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Giovanna Labartino, Francesca Mazzolari e Giovanni Morleo*
(anno di riferimento 2021)
L’occupazione è aumentata, trainata dai contratti a termine Nel corso del 2021 l’occupazione dipendente complessiva nelle imprese associate a Confindustria è aumentata del 2,2%, sintesi di un incremento del 3,5% nelle imprese dei servizi e dell’1,3% nel settore dell’industria. L’aumento coinvolge le imprese di ogni classe dimensionale, da quelle con meno di 15 dipendenti (+2,1%), a quelle con 16-99 dipendenti (+2,0%), a quelle con più di 100 dipendenti (+2,2%).
Nelle imprese associate, nel corso del 2021, l’occupazione della componente maschile risulta aumentata dell’1,6%%, mentre è cresciuta più sensibilmente l’occupazione femminile (+3,1%; Figura A).
Rispetto alla tipologia contrattuale, nel corso dello scorso anno si registra un boom di occupati a tempo determinato (+41 %), che a fine 2021 rappresentano il 5,8% dei dipendenti totali nelle imprese associate. Tiene l’occupazione a tempo indeterminato (+0,7% nell’anno), che risulta quella di gran lunga più diffusa nelle imprese associate (il 91,9% dei dipendenti è impiegato con tale contratto). Sostanzialmente stabili gli apprendisti (-0,2%), ma il dato medio nasconde un andamento differenziato tra settori, con un aumento nelle imprese dell’industria (+8,8%) e una contrazione in quelle dei servizi (-14,6%).
Diffuso l’impiego dei contratti di somministrazione Quasi un terzo delle imprese associate (30,5%) ha impiegato nel 2021 almeno un lavoratore in somministrazione a tempo determinato, con una diffusione più alta nell’industria (40,1%) e nelle grandi imprese (70,4%). Per dare un’idea dell’intensità di utilizzo, si consideri che il numero di lavoratori in somministrazione di cui si è avvalsa l’impresa complessivamente nell’anno è pari mediamente al 7% della forza lavoro complessiva riportata al 31 dicembre 2021.
La somministrazione a tempo indeterminato è stata utilizzata mediamente dall’8% delle imprese, anche in questo caso più nell’industria (12,1%) e nelle grandi imprese (34,9%), per una quota di lavoratori somministrati in corso d’anno pari allo 0,8% della forza aziendale (Figura B).
Ancora rilevante l’utilizzo degli ammortizzatori sociali Nel corso del 2021, il 31,9% delle imprese associate ha fatto ricorso agli ammortizzatori sociali con causale “Covid-19” (CIG ordinaria e in deroga e l’assegno ordinario di integrazione salariale), con risultati simili tra industria (31,2%) e servizi (32,8%). L’utilizzo ha inciso di più tra le imprese più grandi (100+ dipendenti, al 39,1%), rispetto a quelle più piccole (30,2% per le imprese con meno di 15 dipendenti, 32,7% per le imprese della classe dimensionale media).
Turnover del lavoro più alto nei servizi Come nelle precedenti edizioni, anche quest’anno l’indagine misura il turnover in entrata e in uscita. Innanzitutto, le imprese con turnover nullo (ovvero le imprese che, sulla base dei dati indicati nel questionario, non hanno registrato né entrate né uscite di personale) sono state il 23,3% del campione.
Il tasso di turnover complessivo (la somma di lavoratori assunti e cessati nel corso dell’anno sul totale dell’occupazione a fine 2020) è risultato pari al 35,5% nella media del campione analizzato. Il turnover è decisamente più alto nelle imprese dei servizi (50,5%) rispetto all’industria (26%) e incide soprattutto nelle imprese piccole (58,9% nelle imprese con meno di 15 addetti, mentre è al 36,9% e al 32,2% rispettivamente in quelle medie e grandi). Il turnover in entrata è pari al 18,8%, mentre quello in uscita è pari al 16,7%.
Difficoltà di reperimento delle competenze necessarie per un quarto delle imprese Alle imprese rispondenti è stato chiesto se nel 2021, al di là dello shock dovuto alla pandemia, le assunzioni programmate dall’azienda fossero state limitate da qualche fattore specifico. A fronte del 31,3% di imprese che non avevano programmato assunzioni e un altro 41,9% che non ha riscontrato limitazioni, ben un quarto segnala di aver avuto difficoltà legate al reperimento delle competenze necessario (24,9%), quota che sale a un terzo tra le imprese con almeno 100 dipendenti (33,1%). Marginali (intorno al 2%) sia la quota dei rispondenti che segnala limitazioni legate al blocco dei licenziamenti (in essere, in linea di massima, fino al 30 giugno 2021 per le imprese industriali e dell’edilizia e fino al 31 dicembre 2021 per le imprese degli altri settori), sia quella che cita come deterrente il ricorso allo smart working (per es., per connesse difficoltà a formare/inserire i nuovi assunti).
