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Oggi, nell’ambito delle consultazioni con le Parti Sociali, si è tenuto in video conferenza l’incontro fra il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi e il Presidente del Consiglio Mario Draghi. Il quadro macroeconomico proposto dal Documento di Economia e Finanza, le misure più urgenti per le imprese e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, questi i temi al centro della riunione.
Di seguito il testo integrale dell’intervento di Carlo Bonomi.
Caro Presidente,
da più di un anno siamo alle prese con la pandemia. E ancora una volta gli effetti sull’economia, lavoro e redditi sono diseguali nel mondo, e tra Paesi avanzati.
La ripresa è legata al successo della campagna vaccinale. Ma essa è già iniziata da tempo in Paesi che hanno possibilità di mobilitare molte risorse tra politica monetaria e fiscale, non solo con sistemi autoritari, come la Cina, ma con la forza del mix di politica economica e di mercato, come gli USA. L’Europa rischia di restare indietro, e l’Italia più indietro dell’Europa. A preoccuparci molto è la gravità e la profondità delle fratture sociali che nella nostra Italia - dopo oltre 20 anni di politiche sbagliate - si sono ulteriormente radicalizzate con la pandemia.
Non c’è tempo, in questo incontro, per un confronto complessivo sui problemi e le migliori soluzioni da varare.
Da un anno abbiamo sottolineato che la gravità e la molteplicità dei colli di bottiglia italiani, ostili a una crescita inclusiva, richiedevano la più ampia partecipazione di tutte le forze economiche e sociali, perché l’ingente mole di risorse messa a nostra disposizione dall’Europa fosse convogliata su finalità credibili e condivise. Ma il tempo per noi imprese è trascorso invano.
Non è colpa del suo Governo, caro Presidente. Ma così è andata. Mentre ancora una volta sono state industria e manifattura a tenere in piedi l’Italia, visti i colpi durissimi purtroppo incassati da imprese, occupati e redditi nel settore dei servizi.
Ora possiamo solo sforzarci di essere sintetici e concreti, oltre a confermare la nostra totale disponibilità.
Farò quindi osservazioni e proposte concentrate su tre punti nodali: il quadro macroeconomico proposto dal DEF; le misure più impellenti per le imprese; il PNRR.
Le misure di sostegno all’economia che il suo Governo assume e assumerà portano a un andamento programmatico del deficit che dall’11,8% sul PIL di quest’anno dovrebbe scendere al 5,9% nel 2022, al 4,3% nel 2023, al 3,4% nel 2024 e sotto il 3% nel 2025.
Se è pur vero che parte della discesa del deficit dipenderà da un graduale abbandono e, auspicabilmente, da una sempre minore necessità di misure emergenziali, è altrettanto vero che, a meno di pensare a Paesi in default o sottoposti a durissimi programmi di rientro coordinati dal FMI, una discesa del deficit pubblico superiore a 8 punti di PIL in 36 mesi è un evento che non può generarsi senza interventi per innalzare la crescita e renderla solida e duratura.
E il DEF, infatti, parla di un debito pubblico in rapporto al Pil che in termini programmatici sfiora il 160% del PIL in questo 2021 si prevede resti superiore al 150% fino al 2025.
Noi ravvisiamo due seri problemi.
Il primo è che tutto ciò sembra assumere come postulato che i 4 pilastri europei della risposta al COVID restino per molti anni; mi riferisco, in particolare, a (i) la sospensione del Patto di Stabilità per deficit e debito, (ii) gli acquisti della BCE senza limiti di capital key, (iii) le deroghe alla disciplina degli aiuti di Stato e, infine, (iv) che il Next Generation EU sia solo l’inizio di una progressiva espansione del debito europeo, utilizzato a fini mutualistici tra Paesi membri.
Possiamo auspicarlo, ma nessuno di noi, oggi, è in grado di assumere credibilmente tale ipotesi. Troppi eventi su ciascuna di queste partite sono di là da venire e i loro esiti sul concerto europeo sono imprevedibili.
