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Piergiorgio Carapella, Alessandro Fontana, Andrea Montanino
Per approfondimenti si veda il capitolo 4 del Rapporto Dove va l'economia italiana e gli scenari di politica economica
La Commissione europea, il 5 giugno scorso, ha presentato, per quattro paesi, il rapporto che valuta il rispetto dei vincoli su deficit e debito pubblici previsti dal Patto di Stabilità e Crescita: Belgio, Francia, Italia e Cipro. Solo per l’Italia, la Commissione suggerisce di avviare la procedura per disavanzi eccessivi per la violazione della regola del debito nel 2018 e gli elevati rischi di violazione nel 2019 e 2020. La Commissione ha sottolineato come nel Documento di Economia e Finanza (DEF) di aprile scorso, non siano presenti misure dettagliate per evitare l’aumento dell’IVA previsto nel 2020 dalle clausole di salvaguardia, se non un generico riferimento a una revisione della spesa. Va ricordato che le clausole vennero istituite con l’idea di dare al Governo più tempo, rispetto ai vincoli della sessione di bilancio, per individuare misure correttive. Se le clausole di salvaguardia venissero finanziate in deficit, secondo le previsioni del Centro Studi Confindustria di fine marzo e quelle della Commissione europea di maggio, questo schizzerebbe al 3,5 per cento del PIL.
È impossibile far fronte nel breve periodo ai tanti obiettivi del Governo: non aumentare l’IVA, non tassare i patrimoni, sostenere le fasce deboli, tagliare massicciamente le aliquote fiscali sui redditi delle persone fisiche (flat tax). Nel medio periodo si possono però creare gli spazi per alcune riforme se si avvia una vera revisione della spesa, fatta non solo di tagli ma di riforme dei meccanismi di formazione della spesa pubblica. In una lezione tenuta da Tommaso Padoa-Schioppa alla Banca centrale tedesca nell’ottobre del 2006, questi due concetti erano ben rappresentati: tagli e riforme sono complementari, anche se – evidenziava Padoa-Schioppa – i tagli sono sempre più facili da attuare. Questa nota vuole suggerire che è ora di affrontare seriamente il nodo dei meccanismi di spesa.
Anche questo Governo, come i precedenti, considera la revisione della spesa pubblica tra le azioni strategiche. I risparmi di spesa attesi e riportati nel Documento di Economia e Finanza (DEF) di aprile 2019, sarebbero pari a 2 miliardi per il 2020 (lo 0,2 per cento della spesa primaria, ammontare invariato rispetto al 2019) che salirebbero a 5 nel 2021 e a 8 (cumulati) nel 2022. La risoluzione parlamentare sul DEF ha impegnato il Governo a estendere il piano di revisione della spesa anche alle società controllate direttamente o indirettamente da pubbliche amministrazioni (che non emettono strumenti finanziari in mercati regolamentati).
Nonostante le buone intenzioni, però, non è stata intrapresa finora alcuna iniziativa. Anzi, contrariamente agli anni precedenti, non è stato ancora avviato il processo di revisione della spesa interno al ciclo di programmazione di bilancio, quello attualmente previsto dalla Legge di contabilità e finanza pubblica, e ciò impedisce il pieno coinvolgimento delle amministrazioni nella razionalizzazione della spesa.
Inoltre, la nomina dei due viceministri del Ministero dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli e Massimo Garavaglia, a Commissari alla spending review, avvenuta al Consiglio dei Ministri del 18 aprile scorso, dieci giorni dopo è stata revocata. Quindi al momento la revisione della spesa è completamente ferma.
