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Giovanna Labartino, Francesca Mazzolari e Giovanni Morleo
Un’impresa su quattro applica un contratto aziendale, quasi una su tre nell’industria
Secondo la rilevazione condotta tra febbraio e aprile 2020, si stima che il 24,1% delle aziende associate a Confindustria applicasse un contratto collettivo aziendale che prevede l’erogazione di un premio variabile collettivo. Si riscontrano ampie differenze per settore e dimensione aziendale. Nell’industria al netto delle costruzioni la diffusione della contrattazione aziendale di contenuto economico si attesta in media al 31,9% (contro il 17,5% nei servizi), passando dal 7,9% tra le aziende fino a 15 addetti al 39,5% tra quelle con 16-99 addetti, e raggiungendo il 78,1% tra quelle con 100 e più addetti.
Dato che i contratti aziendali sono più diffusi tra le imprese di maggiore dimensione, la copertura dei premi variabili collettivi è più elevata se espressa in termini di lavoratori: 66,1% su un totale di oltre 5 milioni di lavoratori occupati in imprese associate a Confindustria. Tra le imprese dei servizi i lavoratori coperti sono il 63,7%, nell’industria al netto delle costruzioni il 68,5% (Figura A).
Premi collettivi incidono più per operai e impiegati
Per il personale non dirigenziale, l’incidenza dei premi variabili collettivi sulla retribuzione annua complessiva è simile per operai e impiegati, mediamente pari al 3,0%, mentre tra i quadri scende al 2,6%. Nell’industria al netto delle costruzioni l’incidenza dei premi è mediamente più elevata che nei servizi e risulta particolarmente alta nelle imprese oltre i 100 dipendenti: 4,5% per gli operai e 4,1% per gli impiegati.
Non solo premi nei contratti aziendali
Tra le imprese che applicano un contratto aziendale che prevede l’erogazione di un premio variabile collettivo, nel 30,2% dei casi lo stesso contratto prevede anche la possibilità (su richiesta del lavoratore) che il premio sia convertito in welfare. Per la prima volta quest’anno l’indagine ha rilevato, inoltre, se l’opzione è stata effettivamente esercitata: nell’industria in senso stretto, il 78,1% delle aziende ha avuto almeno un lavoratore che ha esercitato l’opzione; nei servizi la percentuale si attesta al 53,6%.
L’opzione di conversione di premi in welfare è più diffusa al crescere della dimensione aziendale: nell’industria in senso stretto è prevista dal 18,3% dei contratti in imprese fino a 15 dipendenti, dal 34,8% in quelle con 16-99 addetti e da oltre la metà (51,8%) in quelle con 100 addetti e più.
Per quanto riguarda altre previsioni contenute nei contratti aziendali, forme di partecipazione dei lavoratori agli utili sono previste nel 5,2% dei casi, mentre forme di coinvolgimento paritetico dei dipendenti nell’organizzazione sono previste nel 5,6% dei casi.
Variegata l’offerta di benefit ai dipendenti
Da qualche anno l’indagine monitora la diffusione del welfare a livello aziendale. I risultati indicano che a inizio 2020 il 71,5% delle imprese associate a Confindustria metteva a disposizione dei propri dipendenti non dirigenti uno o più servizi di welfare. La diffusione del welfare è più elevata nell’industria e nelle imprese grandi; come nel caso dei premi collettivi, la maggiore diffusione nelle aziende di grande dimensione eleva la quota complessiva di lavoratori a cui tali servizi sono messi a disposizione.
Nel welfare aziendale prevale l’offerta di sanità integrativa e previdenza complementare. Nello specifico, quasi la metà delle imprese associate versa contributi in fondi di assistenza sanitaria integrativa a favore dei propri dipendenti (60,0%), principalmente in applicazione di quanto previsto dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (51,7%). La diffusione della previdenza complementare è al 56,7%, anch’essa soprattutto in attuazione di CCNL (49,9%). Per entrambe le forme di welfare la percentuale di imprese che le mettono a disposizione dei propri dipendenti schizza tra quelle grandi, in particolar modo nell’industria (90,1% e 91,0% rispettivamente).