Soprattutto l’Italia, con un debito pubblico così alto e un rischio oggettivo di ritrovarsi esposta al riallargarsi traumatico dello spread senza la stampella della BCE, dovrebbe avere e proporre in Europa anche uno scenario “B” credibile, per il rientro dei suoi squilibri nel caso in cui l’ipotesi ottimista non si verificasse.
Non dobbiamo dire a lei quanto sia difficile immaginare che per molti anni a venire il costo del denaro praticato dalle grandi banche centrali resti prossimo o sotto lo zero, una volta riavviata la ripresa.
Il secondo problema è che è difficile convincere famiglie e imprese a orientare verso investimenti produttivi la montagna accresciuta di risparmio nella crisi di circa 110 miliardi, fino a raggiungere 1700 miliardi, se continua ad aleggiare l’ipotesi che, per rientrare dall’eccesso di debito, saranno necessarie stangate fiscali.
Le nostre osservazioni sul DEF non sono critiche da acide vestali del rigore. Al contrario, chiediamo misure e interventi affinché la crescita sia più solida e autoportante. E più inclusiva verso le vittime della crisi: i giovani, le donne, i poveri, coloro che hanno solo contratti a tempo.
Al termine del DEF c’è un capitolo che illustra i rischi per PIL e conti previdenziali se non si affrontano con misure radicali di lungo periodo la paurosa curva demografica che ci affligge, e la necessità di flussi regolari di immigrati di cui abbiamo bisogno.
Ecco, è il momento di non limitarsi più a illustrare questi rischi come trend negativi; bisogna invertirli con misure energiche e credibili, dicendo quali sono. Noi siamo pronti ad offrire i nostri suggerimenti anche su questi temi.
Vengo al secondo blocco di osservazioni.
Sono 4: liquidità, patrimonializzazione, ristori, lavoro.
Sulla liquidità, le misure assunte dal governo conte nel 2020 hanno prodotto un sovraindebitamento delle imprese. Abbiamo documentato quanto ciò comporti per ogni settore impegnare anni e anni di futuro cash flow non per gli investimenti, oggi più che mai necessari, ma per far fronte agli oneri e alla restituzione del debito. Prospettiva aggravata dagli attuali andamenti dei prezzi delle materie prime, in forte crescita a seguito della ripresa mondiale, così come quelli dei trasporti merci intercontinentali derivanti anche da misure protezionistiche.
Servono dunque alcune misure prioritarie:
Tali misure andrebbero accompagnate da interventi volti al rafforzamento patrimoniale delle imprese
Va subito definito un incentivo vigoroso a favore degli aumenti di capitale. con un credito di imposta pari ad almeno il 70% dell’aumento di capitale, eventualmente da utilizzare in più anni, per arginarne l’impatto sulla finanza pubblica. Tale misura andrebbe accompagnata da un parallelo incentivo destinato a persone fisiche e investitori che sottoscrivono aumenti di capitale e, al contempo, da misure di semplificazione volte ad agevolare l’approvazione delle delibere di aumento nelle società di capitali.
Serve inoltre rinviare di un anno l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa o, quantomeno, delle procedure di allerta e composizione assistita della crisi. Per evitare una ondata fuori controllo di fallimenti, come altrimenti prospettato dalla Banca d’Italia.
Quanto ai ristori, da mesi avevamo segnalato al precedente governo la necessità di superare le gabbie dei codici Ateco, ma anche di superare la logica delle perdite di fatturato per determinare i contributi a fondo perduto. Siamo dunque fortemente a favore di criteri che tengano conto dei costi fissi sostenuti come, ad esempio, i canoni di locazione e di leasing, i tributi locali e le utenze. Tale sistema sosterrebbe maggiormente le imprese ad alta intensità di occupazione e che investono di più in beni materiali e immateriali.