Tasso di assenteismo più alto in imprese più grandi Nel corso del 2021 le ore lavorabili pro-capite, al netto delle ore di Cassa Integrazione Guadagni, sono state mediamente pari a 1.6721. Di queste, 107 non sono state lavorate a causa delle assenze dal lavoro (retribuite e non). Il tasso di assenteismo (calcolato come il rapporto tra le ore di assenza e le ore lavorabili) si è dunque attestato al 6,4%.
L’incidenza delle assenze, come calcolata sulla base dei dati dell’indagine Confindustria sul lavoro, è risultata simile nell’industria in senso stretto (6,4%) e nei nei servizi (6,5%).
Il tasso di assenteismo si è confermato crescente all’aumentare della dimensione aziendale: 6,9% in quelle con 100 e più addetti, 4,5% in quelle fino ai 15 (Figura C).
Causali di assenza diverse per genere La malattia non professionale si è confermata la causa più frequente di assenza (3,4% delle ore lavorabili), seguita dagli altri permessi retribuiti (1,3%), che includono i permessi sindacali e quelli per visite mediche o accompagnamento parentale, e dai congedi retribuiti (1,0%). L’incidenza delle assenze è risultata pari al 5,8% tra gli uomini e al 7,7% tra le donne. I congedi parentali spiegano la quasi totalità della differenza, essendo pari al 2,4% delle ore lavorabili per le donne e allo 0,5% per gli uomini, a causa degli oneri di accudimento familiare, visto che quelli a carico del genere femminile sono di gran lunga maggiori. Da rilevare, ad ogni modo, che il tasso di assenze dovute a congedi parentali risulta in calo rispetto a quanto rilevato per il 2019, in particolare per le impiegate (per queste ultime, dal 3,5% al 2,6%), presumibilmente anche in conseguenza dell’utilizzo dello smart working come strumento di conciliazione vita-lavoro.
Una su quattro aziende associate con contrattazione aziendale Tra le imprese che hanno partecipato all’ultima indagine, circa un quarto (il 23,3%) ha dichiarato di applicare un contratto aziendale, cioè firmato con RSU/RSA o rappresentanze territoriali. Gli accordi sono molto più diffusi nelle grandi imprese (66,8% tra quelle con almeno 100 dipendenti) rispetto alle piccole (10,2% se i dipendenti sono al massimo 15). Di conseguenza, la percentuale di lavoratori coperti da un contratto aziendale nel campione complessivo è più alta rispetto alla quota di imprese (60,0%).
Tra le materie regolate nei contratti aziendali, in primis, i premi di risultato collettivi: quasi i due terzi dei contratti lo prevedono (62,2%), e la quota sale a 85,7% tra le imprese con almeno 100 dipendenti (92,0% se operanti nell’industria al netto costruzioni).
Molto diffusa nella contrattazione aziendale anche la regolazione dell’orario di lavoro (53,9%), la conciliazione vita-lavoro (35,1%) e lo smart working (25,5%).
Riguardo alle erogazioni di welfare (aggiuntivo rispetto a legge, CCNL e reg. aziendale), quasi un terzo dei contratti aziendali lo prevede (31,5%) e circa un quarto prevede l’opzione di conversione dei premi di risultato in welfare (24,4%).
Focus sullo smart working Al di là dei picchi di diffusione raggiunti durante le fasi acute dell’emergenza sanitaria, per anticipare le prospettive di diffusione dello smart working nel prossimo futuro l’indagine di quest’anno ha rilevato il grado di utilizzo di questa forma di lavoro da parte delle imprese associate distinguendo tra le quelle che al momento della rilevazione (febbraio-aprile 2022) facevano ricorso al regime semplificato (cosiddetto “emergenziale”, introdotto nel 2020) e quelle che lo avevano già adottato in via “strutturale” (secondo le disposizioni della legge 81/2017), o intendevano farlo entro il 2024.
Alle imprese che a inizio 2022 avevano adottato lo smart working in via strutturale, o pensavano di adottarlo entro due anni, sono state inoltre rivolte una serie di domande aggiuntive relative alla modalità di introduzione del lavoro agile in azienda, alle condizioni di accesso previste per i lavoratori, oltre che a opportunità e limiti percepiti dall’impresa in relazione a questa tipologia di svolgimento del lavoro, e agli investimenti e cambiamenti organizzativi effettuati o in programma, proprio in funzione dell’opzione del lavoro agile.
Smart working diffuso anche nel post-pandemia I risultati indicano che, prima della pandemia, lo smart working era già presente in più di una impresa su dieci (11,2%). In particolare, questa modalità di lavoro era maggiormente diffusa nei servizi, anche per la natura stessa dell’attività: il 14,4% delle imprese la utilizzava, contro il 9,4% nell’industria in senso stretto.