Nell’ambito della spesa pubblica, alcune voci di spesa potrebbero non essere essere oggetto di revisione. La spesa in conto capitale, è una di queste. Gli investimenti, infatti, hanno effetti positivi sulla crescita sia nel breve periodo, come componente di domanda, che nel lungo periodo, per aumentare il livello e la dinamica del PIL potenziale e quindi, per non danneggiare la crescita, non è su questa spesa che andrebbero individuati risparmi. Peraltro, negli ultimi anni, tale spesa è stata particolarmente sacrificata: a fine 2018 è ancora di 21 punti percentuali inferiore a quella del 2007. Naturalmente, in un’ottica di efficientamento della spesa, anche quella in conto capitale andrebbe valutata attentamente. La spesa per interessi si riduce se migliora il clima di fiducia sulla situazione economica del Paese, ma non può essere oggetto di una revisione. Anche la spesa per pensioni andrebbe esclusa perché è legata a diritti acquisiti e alle dinamiche demografiche; peraltro, negli anni, la Corte Costituzionale ha ridotto fortemente gli interventi ammissibili. In ultimo, la spesa per stipendi pubblici è una voce su cui non sembra prioritario intervenire visto che è rimasta ferma per diversi anni a seguito del blocco dei rinnovi contrattuali dal 2012 al 2016 e delle limitazioni sul turnover. In molti casi, gli importi unitari degli stipendi sono ben al di sotto delle medie europee. La spesa pubblica aggredibile, quindi, cioè quella che potrebbe essere sottoposta a revisione, ammonta a circa 290 miliardi di euro, dagli 850 miliardi di euro di spesa totale (Figura A).
Peraltro, va considerato che la spesa primaria pubblica (quindi al netto degli interessi sul debito) pro-capite in Italia si attestava nel 2018 a circa 13mila euro, più bassa della media euro, pari a circa 15.300 (Figura B). Non c’è quindi una devianza sulla quantità totale della spesa pubblica. È semmai la sua composizione, molto sbilanciata verso la spesa per interessi e poco sugli investimenti a differenziarla dagli altri paesi. Questa voce di uscita, in Italia è la più alta tra i paesi dell’Eurozona sia in termini assoluti (65 miliardi nel 2018) sia in percentuale del PIL (3,7 per cento). Nel 2018, l’Italia ha speso circa 35 miliardi più della Spagna, quasi 25 più della Francia e 34 più della Germania.
Al contrario, l’Italia spende meno di altri grandi paesi europei (Francia, Spagna e Germania) per gli investimenti, che hanno un impatto decisivo sulla crescita economica di lungo periodo. Tra il 2008 e il 2018 la spesa per investimenti è stata sempre inferiore alla media dell’Eurozona: il 2,5 per cento del PIL, contro un valore medio registrato nell’Area euro pari al 2,9. Dal 2008 il nostro Paese ha accumulato un gap nella spesa per investimenti di 17,8 punti percentuali rispetto all’Eurozona.
È la dimensione qualitativa della spesa che è più rilevante per il caso italiano. Secondo gli indici di governance globale della Banca Mondiale (Worldwide Governance Indicators, WGI), l’Italia è uno dei paesi avanzati con il più basso livello di efficacia del governo della cosa pubblica. Nel 2017, siamo infatti nel 70esimo percentile, circa 12 punti percentuali sotto la Spagna e 24 sotto la Germania. Pesano la frammentazione, la mancanza di un'adeguata capacità amministrativa, la complessità del quadro regolatorio.
La frammentazione comporta duplicazioni di ruoli e competenze e carenze organizzative, con conseguente estrema complessità delle procedure, che spesso richiedono numerosi passaggi, costi elevati di gestione e spreco di risorse. Tale frammentazione genera poi importanti squilibri all’interno del territorio a causa delle differenze nei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche che ricadono sul benessere dei cittadini e sulla competitività delle imprese.
A questi problemi si aggiunge la mancanza di capacità amministrativa, soprattutto nelle amministrazioni di ridotte dimensioni, che ha comportato significativi rallentamenti nell’attuazione di importanti misure di semplificazione (es. conferenza di servizi, SUAP). Il risultato è, in molti casi, il rallentamento o, addirittura, la paralisi di procedimenti di autorizzazione di opere, infrastrutture e, più in generale, di importanti attività economiche.