Il lavoro è un’emergenza assoluta. Tra febbraio 2020 e febbraio 2021, abbiamo perso 945 mila occupati. Malgrado il blocco dei licenziamenti universale e per legge assunto solamente dall’Italia.
Insieme al milione aggiuntivo di italiani scesi sotto la soglia della povertà assoluta nel 2020, sono l’alfa e l’omega dell’emergenza sociale che il nostro Paese e il suo governo, signor presidente, deve affrontare.
Per il lavoro, vanno distinte due prospettive temporali.
La prima è quella delle misure necessarie subito, lavorando intanto per scaricare meglio a terra strumenti già esistenti. Per questo proponiamo tre interventi.
Rafforzare il contratto di espansione. Per accompagnare al meglio le transizioni occupazionali delle imprese occorre abbassare a 50 unità lavorative la soglia dimensionale minima. Deve essere uno strumento di vera transizione e non solo di accompagnamento al pre-pensionamento.
Sgravi contributivi totali di alcuni anni per le imprese che abbiano instaurato, anche per il tramite di associazioni di rappresentanza, partnership con Istituti Tecnici Superiori o università e che assumano in apprendistato giovani fino a 29 anni di età, nonché uno sgravio contributivo totale per le imprese che assumano a tempo indeterminato donne.
Sui contratti a termine, uscire una volta per tutte dalle proroghe a tempo del regime di condizionalità previste nel cosiddetto decreto dignità. Nella fase di ripresa servono vieppiù contratti flessibili. Assolutamente non lesivi delle tutele economiche e normative garantite ai lavoratori, ma ancorati invece alla contrattazione con i sindacati a ogni livello a cominciare da quello aziendale, sia della quota di lavoratori a tempo sugli organici, sia del più corretto mansionamento.
C’è poi un secondo campo di interventi: quello delle riforme strutturali delle politiche del lavoro, di medio-lungo periodo.
Cioè la riforma degli ammortizzatori sociali, e quella delle politiche attive del lavoro.
Nel luglio 2020 abbiamo inoltrato a governo Conte e parti sociali le nostre dettagliate proposte tecniche. Non abbiamo avuto da allora alcun riscontro. E’ una delle nostre maggiori amarezze, perché a fronte dell’emergenza sociale ci risulta francamente incomprensibile.
Entrambe le riforme devono essere volte non più a preservare il lavoro dov’era e com’era, ma all’occupabilità e rioccupabilità: dei giovani, delle donne e insieme delle coorti più anziane. Non più attraverso le vecchie CIG, ma con un nuovo ammortizzatore sociale universale e politiche attive del lavoro basati entrambi su formazione permanente e rioccupabilità. Una NASPI rivista, che a differenza della CIG non impedisca per legge la formazione ai beneficiari ma la renda obbligatoria. E politiche attive non più incentrate sui soli Centri Pubblici per l’Impiego, ma aperte su base di accreditamento paritario secondo comuni standard di servizio alle APL private, che di fatto intermediano una quota ben maggiore di riallocazioni conoscendo da di dentro la domanda di skill delle imprese e realizzano formazione secondo standard diversi dai vecchi mansionari su cui è ancor oggi basata la formazione professionale nel più delle Regioni.
Ma la riforma del lavoro ci porta all’ultimo blocco di osservazioni: sul PNRR.
Noi non sappiamo ancora come il Governo modificherà la bozza ereditata dal Governo Conte. Su quella bozza, ci siamo espressi in Parlamento e in un breve incontro il 10 febbraio scorso.
Poiché il PNRR rappresenta la strategia più importante di rilancio del Paese dal dopoguerra a oggi, avevamo chiesto dalla scorsa estate un coinvolgimento pieno di tutte le forze sociali. Siamo ormai a poche settimane dalla sua presentazione. E dobbiamo prendere atto che esso non è avvenuto.