Durante le fasi acute della crisi sanitaria, lo smart working è stato adottato dalle imprese per assicurare il necessario distanziamento interpersonale, cruciale per evitare la diffusione dei contagi, e l’adozione di questa modalità di lavoro ha raggiunto picchi elevatissimi. Nel primo trimestre 2022, lo utilizzava ancora oltre un terzo delle imprese (37,6%), come somma del 27,7% che faceva ricorso al regime semplificato e del 9,9% che lo aveva già adottato in via “strutturale”.
In prospettiva, nel post-pandemia si stima che la diffusione rimarrà doppia rispetto al pre-pandemia (al 20,3%), sommando le imprese che nella prima metà del 2022 avevano in programma di introdurlo entro 2 anni (10,4%) a quelle che lo avevano già introdotto (9,9%). Anche in questo caso, è il settore dei servizi a presentare un dato più alto rispetto al settore industriale (rispettivamente 26,3% e 16,8%; Figura D).
Le modalità di introduzione e le condizioni di accesso allo smart working “strutturale” Oltre due imprese su cinque usano solo accordi individuali (42,5%): nell’industria in senso stretto il 39,6%; nei servizi il 44,3%. Le restanti utilizzano modalità di regolamentazione aggiuntive rispetto al solo accordo individuale, in prevalenza regolamenti aziendali.
L’accesso allo svolgimento allo smart working è riconducibile prevalentemente alla compatibilità della mansione (86,6%), ma anche alle adeguate condizioni per la connessione (64,6%) e all’appartenenza a specifiche aree aziendali (55,3%).
Quanti lavoratori coinvolti e per quanti giorni a settimana? Stando alle risposte delle imprese, due su cinque lavoratori sono/saranno coinvolti da smart working «strutturale» (40,1%). L’8,8% dei lavoratori nelle imprese che hanno adottato o adotteranno in via strutturale lo smart working lavora/lavorerà “in remoto” al massimo per un solo giorno a settimana (9,7% nell’industria in senso stretto; 7,8% nei servizi). Prevale un mix equilibrato tra lavoro “in presenza” e “in remoto”: al massimo 2 o 3 giorni in remoto (26,3%).
Opportunità e rischi percepiti dalle imprese Quando interrogate sulla principale motivazione che le ha indotte a intordurre in via strutturale lo smart working (una sola risposta possibile), oltre la metà delle aziende indica un vantaggio per i lavoratori, ovvero la possibilità di conciliare i tempi di vita con quelli di lavoro (54,7%). Al secondo e terzo posto vengono segnalati l’impatto positivo sulla responsabilizzazione dei dipendenti e l’orientamento ai risultati che tale modalità organizzativa rafforza (15,0%) e il valore dello smart working come strumento di fidelizzazione e attrazione aziendale (11,4%). Le valutazioni economiche - riduzione dei costi resa possibile dall’efficientamento degli spazi e la maggiore produttività dei lavoratori - sono segnalate rispettivamente come motivazione principale da meno di un’impresa su 10.
Quando interrogate sul principale rischio connesso alla possibilità di lavoro da remoto, la maggioranza delle aziende risulta preoccupata delle ridotte possibilità di interazione, con impatto negativo sulla comunicazione (63,0%) e sul senso di appartenenza (18,9%). Più circoscritti risultano il rischio di un impatto negativo sulla possibilità di generare innovazione (7,0%), l’incompatibilità dello smart working con le esigenze formative dei giovani e neo-assunti (5,2%) e il timore di conflitti tra lavoratori eligibili e non (5,9%; Figura E).
Con lo smart working, quali investimenti e cambiamenti organizzativi? L’indagine ha inoltre approfondito se le aziende che hanno introdotto o si apprestano a introdurre strutturalmente lo smart working abbiano investito in tecnologia e/o in formazione del personale, e se abbiano ritenuto necessari dei cambiamenti organizzativi.
Il 65,3% delle imprese ha messo a disposizione PC portatili per i propri dipendenti, il 46,9% ha fornito strumenti per la sicurezza informatica, il 36,8% ha dotato i propri dipendenti di telefoni.
Interessante notare che più di un’impresa su quattro ha investito (o prevede di investire) per la riorganizzazione degli spazi/uffici.
Più di un’impresa su tre fornisce formazione tecnica ai proprio lavoratori (37,1%), il 32,1% fornisce formazione su soft skills, il 25,6% formazione sulla sicurezza (oltre quella obbligatoria). Ma il 32,8% non ha previsto alcun tipo di formazione per il personale.
ll 36,8% delle imprese ha implementato sistemi di valutazione del raggiungimento degli obiettivi, e il 5,2% prevede l’introduzione di parametri specifici per il premio di produttività. Ma è molto alta la percentuale di imprese che non prevede nessun cambiamento organizzativo (62,6%).