora, come dicono ora i future (taglio rimandato a settembre) dopo la recente sorpresa al rialzo sull’inflazione USA. Per l’economia italiana ciò agirebbe in direzione sfavorevole, perché prolungherebbe la stretta monetaria, che è già eccessiva alla luce dell’inflazione italiana scesa, da ottobre 2023, ben sotto il +2%.
Il secondo driver di crescita nel biennio di previsione è l’attuazione del PNRR che sta entrando nel vivo: nel 2024 e 2025, infatti, l’ammontare delle risorse da spendere per investimenti e riforme previste dal Piano è pari rispettivamente a 42 e 58 miliardi di euro, cioè oltre 2 punti di PIL all’anno. Sebbene sia difficile fare delle ipotesi precise sugli impatti complessivi che le risorse del PNRR avranno sulla crescita dell’economia, anche perché mancano informazioni su vari aspetti della recente rimodulazione del Piano, la spinta al PIL di una sua piena attuazione sarà in ogni caso molto forte, determinante per tenere alta la crescita italiana.
In termini di spesa, le risorse erogate fino ai primi mesi del 2024 sono state pari a circa 45 miliardi, meno di un quarto della dotazione complessiva di oltre 194 miliardi da spendere entro il 2026. Si tratta di 72 miliardi in sovvenzioni, cioè risorse europee che non vanno restituite, e 123 in prestiti. Restano criticità nel monitoraggio del Piano ma, rispetto agli altri paesi, il PNRR italiano è uno di quelli che si sta muovendo più celermente, in termini di condizioni rispettate e rate richieste ed erogate dall’Europa.
Un punto importante è che, anche se le risorse finora erogate sono solo un quarto della dotazione complessiva, quelle “impegnate”, cioè per le quali vi è già un’obbligazione di pagamento, sono oltre la metà (circa 100 miliardi di euro; si veda il Focus n. 6). E ciò lascia ben sperare, anche perché una buona parte delle risorse oggetto della recente rimodulazione saranno erogate attraverso strumenti automatici: ciò dovrebbe favorire una spesa più rapida e agevolare la raggiungibilità dei target. La rimodulazione del Piano ha comportato anche una maggiore focalizzazione delle risorse verso le imprese: sul totale delle risorse rimodulate, circa 12 miliardi sono destinati a queste ultime, di cui 6,3 per Transizione 5.0 (per il quale si attende l’effettiva “messa a terra”) e 2,5 per filiere green e net zero technologies.
A fronte di questi due potenti stimoli alla crescita in Italia, ci sono viceversa vari fattori che tenderanno a frenare il PIL italiano nel biennio. L’effetto netto è atteso essere comunque positivo. Ma chiaramente ciò significa anche che ci sarebbe spazio nel 2024-2025 per una crescita economica ancora più forte di quella oggi prevedibile.
Primo, il costo dell’elettricità pagato dalle imprese resta più alto in Italia rispetto ai principali paesi UE e anche rispetto agli altri grandi competitor internazionali, come USA e Giappone (si veda il Focus n. 4). Con il balzo dei prezzi del gas nel 2021-2022, il divario si è allargato ed è rimasto più ampio nel 2023 (Grafico B).
Ciò dipende, anzitutto, dal mix di generazione dell’elettricità, in Italia legato in gran parte alla generazione termoelettrica da gas naturale, mentre in altri Paesi si riscontrano tecnologie come il nucleare (in particolare in Francia), il carbone (per esempio in Germania) o una combinazione di nucleare e fonti rinnovabili (come nel caso della Spagna), che coprono maggiori volumi e riducono i prezzi. Contano anche le regole di mercato, dove il prezzo (cosiddetto PUN) è formato dalla tecnologia marginale, in Italia appunto le centrali a gas nella maggioranza delle ore ogni anno, con conseguente volatilità in funzione degli andamenti del valore della commodity. Al prezzo di mercato si aggiungono i costi infrastrutturali per il mantenimento in sicurezza e adeguatezza del sistema e le politiche pubbliche, con oneri legati all'incentivazione delle energie rinnovabili, alla promozione dell'efficienza energetica e alle quote di emissione del sistema ETS. Il costo complessivo dell'energia elettrica viene poi ridotto per alcune tipologie di imprese, caratterizzate da alti consumi, ma ciò avviene anche negli altri paesi UE, in alcuni casi in maniera più significativa. Tutto ciò crea uno svantaggio competitivo per le imprese italiane.