Non ci resta che avanzare quattro nostri auspici di ordine generale.
Primo: un sistematico coinvolgimento delle parti sociali nell’attuazione del Piano, in linea con le indicazioni contenute nel Regolamento (UE) 2021/241. Serve una vera e propria “rete” nazionale, composta da soggetti pubblici (es. Banca d’Italia e ISTAT) e privati (es. centri di ricerca, università, associazioni di categoria), in modo da monitorare ed elaborare costantemente i dati e le informazioni necessarie ad accompagnare l’esecuzione dei progetti.
Secondo: una governance del Piano basata sul sincronismo istituzionale, superando contrapposizioni e frammentazioni nel rapporto delle pubbliche amministrazioni fra centro e periferia e tra mondo pubblico e attori privati. Occorre per ciascun intervento, un unico responsabile, che coordini un “team dedicato”, composto dalle migliori professionalità selezionate nelle amministrazioni, centrali e territoriali, coinvolte nella realizzazione di quell’intervento. Si tratta di introdurre una nuova modalità operativa, per attivare la cooperazione ed evitare veti incrociati su temi decisivi per il Paese, come le reti infrastrutturali, energetiche e di telecomunicazione. È fondamentale che la struttura centrale presso il MEF – non ogni singolo ministero - si occupi della gestione dei flussi finanziari e della rendicontazione dei progetti, ma dia anche un supporto operativo alla gestione del PNRR ed elabori, in caso di ostacoli attuativi, apposite azioni correttive.
Terzo: per le imprese occorre una visione complessiva per accompagnare nel miglior modo il mix peculiare dell’offerta industriale italiana alla ripresa del mercato italiano, europeo e mondiale. Al PNRR del Governo precedente mancava tale visione industriale strategica. Appariva come una somma di progetti in capo ai ministeri. Non mancavano solo cronoprogrammi, costi e impatti richiesti dalle guide lines europee. Per l’industria, non vi erano che pochi e incidentali riferimenti alle sue principali filiere, protagoniste della crescita italiana sui mercati mondiali. Automotive e siderurgia, ad esempio, erano richiamate solo a latere degli interventi su transizione energetica e mobilità sostenibile. Senza alcun riferimento a una visione complessiva d’insieme, di tutte le catene di fornitura e del valore. Per non parlare della nostra elettromeccanica, dell’automazione industriale, della chimica e farmaceutica, del tessile-moda, del comparto delle Life Sciences, solo per fare alcuni esempi.
Mancava una visione trasversale e diffusa sul partenariato pubblico-privato da mobilitare in campo finanziario per accrescere gli investimenti in Italia a favore di fusioni e concentrazioni d’impresa, transizione ambientale, compartecipazione nella valutazione del rischio d’impresa basandola sull’analisi dei singoli piani industriali e non del mero sostegno a tempo.
Mancava poi, qualsiasi obiettivo di aumento della produttività e della concorrenza. Una assenza inesplicabile, per un Paese che da 25 anni registra produttività stagnante o negativa, malgrado sia positiva quella della manifattura e di alcuni servizi esposti alla concorrenza internazionale, mentre è negativa nella PA e nei servizi non o poco esposti alla concorrenza. Ed essa è dovuta anche e proprio al fatto che il 75% del valore aggiunto nel PIL nazionale resta escluso da criteri concorrenziali. Le proposte che l’Autorità Antitrust le ha consegnato, signor presidente, vanno accolte e tradotte in interventi concreti nel PNRR: dalla energica diminuzione dei servizi in house delle controllate locali, all’abbattimento della logica sin qui seguita di derogare la durata delle concessioni pubbliche, come degli ostacoli alla liberalizzazione del commercio
Era molto chiara invece una scelta di fondo: una svolta sugli investimenti solo pubblici incardinati sui gruppi di Stato.
Scelta analoga per il mercato del lavoro, solo incentrata sui Centri Pubblici per l’Impiego.
