menu start: Mon Sep 16 13:51:26 CEST 2024
menu end: Mon Sep 16 13:51:26 CEST 2024
Tullio Buccellato e Matteo Pignatti
La Libia a partire dalla destituzione di Gheddafi nel 2011 ha attraversato disordini che in due occasioni hanno assunto i connotati di vera e propria guerra civile tra fazioni. La prima è stata proprio quella mirante alla destituzione del Colonnello, anche con l’intervento di una coalizione di paesi NATO (soprattutto Francia, Regno Unito e Canada). Ad oggi il territorio libico è di fatto governato da almeno due parti principali contrapposte, il Governo di Tripoli con a capo Fayez Mustafa al-Sarraj e quello di Tobruk con a capo il Generale Khalifa Haftar. Quest’ultimo ha scatenato un’offensiva contro Tripoli per riunire la Libia sotto il proprio controllo. Aldilà della variabilità e dell’incertezza riguardo le forze in campo e le coalizioni internazionali che le spalleggiano, l’Italia resta ancora il principale partner strategico ed economico della Libia e quindi qualsiasi destabilizzazione o forte cambiamento potrebbe ridimensionare la storica relazione che lega i due paesi.
La Libia rappresenta oggi uno degli accessi privilegiati all’Europa, dove si convogliano tre grandi rotte dei migranti da molti paesi africani e mediorientali: quella occidentale da paesi come Senegal e Costa d’Avorio, quella centrale dalla Nigeria e quella orientale che parte dallo Yemen e dalla Somalia e attraversa tutta la penisola arabica. L’instabilità, acuitasi a partire dal 2011, ha lasciato vaste aree del paese fuori controllo, favorendo il proliferare di attività di contrabbando e il traffico dei migranti. Il conflitto siriano e gli attuali disordini in Yemen sono solo due esempi di problemi contingenti che vanno a sommarsi a flussi di migranti strutturali e legati semplicemente a differenziali di standard di vita tra paesi. I dati più recenti dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni suggeriscono che in Libia ci siano ad oggi circa 650mila migranti, di cui il 94 per cento provenienti da 28 diversi paesi africani. I recenti scontri armati hanno per ora causato solo spostamenti interni alla Libia.
Le tensioni in Libia rappresentano anche un problema per l’approvvigionamento energetico, perché la Libia è il terzo fornitore di petrolio dell’Italia. Nei primi mesi del 2019 il 12,1 per cento del nostro fabbisogno di petrolio è stato soddisfatto dalla Libia; più importanti nella classifica dei fornitori sono stati solo l’Iraq e l’Azerbaigian. Il petrolio rappresenta il pilastro se non l’unica risorsa dell’economia libica: il 98 per cento delle esportazioni libiche verso l’Italia sono proprio rappresentate dal petrolio. Peraltro l’Italia offre i mezzi tecnici per la raffinazione dei carburanti visto che parte del petrolio diretto all’Italia torna di nuovo in Libia (il 55 per cento delle esportazioni italiane verso la Libia è infatti costituito da prodotti petroliferi raffinati).
Parlare di potenzialità di mercato nel caso della Libia potrebbe risultare fuorviante dato l’attuale contesto geopolitico. Essendo l’Italia il principale partner commerciale della Libia, è comunque rilevante osservare che il potenziale di mercato, proprio per l’elevata incidenza del petrolio sull’economia, è determinato dall’andamento del prezzo del Brent, con l’eccezione del 2011, anno della destituzione di Gheddafi, in cui a un andamento favorevole del prezzo degli idrocarburi è corrisposto un calo delle esportazioni globali verso la Libia. Il nostro paese occupa il primo posto sia tra gli importatori (con una quota poco sotto il 18 per cento) che tra gli esportatori (quota al 15,2 per cento).
La Libia è il paese in Medio Oriente e Nord Africa che fino al 2011 aveva mostrato il più elevato tasso di sviluppo e che mostrava convergenza con gli standard di paesi simili per conformazione economica, come Oman e Arabia Saudita. Tra il 2008 e il 2010 il PIL pro-capite in Libia si attestava intorno ai 30.000 dollari a parità di potere d’acquisto, circa tre volte quello di paesi confinanti come Algeria ed Egitto, seppur inferiore a quello di paesi produttori di petrolio più ricchi come Arabia Saudita e Oman.
La Libia si estende su una superficie molto ampia (quasi sei volte quella italiana), paragonabile a quella dei due grandi paesi confinanti, Egitto e Algeria, e a quella dell’Arabia Saudita. Tuttavia, conta una popolazione molto ridotta (poco più di un decimo di quella italiana), nell’ordine di quella di un piccolo paese arabo come l’Oman.