Una maggiore integrazione del sistema europeo, una riforma del mercato elettrico, con la separazione della generazione da fossili da quella da rinnovabili, che si prevede avranno costi progressivamente inferiori, nonché lo sviluppo di nuove tecnologie e l’attuazione di attente misure di policy (incremento risorse per la compensazione dei costi indiretti ETS, attuazione misure DL Sicurezza Energetica, etc.), potrebbero attenuare i costi dell’energia in Italia e ridurre (sebbene non eliminare) la dipendenza estera.
Il secondo freno è il graduale depotenziamento del Superbonus, già in scadenza a fine 2023 in termini di aliquota al 110%, e degli altri incentivi all’edilizia. Le costruzioni a uso residenziale, in termini di valore aggiunto e quindi di contributo al PIL, dovrebbero risentire fortemente di tale prevista riduzione degli incentivi, già nel 2024 e in misura ancora maggiore nel 2025. Nel 2023, invece, il contributo maggiore alla crescita degli investimenti in Italia, sebbene non l’unico, è stato fornito proprio dalle abitazioni.
Un ulteriore fattore negativo sono le strozzature mondiali nei trasporti e il loro impatto per l’industria italiana (si veda il Focus n. 5). Il tema della sicurezza dei trasporti non riguarda solo il Mar Rosso, snodo cruciale dello scambio di merci tra Europa e Asia, ma anche numerose altre fragilità lungo le rotte internazionali di trasporto, per esempio nello stretto di Malacca (in Asia) e nel canale di Panama (in America). In Italia, più della metà dei volumi di merci in entrata arriva via mare e le navi trasportano il 42% delle quantità esportate. Diverse criticità, inoltre, si hanno anche nelle rotte regionali dei trasporti, che sono per lo più via terra: per l’Italia in particolare lungo l’arco alpino, per le connessioni con gli altri paesi UE. A proposito della crisi nel Mar Rosso, in particolare, l’impatto dei recenti aumenti dei costi di trasporto marittimi, più che raddoppiati, sui prezzi alla produzione dell’industria italiana è stimato complessivamente moderato, ma è forte in specifici settori come la chimica, la metallurgia, la carta.
A questi tre principali fattori di freno si sommano alcuni effetti negativi di altri due trend strutturali in atto. Primo, il calo demografico: la popolazione complessiva in Italia è in diminuzione, in particolare quella in età lavorativa (in contrazione da oltre un decennio), e ciò farà sempre più da freno alla crescita economica nei prossimi anni. Secondo, la riconfigurazione degli scambi globali di beni sempre più tra paesi “amici” e sempre meno con paesi più “distanti” geopoliticamente: un’analisi delle quote di mercato incrociate tra UE, USA e Cina mostra alcuni segnali di disaccoppiamento (si veda il par. 2.2), che non fanno bene agli scambi mondiali e, in particolare, alla crescita economica di un paese di trasformazione manifatturiera ed export, come è l’Italia.
L’andamento del PIL italiano nel 2024 si profila in linea con la buona dinamica registrata nel 2023: si prevede un incremento annuo del +0,9% (Tabella B), ovvero 0,4 punti percentuali in più rispetto a quanto previsto nello scenario di ottobre scorso. La crescita nel 2025 è attesa poco superiore, al +1,1%.
Nel 1° trimestre del 2024 gli indicatori congiunturali sull’attività economica fotografano una fase di quasi stagnazione. Il PIL, in termini trimestrali, è però atteso tornare a crescere in modo più robusto dalla seconda metà del 2024 e nel corso del 2025, grazie ai due driver (taglio dei tassi e implementazione del PNRR) di cui si è detto, al rafforzamento del commercio mondiale e al recupero del reddito disponibile reale.
Visto dal lato dell’offerta, il PIL è stato trainato nel 2023 dalle costruzioni e dai servizi, mentre l’attività industriale è diminuita. I servizi entrano nel 2024 ancora in moderata crescita, che dovrebbe essere rafforzata in corso d’anno dal recupero del reddito disponibile reale e, soprattutto nel 2025, da migliori condizioni di accesso al credito. Nel biennio previsivo l’industria si affiancherà ai servizi nel trainare il PIL italiano, recuperando quanto perso nel 2022-2023; ciò grazie alla ripresa del commercio mondiale, quindi dell’export di beni, e all’allentamento della stretta monetaria.