Come Confindustria, a titolo di esempio, abbiamo elaborato tre progetti coerenti alla nostra visione sinergica. Uno sul capitale umano: per creare uno STEAM Space nelle scuole medie italiane e per la formazione 4.0 degli insegnanti; rafforzare l’alternanza-apprendistato; potenziare le dotazioni tecnologiche degli ITS. Il secondo sull’ economia circolare: in particolare, il riciclo chimico potrebbe consentire di azzerare i conferimenti in discarica e un riutilizzo potenzialmente infinito delle materie prime. Il terzo sull’economia del mare: per la transizione tecnologica ed energetica nella mobilità marittima e movimentazione logistico-portuale, temi poco toccati dal PNRR del Governo precedente.
Quarto: la visione generale per la ripresa del Paese.
Era l’aspetto che ancor meno ci convinceva rispetto ai precedenti tre, del PNRR di gennaio.
I progetti di intervento su scuola, lavoro, sanità, previdenza, continuavano a essere considerati compartimenti stagni.
Noi pensiamo, invece, che la sostenibilità sociale compromessa del nostro Paese, la bassa partecipazione al mercato del lavoro, la rottura dell’ascensore sociale malgrado una spesa pubblica rilevantissima, l’integrazione delle donne, dei giovani e delle famiglie, lo squilibrio aggravatosi tra aree del Paese, in primis tra Nord e Sud, debba vedere nel PNRR una risposta complessiva ispirata allo stesso giustificatissimo senso di emergenza permanente che ci vede impegnati a battere il COVID
Pensiamo che le fratture sociali italiane in continua crescita richiedano una revisione generale dell’intervento dello Stato, e di alcuni pilastri fondamentali del nostro vivere come comunità.
Richiedono una modifica dell’offerta formativa pubblica. Di ciò che le scuole e le Università danno ai nostri giovani e che spesso non li rende pronti alle domande delle imprese.
Richiedono una revisione generale della sanità, basata sull’adozione del modello Long Life Care necessario in una società sempre più anziana, e che chiede più medicina territoriale, più telemedicina e più diagnosi precoci con nuove tecnologie avanzate.
Richiedono una reimpostazione della previdenza. Perché la nostra spesa pubblica sociale è nella media europea, ma paurosamente sbilanciata a favore delle pensioni. E il problema diventa allora quella di misure atte a mantenere al lavoro le coorti più anziane, magari cambiandone le mansioni e volgendole alla formazione dei neo addetti.
Richiedono un fisco organicamente riformato non intervenendo con bonus e forfait su questa o quella imposta, ma in una logica complessiva che abbatta le iniquità orizzontali e verticali oggi vigenti in termini di aliquote reali e disincentivi al lavoro e al reddito e, soprattutto, un fisco certo e prevedibile, capace di attirare capitali e consentire la pianificazione di investimenti.
Richiedono una riforma delle procedure pubbliche semplice e chiara, perché senza di essa non basta nominare commissari alle opere per vederle realizzate in cinque anni.
E infine richiedono l’abbandono di criteri elettoralistici e assistenziali.
Perché se una parte dei 40 miliardi attribuiti al fondo Patrimonio Destinato di CdP per patrimonializzare le imprese la destiniamo a quelle coinvolte nei tavoli di crisi aperti al MISE e molto spesso decotte da anni, allora noi sosteniamo proprio le imprese zombie, invece di destinare i fondi pubblici a quelle imprese che necessitano di rilancio e di piani per la rioccupabilità dei loro lavoratori. E se rinazionalizziamo ILVA dopo 9 anni di commissariamento senza avere un piano industriale, poniamo le basi per una nuova Alitalia.
Restiamo dunque fiduciosi, in attesa del PNRR del Governo da lei presieduto e a totale disposizione per il maggior coinvolgimento possibile di ogni risorsa privata nella costruzione di una nuova Italia.