Per tale ragioni, un’analisi che consenta di scomporre i processi produttivi della pubblica amministrazione nelle sue diverse fasi è essenziale per isolare e rimuovere le criticità al fine di migliorare la qualità dei servizi. Il prossimo paragrafo delinea una proposta metodologica organica per la revisione della spesa.
In un quadro normativo confuso e alla luce delle molte esperienze infruttuose (si veda l’ultimo paragrafo), il processo di revisione della spesa dovrebbe essere migliorato in modo da operare non solo tagli, ma anche vere e proprie “ristrutturazioni” dei meccanismi di spesa, in uno sforzo che coinvolga tutti gli attori e parta dal “basso”. Un nuovo programma di analisi e revisione della spesa pubblica si dovrebbe quindi articolare su due direttrici:
A. analisi e miglioramento dell’efficienza delle amministrazioni;
B. analisi e miglioramento dell’efficacia della spesa pubblica e riesame delle priorità.
In entrambi i casi si tratta di impostare un approccio replicabile che modifichi radicalmente le modalità di definizione dei programmi di spesa e il loro monitoraggio. Un investimento organizzativo e metodologico di questo tipo ha senso se mira alla costruzione di un approccio permanente, piuttosto che a un esercizio di valutazione una tantum.
A) Miglioramento dell’efficienza operativa Per accrescere l’efficienza operativa della pubblica amministrazione la revisione della spesa deve ispirarsi ai seguenti obiettivi:
B) Analisi e miglioramento dell’efficacia della spesa pubblica e riesame delle priorità Per consentire di recuperare risorse dalle aree di spesa non considerate politicamente prioritarie e contemporaneamente accrescere l’efficacia della spesa migliorando la qualità dei servizi pubblici, la revisione della spesa deve ispirarsi ai seguenti obiettivi:
stabilire precisi obiettivi, quantificabili e verificabili ex-post, per selezionati programmi di spesa da condividere con cittadini e imprese o loro rappresentanze; incrementare la trasparenza e il senso di responsabilità dei centri di spesa rendendo al contempo chiaro e concreto (in termini di servizio pubblico offerto) ai cittadini il senso dell’azione di Governo. L’identificazione di obiettivi o target quantitativi serve a concretizzare gli obiettivi strategici non misurabili. Questo passaggio è cruciale poiché il solo fatto di introdurre obiettivi quantitativi sulla base di indicatori che siano trasparenti e monitorabili ex-post anche dai cittadini è un fattore potente di miglioramento della performance delle amministrazioni pubbliche nell’esperienze di altri paesi. Affinché ciò avvenga è necessario che tali target siano:
Va prevista l’introduzione per legge dell’obbligo di spending review di legislatura, con obiettivi pluriennali per le amministrazioni centrali e decentrate. Il processo di revisione della spesa andrebbe allora inserito nella Legge di riforma della contabilità pubblica e incorporato nel processo di bilancio. Da un punto di vista operativo, la revisione della spesa dovrebbe essere così organizzata:
In questo senso andrebbe ripresa l’esperienza inglese del 2004, la cosiddetta Gherson’s review. Peter Gherson elaborò Releasing resources to the front line: Independent Review of Public Sector Efficiency, una sorta di manuale metodologico, che aveva l’obiettivo di precisare il modo in cui efficientare il settore pubblico. Secondo il Gherson Report, l’efficienza del settore pubblico si doveva raggiungere tramite: 1) il mantenimento dello stesso livello di servizio pubblico, riducendo il numero di input (persone e beni), 2) prezzi più bassi per i beni o servizi che servono al settore pubblico, 3) il miglioramento degli output, come l’aumento della quantità o della qualità del servizio pubblico, mantenendo lo stesso livello di input. Il report di Gherson dava indicazioni chiare su quale strada si dovesse intraprendere, includendo il processo di spending review in un contesto più ampio di efficientamento del settore pubblico, con chiare e comuni definizioni sul significato di efficienza e qualità dei servizi pubblici;
L’attuale normativa sulla revisione della spesa appare complessa e non organica. Al momento sono tre le forme di spending in vigore:
I risultati raggiunti sono poi confluiti nel primo rapporto del 2012 di quasi 700 pagine. Il rapporto è di difficile lettura e non sembra che siano stati attivati interventi volti a rimuovere le criticità indicate, a rendere più efficiente la spesa, ovvero a ottenere risparmi. Per questa ragione, le analisi dei Nuclei hanno svolto più un ruolo di monitoraggio e controllo sulle procedure interne che una vera e propria spending review.