Lo scenario previsivo presenta in prevalenza rischi al ribasso, alcuni collegati tra loro: prezzi dell’energia che salgono più del previsto, a causa dei numerosi focolai di tensioni geopolitiche; inflazione meno bassa, e Banche Centrali che posticipano ulteriormente il taglio dei tassi; ma anche eventuali ritardi o incompleta attuazione del PNRR.
I consumi privati sono previsti deboli nel 2024, più vivaci nel 2025. Infatti, dopo il calo nel 4° trimestre 2023, la spesa delle famiglie italiane è attesa in recupero moderato nel corso del 2024 (+0,2% in media d’anno), mentre acquisirà slancio nel 2025 (+1,2%). Inflazione bassa e recupero del reddito disponibile sono i due fattori trainanti del rafforzamento atteso. Nel 2023, la dinamica nel complesso favorevole dei consumi (+1,2% in media d’anno), nonostante il calo del reddito disponibile in termini reali (-0,5%), ha riflesso il mantenimento di una propensione al consumo più elevata rispetto ai valori pre-pandemia. È anche vero che l’anno scorso sono aumentati molto gli investimenti (in abitazioni) delle famiglie, ma questi non hanno sottratto risorse significative (extra-risparmio accumulato) ai consumi. Gli incentivi governativi molto generosi (Superbonus al 110% e altri bonus edilizi), infatti, hanno “restituito” o restituiranno alle famiglie gran parte delle risorse spese nel 2022 e nel 2023 per gli investimenti in abitazioni. Inoltre, grazie al meccanismo di cedibilità del credito fiscale, parte della spesa per le riqualificazioni edilizie non è stata addirittura mai sborsata.
Gli investimenti fissi lordi sono attesi in modesta crescita, +1,0% in media nel 2024 e +0,7% nel 2025, un ritmo molto ridimensionato rispetto allo scorso anno (+4,7%) e ancor più rispetto al biennio post-pandemia (+20,3% nel 2021 e +8,6% nel 2022). D’altronde, la forte crescita degli investimenti italiani negli scorsi anni ha rappresentato un unicum rispetto agli altri principali paesi europei. La frenata avviene per effetto della forte caduta prevista nel 2024 e soprattutto nel 2025 degli investimenti in costruzioni di tipo residenziale, sulla scia del depotenziamento del Superbonus e degli altri incentivi all’edilizia, la componente di spesa che aveva spinto maggiormente gli alti ritmi di crescita degli investimenti negli ultimi anni. Nel 2024-2025, comunque, diversi fattori agiranno a supporto della dinamica degli investimenti: quelli pubblici continueranno a crescere a ritmi elevati grazie all’attuazione dei progetti del PNRR; che dovrebbero far crescere anche la spesa in fabbricati non residenziali; quelli in impianti e macchinari, soprattutto, saranno spinti dal taglio dei tassi di interesse e anche dai nuovi programmi di incentivazione (Transizione 5.0).
Nello scenario previsivo, le esportazioni italiane di beni e servizi, dopo la quasi stagnazione del 2023, torneranno a crescere nel biennio a un ritmo più marcato (+2,2% e +2,5%), poco sopra il commercio mondiale, sebbene ancora inferiore a quello messo a segno nel 2021 e 2022. Anche le importazioni, che si erano addirittura ridotte nel 2023, invertiranno il segno tornando a espandersi (+1,3% nel 2024 e +2,4% nel 2025). L’attesa di un recupero tutto sommato lento delle vendite all’estero è basata sul contesto internazionale ancora debole a inizio 2024, in particolare l’anemica crescita nell’Eurozona che è il principale mercato di destinazione dei beni italiani, non compensata dalla crescita più dinamica del mercato americano. Le esportazioni delle imprese italiane, comunque, si adattano rapidamente ai mutati contesti: la velocità di ricomposizione degli scambi manifatturieri per mercato di destinazione e per prodotto è aumentata significativamente negli ultimi quattro anni; dal lato dell’import, direttamente esposto alle criticità nelle forniture, la ricomposizione è ancora più accentuata.