In termini di diffusione, seguono le somministrazioni di vitto (per esempio tramite mense aziendali) e i fringe benefit (tra cui autovetture ad uso promiscuo o prestiti agevolati), messi a disposizione da circa un’azienda su 5 (24,4% e 22,2%), in entrambi i casi principalmente per decisione unilaterale (15,1% e 18,1%).
Somme e servizi con finalità di educazione, istruzione o ricreazione rivolti ai dipendenti sono erogati dal 7,0% delle imprese. Una quota molto simile li eroga a favore di familiari dei dipendenti (7,2%). Le percentuali si quadruplicano tra le grandi imprese.
Mediamente al 10,2% (21,0% per le grandi imprese) la diffusione del “carrello della spesa”, un altro tipo di erogazione che offre un concreto sostegno al potere di acquisto dei dipendenti, ancor più se distribuito con accordi con specifici esercenti. Al 4,0% la diffusione di servizi di trasporto collettivo (12,3% tra le grandi imprese industriali).
Al 5,2% la diffusione di forme di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti, voce che probabilmente prenderà peso in futuro sia per la recente estensione degli incentivi fiscali a questa forma di welfare sia per la crescente domanda a fronte dell’invecchiamento della popolazione. Nell’industria in senso stretto, tra le grandi imprese ormai più del 16% offre questo tipo di benefit ai dipendenti.
Come già messo in evidenza, la diffusione del welfare aziendale cresce con la dimensione di impresa. Tra le imprese più grandi si registra anche l’incidenza più elevata della previsione di welfare da contratto aziendale. Concentrandoci sui tipi di benefit più diffusi, tra le imprese con 100 o più addetti, il 10,8% offre assistenza sanitaria integrativa prevista da contratto aziendale, il 9,9% previdenza complementare e il 20,2% qualche forma di vitto. Nel caso dei fringe benefit, invece, la previsione da contratto aziendale scende al 6,3%, perché di gran lunga prevalente rimane la concessione (per decisione) unilaterale del datore di lavoro (Tabella A).
Lavoro agile in un’azienda su sei già prima della pandemia
Per il terzo anno consecutivo, l’indagine Confindustria ha approfondito il tema dell’organizzazione del lavoro, monitorando la diffusione di forme di lavoro agile, ovvero modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno, senza postazione fissa. Sulla base della rilevazione effettuata nei primi mesi del 2020, quindi presumibilmnete rappresentativa della situazione pre-emergenza sanitaria, si stima che il 16,6% delle imprese associate a Confindustria avesse già introdotto forme di smart working, quasi una su 3 tra quelle con 100 o più addetti (29,3%). La diffusione era mediamente più ampia nei servizi che nell’industria (22,2% rispetto a 12,2%).
Con riferimento alla forza lavoro nelle imprese associate, lo smart working risulta essere stato utilizzato dal 31,3% dei dipendenti. L’indagine del 2020 è stata la prima edizione a monitorare anche l’intensità di utilizzo dello smart working, e indica che la percentuale di lavoratori che hanno fatto ricorso a forme di lavoro agile si attestava, pre-emergenza sanitaria, al 47,4% nei servizi e al 20,6% nell’industria al netto costruzioni, ed era più ampia nelle imprese più piccole (41,1% in quelle fino a 15 dipendenti, intorno al 20% sia in quelle di medie e grandi dimensioni).
Con riferimento alle modalità di disciplina, nella maggior parte dei casi, se introdotto, lo smart working è regolato solo da accordi individuali (69,0%). Vi è un 19,1% di imprese che tuttavia ha introdotto anche una regolamentazione aziendale e un 10,0% che include il tema nella contrattazione collettiva aziendale. Nelle imprese più grandi è più frequente che agli accordi individuali si affianchi anche una regolamentazione aziendale (24,7% dei casi) e/o la contrattazione aziendale (17,6%).