Ai fini di valutare il potenziale del mercato libico assumiamo un triplice criterio: la vicinanza geografica, la somiglianza nella struttura economica, con particolare riguardo al peso del petrolio sull’economia, e gli standard di sviluppo dell’economia così come si desumono dal livello del reddito pro-capite. Per vicinanza geografica, come anche per estensione territoriale e struttura dell’economia, la Libia è assimilabile ad Algeria ed Egitto. Per reddito pro-capite, almeno sino all’inizio dell’instabilità seguita alla destituzione di Gheddafi, la Libia stava convergendo verso livelli di sviluppo più in linea con quelli di altri paesi esportatori di petrolio come l’Oman e l’Arabia Saudita.
Per scontare l’effetto dell’instabilità sull’export italiano diretto in Libia, al netto dell’andamento del prezzo del petrolio, è utile un confronto dei trend storici rispetto agli altri paesi con caratteristiche similari. Negli altri paesi considerati, infatti, l’andamento delle vendite italiane è piuttosto simile, proprio in virtù del fatto che si tratta di esportatori netti di idrocarburi e che quindi la domanda di beni esteri è direttamente proporzionale al prezzo di gas e petrolio, che, almeno nel medio periodo, hanno andamenti piuttosto analoghi. Nello specifico, nel 2010 l’export verso la Libia si attestava intorno ai 4 miliardi di dollari, solo poco al di sotto di quello in Algeria e in Arabia Saudita, mentre nel 2018 è stato inferiore a 1,5 miliardi.
La frenata dell’export in volumi ha coinciso anche con una riduzione della quota dell’export italiano che è passata dal 21,9 per cento nel 2008 a un minimo di 8,2 per cento nel 2012, per poi risalire poco sopra il 15 per cento nel 2018. Il graduale ridimensionamento delle quote italiane in Libia, come in altri paesi del mondo, è anche dovuto all’ascesa della Cina, che è arrivata ad occupare il secondo posto tra i partner commerciali della Libia con una quota intorno al 12,5 per cento. Tuttavia, la quota italiana in Libia risulta in calo anche rispetto agli altri paesi europei.
Il 55 per cento delle vendite italiane in Libia sono costituite da prodotti petroliferi. Una quota rilevante riguarda anche macchinari e apparecchi elettrici e alimentari. L’export verso Algeria ed Egitto, invece, è molto specializzato in macchinari e apparecchi elettrici e, in generale, più diversificato tra i settori manifatturieri, indicando una domanda interna più sviluppata. Il fatto che gli scambi italiani con la
Libia siano specializzati nel settore petrolifero implica che la discesa delle quotazioni oil abbia particolarmente indebolito gli scambi bilaterali negli ultimi anni e spiega, almeno in parte, la riduzione delle quote italiane in Libia. Una minore penetrazione delle merci italiane, comunque, è diffusa tra i principali settori manifatturieri, a eccezione dell’alimentare. È stata particolarmente forte proprio nei prodotti petroliferi (da livelli molto elevati) e negli autoveicoli.
In Libia, i disordini iniziati nel 2011 hanno prodotto danni elevati ma difficili da stimare alle infrastrutture civili, soprattutto perché la tensione resta ancora alta in molte zone. Più semplici da calcolare sono i danni arrecati all’economia per la sua struttura piuttosto elementare, perché tutta incentrata sulla produzione di petrolio. Nel 2010 la produzione di idrocarburi aveva toccato un picco ed era arrivata a 90 milioni di tonnellate; subito dopo l’inizio delle tensioni nel 2011 ha cominciato a contrarsi, attestandosi intorno ai 21 milioni di tonnellate nel 2016 e risalendo intorno a un valore stimato di 50 milioni di tonnellate nel 2019. Si stima che la caduta nella produzione di petrolio abbia arrecato un danno all’economia di oltre 150 miliardi di euro.
Per far ripartire l’economia libica servono ingenti investimenti in infrastrutture, in primis quelle legate alla produzione del petrolio. Nel 2018 veniva riportato che su 98 ospedali censiti solo 4 arrivavano a lavorare al 75 per cento delle loro possibilità, il 54 per cento delle famiglie intervistate dichiarava di non avere accesso ad acqua sicura, oltre 558 scuole erano o parzialmente funzionanti o del tutto chiuse e il 17 per cento delle persone sfollate all’interno del paese non avevano accesso garantito a cibo sicuro; stime dell’FMI riportavano che i danni alle infrastrutture ammontassero già nel 2017 a 80 miliardi di dollari (circa 72 miliardi di euro). Dato il proseguimento dell’instabilità e l’acuirsi degli scontri negli ultimi mesi tale stima viene rivista al rialzo, in modo piuttosto conservativo, a 80 miliardi di euro.
A questi danni occorre aggiungere la minore accumulazione di capitale produttivo dovuta al crollo degli investimenti. Se gli investimenti fissi tra il 2011 e il 2018 si fossero attestati sui livelli del 2010, la Libia avrebbe una dotazione di capitale (al netto del deprezzamento) superiore di 70 miliardi di euro. Anche questa è una stima conservativa, perché nello scenario alternativo assume una crescita economica nulla, mentre nel 2004-2010 il PIL libico era cresciuto del 5 per cento annuo.
