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Tullio Buccellato, Pietro Mambriani
La débâcle sulla votazione del 15 gennaio sull'accordo negoziato dal Primo Ministro Theresa May con Bruxelles aumenta l'incertezza su quando e secondo quali modalità avverrà la Brexit.
Ciò ha un impatto immediato su sterlina e fiducia dei consumatori, che restano vicine ai minimi rispetto al periodo pre-Brexit; l'incertezza tiene giù anche gli investimenti, rischiando di compromettere le prospettive di crescita dell'economia nel medio e lungo periodo.
Ne risentiranno le imprese esportatrici italiane (ed europee) che rischiano di vedere ridotti i volumi di beni rivolti al mercato britannico; in ballo ci sono circa 23 miliardi di euro. Più difficili sono anche le scelte strategiche delle imprese multinazionali che hanno scelto il Regno Unito come base logistica e sono parte di catene del valore distribuite tra UK ed UE: l'approvazione dell'accordo avrebbe quantomeno incanalato la Brexit su binari certi e traiettorie più delineate.
La prolungata incertezza potrebbe far allontanare alcune multinazionali dal Regno Unito, costituendo un'opportunità per altri paesi europei di attrarle nelle loro economie: il CSC stima che per l'Italia gli investimenti diretti esteri potenziali extra potrebbero generare un aumento del PIL di 5,9 miliardi di euro annui, ovvero lo 0,4%; ciò non è comunque da considerarsi compensativo dei rischi e degli effetti negativi legati alla Brexit.
L’esito negativo del meaningful vote (432 voti sfavorevoli all’accordo sul divorzio dall’UE contro 202 favorevoli) non fa che accrescere l’incertezza sulle modalità e i tempi dell’uscita del Regno Unito dall’UE.
Mentre infatti una vittoria del sì avrebbe reso certa la data del 29 marzo e le modalità sarebbero state quelle contenute nell’accordo negoziato dal Primo Ministro Theresa May con Bruxelles, ad oggi questi elementi sono stati entrambi rimessi in discussione; persino la tenuta del Primo Ministro, se non della sua intera coalizione di Governo, adesso è in bilico.
Vista la débâcle, il leader laburista Jeremy Corbyn ha già chiesto un voto di sfiducia contro il Governo. Ciò rende meno probabile un secondo voto sull’accordo e non si può escludere uno scenario di voto anticipato, con lo spettro degli outcome che allo stato attuale, almeno in linea teorica, spazia ancora da ‘no Brexit’ a ‘no deal’. Questo rende anche più probabile il ricorso all’estensione delle negoziazioni, così come previsto dall’Art. 50 dei Trattati.
Il Regno Unito è il paese europeo più esposto alle incertezze legate alla Brexit e l’esito del voto purtroppo le acuisce. La sterlina resta ai minimi, mettendo a rischio gli sforzi della Banca d’Inghilterra volti a contenere l’inflazione; nei primi mesi della Brexit l’inflazione aveva accelerato superando la soglia del 3% con ripercussioni immediate sulla fiducia dei consumatori e sulle loro capacità di spesa; fattori che ad oggi, nonostante il calo dell’inflazione, restano problematici.
Inoltre il PIL, a partire dal 2016, non ha fatto che rallentare soprattutto per le due componenti di consumi e investimenti, entrambe vulnerabili all’elevata incertezza; il calo drammatico degli investimenti potrebbe avere effetti negativi anche nel medio lungo periodo, per il ridimensionamento della crescita potenziale.
Le imprese italiane ed europee si trovano a dover fronteggiare principalmente due tipologie di ostacoli che, aldilà del voto di ieri, sono legati all’evento della Brexit in sé; il rifiuto dell’accordo aumenta l’incertezza e questo rende più complesse le strategie degli operatori.
Ci sono prima di tutto i problemi per le imprese multinazionali che hanno scelto il Regno Unito come base logistica o che comunque hanno delle attività sul territorio britannico e sono parte di catene del valore distribuite su base europea e potrebbero dover rivedere alcune scelte organizzative per adattarsi al mutato contesto; inoltre molte imprese multinazionali si appoggiano alla piazza di Londra per la gestione dei servizi finanziari, vi è quindi la possibilità che ci possano essere aumenti del costo del credito per le imprese.
In seconda battuta ci sono tutti gli ostacoli che le imprese esportatrici italiane si troveranno a dover affrontare quando il Regno Unito uscirà dal mercato unico. Aver rimesso sul tavolo l’eventualità di un ‘no deal’ implica la possibilità che si ricada in uno scenario in cui, almeno per un periodo e per determinate categorie di prodotto, si potrebbe finire per utilizzare le regole tariffarie del WTO.
La Commissione europea ha nei mesi scorsi pubblicato una serie di comunicazioni e di avvisi ai rappresentanti di interessi (notice to stakeholders), che illustrano le implicazioni giuridiche e pratiche e la normativa applicabile per tutti i settori in caso di uscita del Regno Unito dall’UE senza un accordo: dalla salute e sicurezza alimentare, fino ai trasporti, passando per i servizi finanziari, l’ambiente e il mercato interno.
L’uscita del Regno Unito dall’UE potrebbe mettere in moto la riallocazione, almeno parziale, degli investimenti diretti esteri (IDE). Secondo questo scenario, per i paesi UE ci saranno opportunità di maggiori capitali esteri in entrata. Uno studio effettuato a ridosso del referendum sulla Brexit1 stimava una diminuzione degli IDE nel Regno Unito del 22% in dieci anni. Ciò equivarrebbe a circa 282 miliardi di euro di capitali esteri che potrebbero affluire nei paesi UE.
L’attrazione di questi investimenti esteri da parte dei singoli paesi potrebbe dipendere anche dalle loro caratteristiche strutturali. Il Centro Studi Confindustria stima che l’effetto netto della Brexit per l’Italia potrebbe determinare un aumento di IDE pari a 26 miliardi di euro. Un tale incremento si tradurrebbe in un aumento del PIL pari a 5,9 miliardi di euro annui, ovvero lo 0,4%.
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