È evidente che l’attuale quadro legislativo crea confusione. Le continue innovazioni, condotte senza esaminare i problemi posti dall’esperienza precedente, non hanno dato stabilità al processo.
La storia della spending review in Italia, anche se allora non veniva chiamata così, inizia nel 1981; i suoi successi sono stati limitati, nonostante le molte Commissioni e i molti Commissari che si sono succeduti nel tempo. Le esperienze principali sono le seguenti:
L’esame delle esperienze presentate mostra che una vera analisi e revisione della spesa, in Italia, non è stata mai fatta, nonostante i molteplici riferimenti legislativi e la lunga serie di attività alle spalle.
Le spending condotte internamente dalle amministrazioni, proprio perché "ordinarie", cioè inserite nel processo di bilancio e nel sistema dei controlli interni hanno avuto obiettivi diversi dalle analisi "straordinarie" portate avanti con il contributo di soggetti esterni alle amministrazioni e con un mandato politico esplicito. Non sono state finalizzate a elaborare proposte di policy per modificare le modalità di produzione dei servizi pubblici, i confini del settore e l’allocazione delle risorse, ma si sono limitate al monitoraggio dei processi interni e a promuovere miglioramenti delle procedure interne al fine di efficientare l’azione pubblica.
Nessuna delle esperienze riportate ha prodotto miglioramenti significativi dei servizi pubblici, a parte alcuni lavori della CTSP. Solo le revisioni di Bondi e di Gutgeld hanno prodotto importanti risparmi di spesa. Nel primo caso, però, nei fatti, sono stati ottenuti con tagli quasi-lineari su tutti gli enti territoriali; nel secondo, dai documenti pubblici, è difficile individuare un legame diretto tra l’attività svolta, le misure proposte, quelle adottate e i risparmi dichiarati. Nel caso della recente spending, realizzata singolarmente dai Ministeri, sono stati realizzati risparmi molto contenuti imponendo tagli lineari a tutti i Ministeri.
Si tratta, quindi, di esperienze complessivamente non soddisfacenti che non sono riuscite né a ridurre le risorse pubbliche a parità di servizi pubblici offerti, né a ridefinire il perimetro dell’azione pubblica, né ad aumentare l’efficienza.
Diverse sono le ragioni di questi insuccessi. Quasi sempre è stata evidente la mancanza di obiettivi predefiniti condivisi con i vertici politici dei Ministeri e con le amministrazioni. Ciò ha limitato l’efficacia delle analisi e contribuito a rendere diffidente e poco collaborativa l’amministrazione. A ciò ha contribuito anche l’essersi affidati prevalentemente a esperti esterni senza coinvolgere pienamente i funzionari responsabili della spesa, gli unici ad avere una conoscenza capillare dei processi decisionali e delle norme sottostanti.
In alcuni casi è mancato un adeguato supporto politico. Le proposte di risparmio del Commissario Cottarelli, ad esempio, non erano allineate con le priorità politiche del Governo; la Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica aveva un forte supporto del Ministro dell’Economia Padoa-Schioppa ma meno dei colleghi di Governo.
È poi mancato un sistema di incentivi per spingere singoli funzionari e amministrazioni a generare risparmi: la spending review veniva vissuta come tagli ai budget e quindi riceveva poca collaborazione; è mancata trasparenza nei confronti degli stakeholders, cittadini e imprese, che avrebbero potuto offrire un supporto al processo se avessero compreso i benefici in termini di efficienza nei servizi erogati. Infine, il tempo è stato sempre troppo poco per organizzare una spending che andasse oltre obiettivi di breve periodo.