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Ex Ilva, Bonomi in audizione: necessario piano di politica industriale

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Ex Ilva, Bonomi in audizione: necessario piano di politica industriale

06 febbraio 2024 | Presidente

Il Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, è intervenuto in audizione presso la commissione industria del Senato della Repubblica in merito ai Decreti-legge ex Ilva.

Il settore siderurgico è uno dei principali asset produttivi del sistema industriale nazionale, concorre alla creazione di ricchezza e occupazione sia direttamente, sia indirettamente mediante la sua filiera, che vede, a valle, una pluralità di settori manifatturieri per i quali l’acciaio rappresenta la materia prima fondamentale (cd. materiale pervasivo).

L’acciaio, inoltre, è un materiale riciclabile al 100% e per infinite volte, senza perdita delle sue proprietà (cd. materiale permanente), ed è insostituibile in una serie di applicazioni, comprese quelle fondamentali per lo sviluppo sostenibile: dalla produzione di energia da fonti rinnovabili, a edifici, infrastrutture a elevato risparmio energetico, mobilità sostenibile e trasporto ferroviario, reti per la raccolta e il trasporto di acqua.

Ma quando si parla di acciaio si parla anche della tenuta di larga parte del tessuto produttivo. L’acciaio, infatti, è utilizzato nelle costruzioni e in diversi altri settori manifatturieri, che attivano la domanda di prodotti siderurgici. Il principale utilizzo è proprio nelle costruzioni, con una quota pari al 36,5%, comprensivo sia delle opere pubbliche, sia delle costruzioni private, oltre alle attività di manutenzione. Tra gli altri utilizzatori si ritrovano: la meccanica con il 20,2%; i prodotti in metallo con il 18,7% e l’automotive con il 17,1%; gli elettrodomestici (3,2%); gli altri mezzi di trasporto (2,7%).

Si tratta di migliaia di posti di lavoro: acciaio significa, quindi, anche sostenibilità sociale.

E in tale contesto, lo stabilimento di Taranto ha un ruolo ancora cruciale.

Nel 2023 la produzione di acciaio nazionale è risultata pari a 21,1 M.t. Anche se ha mostrato una maggior tenuta rispetto a quella dei principali partner europei (Germania: 35,4 M.t., -3,9%; Spagna: 11,3 M.t., -2,7%; Francia 10,0 M.t., -17,4%), è in calo del 2,5% nel confronto annuo e del 10,2% rispetto al livello medio dell’ultimo decennio (23,5 M.t.).

Alla luce di queste evidenze, è intuitivo capire che, se la produzione di Taranto continuasse a diminuire, col rischio di azzerarsi, l'unica alternativa sarebbero le importazioni.

Tuttavia, l’acciaio primario proveniente da Paesi extra UE ha tempi di consegna molto più lunghi, come quello ordinato dall’Asia che viene consegnato dopo 3-4 mesi, ed è più esposto al rischio di volatilità dei prezzi. Ciò comporta che gli operatori devono fare scorte più ampie, che necessitano di più spazio e incidono in negativo sul capitale circolante.

L’acciaio prodotto a Taranto, invece, arriva ai settori industriali italiani in 30-40 giorni e presenta costi maggiormente preventivabili. È il motivo per cui riteniamo essenziale che Taranto torni a una capacità produttiva importante, com’è stato in passato.

Fondamentale, poi, è anche il tema automotive: se davvero l’Italia punta a tornare a produrre 1 milione di veicoli l’anno, poter disporre dell’acciaio di ILVA è un fattore strategico.

Serve, allora, un piano di politica industriale ed è il motivo per cui il dibattito non può rimanere ancorato al se attivare e come gestire una procedura concorsuale.

Il primo tema da affrontare riguarda la decarbonizzazione e la sostenibilità ambientale della produzione di acciaio a Taranto. Le soluzioni tecnologiche non mancano, occorre decidere e investire. E a proposito di investimenti, il PNRR stanziava 1 miliardo di euro per questi obiettivi e, con la recente rimodulazione del Piano, quelle risorse sono venute meno.

Non meno importanti sono le misure per la competitività della produzione nazionale di acciaio e che riguardano anche Taranto. In Italia, l’energia sconta uno spread rispetto agli altri Paesi, che si è acuito con l’aumento del costo della CO2 per i consumatori industriali.

Abbiamo provato a risolvere il problema col recente provvedimento sulla sicurezza energetica, proponendo l’aumento del fondo per la compensazione dei costi indiretti della CO2 in bolletta, a carico dei settori energivori, per garantirne la competitività in quanto esposti al rischio delocalizzazione. La nostra proposta non è stata accolta e la soluzione rinviata al 2026, prevedendo un aumento del tutto insufficiente (300 milioni di euro, a fronte dei miliardi che Germania e Francia destinano alla compensazione dei costi indiretti, già a partire dal 2024). Una soluzione deludente, anche perché non si tratta di risorse pubbliche, ma di soldi versati dalle stesse imprese.

Non sono dettagli, perché è da vicende come questa che emerge quella mancanza di visione sui temi di politica industriale che spesso denunciamo e che, però, a lungo andare, può rivelarsi esiziale per il futuro di migliaia di imprese e di posti di lavoro.