L’occupazione, misurata in termini di unità equivalenti a tempo pieno (ULA), avanzerà nell’orizzonte previsivo a un ritmo di poco inferiore a quello del PIL: +0,7% nel 2024 e +1,0% nel 2025. Ciò dopo che, nel 2023, la dinamica delle ULA è stata invece più sostenuta di quella del PIL, un fenomeno che va letto anche alla luce del fatto che attività economica e input di lavoro (in livelli) si erano disallineati nelle prime fasi della crisi energetica (l’input di lavoro era cresciuto meno dell’attività). La recente buona performance dell’occupazione ha permesso un rientro del tasso di disoccupazione, sceso al 7,4% a inizio 2024 dal picco del 10,2% nella primavera 2021. Tasso che è previsto calare nel 2025 al 7,1%, grazie ad un’occupazione in ulteriore aumento e una forza lavoro che continuerà ad avanzare ma a ritmo contenuto.
L’analisi delle variazioni dell’occupazione, in quantità e caratteristiche, mostra un miglioramento del mercato del lavoro italiano, sia in uscita dalla crisi pandemica, sia rispetto a un orizzonte temporale allargato all’ultimo quindicennio, sebbene i cambiamenti non siano tutti di segno univoco (si veda il Focus n. 2). Da un lato sono cresciuti gli occupati dipendenti, soprattutto quelli a tempo indeterminato, più di quanto siano calati quelli autonomi; è salito anche il tasso di occupazione, in particolare per i giovani negli ultimi anni (anche se come risultato non solo dell’aumento degli occupati ma anche della contrazione della popolazione). D’altronde è diminuito il numero di ore lavorate pro-capite e si è persa occupazione nell’industria, in favore di settori mediamente caratterizzati da una più bassa produttività del lavoro.
Nel biennio 2024-2025, se da un lato si smorzerà la crescita dell’occupazione, dall’altro è prevista un’accelerazione del ritmo di aumento delle retribuzioni di fatto pro-capite. Il rafforzamento della dinamica retributiva, contemporaneo al deciso rientro dell’inflazione, permetterà un recupero, seppur non completo, delle retribuzioni reali, che avanzeranno del +4,3% cumulato nel biennio. Il recupero è già iniziato nel 2023, trainato dal settore privato, per effetto del meccanismo di aggiustamento delle retribuzioni contrattuali concordato tra le parti sociali nel 2009 e confermato nel 2018, che spalma su più anni gli adeguamenti di potere di acquisto conseguenti a fiammate inflazionistiche “importate”, come quella recente.
La stima del deficit pubblico nel 2023 è stata di recente fortemente rivista al rialzo dall’Istat, al 7,2% del PIL dal 5,3% previsto nella NaDEF di settembre scorso. La revisione è legata a modifiche nel trattamento contabile delle risorse mobilitate dal Superbonus e da Transizione 4.0, che hanno comportato un forte rialzo della spesa in conto capitale. Nello scenario previsivo, il rientro del deficit sarà consistente nel 2024, arrivando al 4,4% del PIL, più lento nel 2025, al 3,9%. Ciò grazie a una dinamica positiva delle entrate e a spese contenute, se misurate al netto del PNRR.
La crescita dei consumi della PA offrirà nel complesso un importante e positivo contributo al PIL nel 2024-2025, con le sue componenti attese avere andamenti differenziati e per certi versi opposti. I redditi da lavoro cresceranno quest’anno e soprattutto il prossimo (+1,2% e +3,0%, dopo il -0,5% nel 2023), per effetto della dinamica positiva delle retribuzioni e nonostante un calo dell’occupazione nel settore pubblico. Invece, i consumi intermedi rallenteranno quest’anno (+1,0%, dal +3,2% nel 2023) e si ridurranno il prossimo (-0,6%), scontando una dinamica più contenuta dei prezzi.
Il debito pubblico italiano è stimato in risalita al 139,1% del PIL nel 2024, ovvero +1,8 punti di PIL in più rispetto al 2023, e nel 2025 è previsto continuare a salire di altri 2,0 punti circa, al 141,1. Questo per effetto di due fattori: la differenza tra costo medio del debito e crescita nominale torna ad essere positiva; c’è un effetto sfavorevole di riclassificazione contabile relativo, come detto, ad alcune agevolazioni fiscali (Superbonus e Transizione 4.0).
Sui conti pubblici tornano operative quest’anno le regole del Patto di Stabilità e Crescita (si veda il Focus n. 3) che, largamente modificate e per lo più in meglio, richiederanno all’Italia e a diversi altri paesi UE interventi per migliorare deficit e debito, per riportarli verso i parametri fissati che, in sintesi, impongono un indebitamento stabilmente e significativamente sotto al 3%.