Regole incerte e politiche inaffidabili fanno morire le imprese - L'editoriale di Marcella Panucci su Huffington Post

14 giugno 2019 | Direttore Generale

Se la politica continua a distrarre l’opinione pubblica dalle questioni vere, il tasso di fiducia e gli investimenti sono destinati a calare e le crisi ad aumentare

Qualche giorno fa, Paolo Bricco, editorialista del Sole 24 ore, ha definito in un suo pezzo quella appena trascorsa la settimana nera dell’industria italiana.

Nel suo editoriale per Huffington Post Marcella Panucci, Direttore Generale di Confindustria, si chiede se sia davvero così e che cosa stia succedendo al nostro sistema industriale.

Gli ultimi dieci anni hanno visto una profonda trasformazione della nostra industria, da un lato indotta dalla crisi, che ha fatto perdere un quarto della produzione industriale e 9 punti di PIL, dall’altro, da un contesto internazionale molto competitivo, con l’affermarsi di economie a basso costo e alta intensità di produzione, che hanno spiazzato interi settori, e paesi avanzati che si contendono investimenti esteri puntando su fattori regolamentari, misure fiscali, facilità di accesso ai capitali.

In questo quadro abbiamo oggi un 20 per cento di imprese eccellenti, innovative, internazionalizzate, produttive, che fanno l’80 per cento del valore aggiunto, un 60 per cento di imprese in fase di transizione e un 20 per cento di imprese marginali e con poche prospettive di ripresa.

Ci sono imprese che chiudono o vengono cedute, altre che nascono, crescono o si trasformano, altre ancora che decidono di investire in Italia o di lasciare il paese.

Queste decisioni sono ormai sempre più influenzate non solo da fattori di costo, ma dalla certezza e stabilità delle regole, dalla semplicità dei sistemi amministrativi e fiscali, dalla qualità del capitale umano. Il fatto che spesso le multinazionali scelgano per le loro sedi non paesi con costi bassi di produzione, ma economie avanzate deve far riflettere. Knorr, in fondo, non va in Pakistan, ma in Portogallo.

In questo senso il nostro Paese sconta dei gap strutturali. L’altro ieri Cipolletta, presidente di Assonime, ha ricordato che negli ultimi 20 anni ci sono state 12 riforme della giustizia, 7 delle crisi d’impresa, 7 del mercato del lavoro, 5 del sistema pensionistico, 9 della tassazione d’impresa e almeno 8 della PA. Attenzione, in alcuni casi sono stati interventi positivi, ma puntualmente rimessi in discussione a ogni cambio di Governo.

E sono proprio l’instabilità delle regole e l’inaffidabilità delle politiche sono alcune delle cause per cui l’Italia è poco attrattiva. Nell’ultimo anno il decreto dignità ha cambiato la disciplina dei contratti a termine, sono stati eliminati il superammortamento (salvo poi reintrodurlo) e l’ACE, misura a sostegno della patrimonializzazione delle imprese, e ridotto il credito di imposta per la ricerca.

I primi due strumenti sono stati in parte sostituiti dalla mini-Ires, poi rimodificata successivamente. È stato previsto uno “scudo” dalla responsabilità erariale per i funzionari pubblici che firmano decreti di revoca delle concessioni autostradali e limitata la norma che stabiliva una esimente penale a favore del nuovo management di Ilva per i reati commessi nelle precedenti gestioni. È stata riformata in peggio la disciplina della class action e cambiate, per l’ennesima volta, le norme in materia di corruzione.

Le imprese multinazionali hanno la capacità di scegliere in una prospettiva globale e quando non gli conviene restare in un paese semplicemente se ne vanno. In questi casi minacciare la revoca degli incentivi serve a poco.

I problemi si acuiscono quando a entrare in crisi o ad andare via sono imprese del Mezzogiorno, dove alcuni grandi siti produttivi, nati in passato per favorire lo sviluppo industriale, si sono trasformati in cattedrali nel deserto e non hanno contribuito alla creazione di un tessuto produttivo diffuso. Per questo al Sud le crisi industriali diventano un detonatore sociale. Qui in particolare occorre accompagnare gli interventi sulle imprese con una adeguata politica di sviluppo del territorio che riguardi la qualità dei servizi, le infrastrutture e la dotazione di capitale umano.

La complessità e la numerosità dei tavoli di crisi richiedono, infine, strutture di gestione altamente qualificate e in grado di disegnare soluzioni specifiche in relazione alle diverse cause della crisi. Oggi i sistemi di gestione delle crisi vengono attivati tardivamente, sono incentrati sulle politiche passive e difficilmente riescono a trovare soluzioni in grado di rilanciare le attività industriali e favorire efficaci processi di riconversione. Il tasso di soluzione è basso e, comunque, collegato all’esistenza di una solida prospettiva industriale. Quando questa manca, anche le crisi che sembravano risolte inesorabilmente si riaprono (Irisbus, Mercatone Uno, etc.).

Che fare allora? C’è un ruolo al quale il decisore pubblico non può sottrarsi: anticipare le crisi, accompagnando le trasformazioni del nostro sistema industriale e mettendo in campo le politiche più adatte per favorire questi cambiamenti.

Si sa già da oggi che in futuro il settore dell’automotive non sarà più lo stesso. Lo stesso si può dire per la plastica. Vogliamo affrontare da subito questi cambiamenti o aprire tavoli di crisi tra 10 anni?

Serve una visione di politica industriale, che sostenga gli investimenti delle imprese in ricerca, innovazione, formazione e riqualificazione delle persone con vere politiche attive del lavoro. Industria 4.0 è un esempio. Il driver della digitalizzazione è la chiave della trasformazione in atto, ma non l’unica. Le sfide che le imprese dovranno affrontare riguardano l’ambiente, la sostenibilità, la scarsità di risorse e materie prime.

Bisogna immaginare un piano come 4.0 su queste nuove traiettorie, ma anche una nuova politica energetica che tenga insieme obiettivi ambientali, di sicurezza e stabilità degli approvvigionamenti e di competitività dei costi, senza la quale sarà difficile garantire un futuro a importanti impianti industriali energivori.

Insomma, se non si garantisce alle imprese un orizzonte certo di medio periodo e un contesto competitivo, se si mettono continuamente in discussione le riforme fatte e alcuni pilastri come la nostra appartenenza all’Europa (il mercato di destinazione principale per i prodotti italiani), se la politica continua a distrarre l’opinione pubblica dalle questioni vere, il tasso di fiducia e gli investimenti sono destinati a calare e le crisi ad aumentare.

Molti in questi giorni hanno parlato di deindustrializzazione: non è, oggi, un rischio concreto perché siamo ancora il secondo paese manifatturiero d’Europa, ma è un primato che rischiamo di perdere se non ci muoviamo presto, con idee chiare e un progetto serio e credibile.



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