Nel complesso, quindi, le perdite in capitale e infrastrutture sono stimate pari o superiori a 150 miliardi di euro. È interessante notare che questo valore si colloca vicino al limite inferiore delle stime, secondo la Banca Mondiale, delle risorse necessarie per tornare ai livelli economici pre-crisi (140-210 miliardi di euro).
Per far ripartire in modo duraturo e sostenibile la Libia e il suo tessuto produttivo occorre dunque un piano di investimenti straordinari di almeno 150 miliardi in dieci anni, che nell’immediato restituisca slancio al settore di punta dell’economia, ovvero quello petrolifero, e avvii nuovamente i programmi di diversificazione dell’economia così come previsti nel periodo subito antecedente alla deflagrazione del conflitto nella visione “Libia 2020”. Per il finanziamento del piano straordinario di investimenti vanno mobilitate le istituzioni internazionali, specie europee e statunitensi, in modo coordinato e il più possibile sinergico; si tratterebbe di erogare prestiti a tassi molto agevolati che la Libia sarebbe in grado di restituire piuttosto facilmente non appena le infrastrutture per l’estrazione del petrolio tornassero a lavorare sui livelli raggiunti nel 2010. Inoltre, la ripartenza dell’economia libica potrebbe favorire anche la promozione di partnership pubblico-private nei progetti di ricostruzione nazionale.
L’Italia attraverso le sue istituzioni e le sue imprese di punta sia nel settore delle infrastrutture sia degli impianti di trivellazione ed estrazione potrebbe giocare un ruolo chiave nel programma di rilancio dell’economia libica. Priorità dovrebbe essere assegnata alle infrastrutture portuali, anche potenziandole con impianti industriali per la trasformazione o la prima lavorazione di beni primari nel settore agrifood e in quello energetico. Se il contributo dell’Italia alla ricostruzione della Libia fosse almeno proporzionale alle relazioni commerciali tra i due paesi (le relazioni storiche sono ben più profonde), le nostre imprese potrebbero assumere un ruolo di leadership nella ricostruzione, con commesse intorno ai 30 miliardi di euro in dieci anni.
La ricostruzione delle infrastrutture fisiche va accompagnata con la predisposizone di adeguati strumenti di policy, per esempio attraverso l’introduzione di zone di libero scambio, che potrebbero facilitare l’attrazione di capitali e imprese sul territorio.
Se la Libia riagganciasse il sentiero di sviluppo di paesi simili come l’Algeria e al contempo l’Italia riuscisse a rendere la sua distribuzione di export più indipendente dagli idrocarburi, molti comparti del made in Italy vedrebbero incrementare notevolmente i loro flussi di esportazioni verso la Libia. In gioco c’è circa un miliardo di export potenziale, di cui oltre un terzo (346 milioni di euro) sarebbe assorbito dai macchinari, seguito da alimentare, chimica e metalli. Le statistiche dei settori del fashion risentono della forte concorrenza della Cina. Non si può escludere che un arricchimento porti a un bilanciamento della struttura settoriale anche in favore di questi comparti.
Va notato che, al contrario di molti altri contesti, la realizzazione del potenziale in Libia dipende solo minimamente da una logica di competizione con altri paesi concorrenti, ma si fonda piuttosto sulla cooperazione internazionale: nell’immediato per restituire al paese unità in modo stabile e, nel lungo periodo, per aiutare la Libia in un processo di diversificazione dell’economia così come intrapreso da altri paesi con una marcata dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi, per esempio l’Arabia Saudita. L’ambizione potrebbe diventare quella di trasformare la Libia in un modello di sviluppo per i paesi dell’area.
Per esempio, l'Italia potrebbe giocare un ruolo importante avviando partenariati in Libia per il co-sviluppo, miranti alla valorizzazione del capitale umano, sociale e finanziario da realizzare tra PMI italiane e dei paesi confinanti, ovvero Tunisia ed Egitto.
Elevatissimi e inestimabili i benefici di lungo periodo dalla stabilizzazione della Libia, nell’immediato 4 miliardi di euro di opportunità all’anno legate alla ricostruzione Come sottolineato all’inizio di questa nota, la Libia è un Paese che dal punto di vista geoeconomico conta moltissimo per l’Italia e per l’Europa, prevalentemente per ragioni legate al ruolo di hub per i flussi migratori e di approvvigionamento di petrolio. L’avvio di un programma di stabilizzazione porterebbe anche benefici immediati, seppure più contenuti, alle imprese italiane. Si tratta di opportunità di business il cui valore è stimato in 4 miliardi l’anno per il prossimo decennio (nella prima fase sostenuti maggiormente dai fondi per la ricostruzione e poi dalle accresciute esportazioni italiane verso la Libia).
Scarica l'allegato completo