Sui temi oggetto dei due provvedimenti di recente varati dal Governo, il primo profilo da evidenziare è la mancanza di dati pubblici attendibili sulla situazione di ILVA, sia per quanto concerne i livelli di produzione e lo stato di salute degli impianti, sia riguardo alla situazione finanziaria e, in particolare, ai crediti dell’indotto.

Le informazioni disponibili sono quelle di stampa: con le cautele del caso, riportano di un livello di produzione intorno ai 3 M.t. nel 2023 e di debiti verso alcuni creditori - definiti - primari intorno a 1,5 miliardi di euro.

In questo quadro, la principale criticità dell’Amministrazione Straordinaria, annunciata come imminente, è il sostanziale azzeramento dei crediti pregressi; dunque, il pesante impatto che avrebbe, come già nel 2015, sull’indotto. Riguardo a quest’ultimo, le stime di Confindustria Taranto sono di circa 80 milioni di euro di crediti pendenti; peraltro, ferma la forte composizione locale, i creditori di ILVA sono dislocati su tutto il territorio nazionale.

È il motivo per cui crediamo che un sacrificio così importante alle ragioni delle tante imprese coinvolte, e dei rispettivi lavoratori, rendano necessarie e urgenti, da un lato, le decisioni sul fronte industriale; dall’altro, misure tempestive e incisive a supporto dei creditori di Acciaierie d’Italia (ADI).

In verità, siamo consapevoli che, per le sue caratteristiche, l’accesso all’AS comporta uno iato tra le petizioni di principio a favore dei creditori dell’indotto e le misure funzionali a tutelarli, la cui efficacia concreta rischia di essere assai limitata.

In ogni caso, riteniamo che vadano nella giusta direzione alcune delle misure contenute nel secondo decreto ILVA, pubblicato qualche giorno fa e che potrebbero essere rafforzate.

È il caso del Fondo di garanzia PMI e del contributo agli interessi: anzitutto, sono destinati solo alle PMI - mentre dovrebbero essere estese anche alle mid cap - e, soprattutto, a imprese il cui fatturato degli ultimi due esercizi provenga per almeno il 50% da ADI. Si tratta di una soglia elevata, che esclude imprese molto connesse alla stessa ADI e la cui continuità sarebbe seriamente messa in discussione. Peraltro - e a proposito di gap informativi - la fissazione di una soglia dovrebbe essere subordinata a una puntuale verifica dei creditori di ADI e della loro esposizione verso l’impresa.

In proposito, va peraltro accolta con favore la decisione assunta da SACE che si appresterebbe a garantire - in caso di AS - gli istituti finanziari che scontino i crediti vantati dalle imprese nei confronti di ADI, fino a un ammontare di 150 milioni. La misura potrà però essere valutata solo una volta note le condizioni della stessa e, di nuovo, verificata l’entità dei crediti delle imprese verso ADI.

Quanto allo strumento della prededuzione, come evidenzia l’esperienza della precedente AS, esso presenta alcune incognite, legate anzitutto all’effettiva consistenza dell’attivo residuo, nonché all’interpretazione che ne daranno prima i commissari e poi la magistratura.

Inoltre, troviamo inaccettabile che la Relazione di accompagnamento al secondo decreto ILVA subordini il beneficio all’assenza di soluzione di continuità tra le forniture e l’accesso di ADI in AS. Si tratterebbe di una distinzione tra creditori del tutto irragionevole, poiché tale da escludere imprese che, fino a qualche settimana o mese fa, hanno erogato beni o servizi ad ADI stessa, contribuendo a garantirne la continuità.

È quindi necessario superare qualsiasi ambiguità sul punto, pena il rischio di un’ingiustificata penalizzazione per alcune categorie di imprese dell’indotto.

Bene invece, sebbene temporalmente limitata, la scelta di escludere dalle revocatorie i pagamenti e le cessioni di crediti effettuati tra l’entrata in vigore del provvedimento di legge e l’accesso di ADI in AS.

Su un piano più generale, ci pare poi ragionevole la posizione di quanti hanno evidenziato che l’erogazione dell’eventuale prestito-ponte alla gestione commissariale (320 milioni di euro disposti dal primo DL ILVA) dovrebbe essere condizionata alla destinazione di una parte di quelle risorse al pagamento dei fornitori, il cui contributo alla continuità produttiva era e rimane determinante.

In conclusione, dopo 10 anni ci ritroviamo a discutere gli stessi temi e con gli stessi strumenti, perché continuiamo a commettere lo stesso errore: inseguiamo soluzioni al problema dell’indotto, che ha contribuito a tenere in piedi lo stabilimento di Taranto, ma non consideriamo che il modo migliore per salvaguardarlo e, con esso, tutelare un pezzo importante dell’economia del Mezzogiorno, è inserirlo in una visione chiara sulla politica industriale e sulla competitività del Paese.

Come Confindustria, ci rendiamo disponibili sin d’ora per l’apertura di un tavolo, con i ministeri competenti, per definire le misure necessarie a dotare l’Italia di un piano industriale per l’acciaio, che ricomprenda il ruolo strategico della produzione di Taranto.


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