Tasso di assenteismo più alto in imprese più grandi
Nel corso del 2019 le ore lavorabili pro-capite, al netto delle ore di Cassa Integrazione Guadagni, sono state mediamente pari a 1.600. Di queste, 105 non sono state lavorate a causa delle assenze dal lavoro (retribuite e non). Il tasso di assenteismo (calcolato come il rapporto tra le ore di assenza e le ore lavorabili) si è dunque attestato al 6,6%.
L’incidenza delle assenze, come calcolata sulla base dei dati dell’indagine Confindustria sul lavoro, è risultata simile nell’industria in senso stretto (6,4%) e nei nei servizi (6,8%).
Il tasso di assenteismo si è confermato crescente all’aumentare della dimensione aziendale: 7,3% in quelle con 100 e più addetti, 3,6% in quelle fino ai 15 (Figura B).
Causali di assenza diverse per genere
La malattia non professionale si è confermata la causa più frequente di assenza (3,2% delle ore lavorabili), seguita dai congedi retribuiti (1,3%) e dagli altri permessi retribuiti (1,2%), che includono i permessi sindacali e quelli per visite mediche o accompagnamento parentale. L’incidenza delle assenze è risultata pari al 5,7% tra gli uomini e al 8,3% tra le donne. I congedi parentali spiegano la quasi totalità della differenza, essendo pari al 3,2% delle ore lavorabili per le donne e allo 0,6% per gli uomini, a causa degli oneri di accudimento familiare, visto che quelli a carico del genere femminile sono di gran lunga maggiori.
Edizione 2020
Questa nota esamina i risultati dell’Indagine Confindustria sul Lavoro del 2020, che come in precedenti edizioni è andata sul campo nei primi mesi dell’anno. La somministrazione dei questionari da parte delle Associazioni del Sistema Confindustria alle proprie imprese associate ha avuto inizio il 10 febbraio 2020, con un termine inizialmente fissato per il 20 marzo. L’emergenza sanitaria scoppiata a fine febbraio e le misure restrittive imposte nelle settimane successive hanno ovviamente creato una cesura anche nello svolgimento dell’indagine. Il campione di quest’anno è costituito da 1.935 imprese – una numerosità più che dimezzata rispetto alle edizioni precedenti, in ragione del fatto che la raccolta si è principalmente concentrata nelle prime settimane dall’avvio (anche se il termine della raccolta è stato esteso di un mese rispetto a quello inizialmente fissato). Complessivamente a fine 2019 le imprese che compongono il campione occupavano 355.771 lavoratori dipendenti a livello nazionale.
Come in precedenti edizioni, il questionario di quest’anno include domande su: (i) struttura e dinamica della manodopera occupata con diverse tipologie contrattuali; (ii) orari e assenze dal lavoro, limitatamente al personale a tempo indeterminato full-time; (iii) politiche aziendali adottate dall’imprese, quali l’erogazione di premi variabili collettivi, la messa a disposizione di welfare al personale non dirigente, il lavoro agile.
Nella presentazione dei risultati dell’indagine, le imprese del campione sono classificate per comparto sulla base del CCNL applicato (Tabella A1) e per dimensione aziendale sulla base del numero di occupati alle dipendenze a dicembre 2019. Dettagli sulla composizione del campione per comparto e numero di addetti sono riportati nella Tabella A2.
In questa nota (come in quelle elaborate a commento di edizioni passate dell’Indagine Confindustria sul lavoro) i risultati medi a livello nazionale sono ponderati sulla base della distribuzione (per 11 comparti e 3 classi dimensionali) degli occupati nel totale delle imprese associate a Confindustria.
Gli orari e le assenze dal lavoro: definizioni e metodologia di calcolo
I giorni lavorabili sono calcolati sottraendo ai 365 giorni dell’anno:
Le ore lavorabili annue sono calcolate:
Il tasso di assenteismo è calcolato come il rapporto percentuale tra le ore di assenza e le ore lavorabili, ed è disponibile per sesso, qualifica e tipologia di assenza.
I risultati si basano sulle risposte fornite dalle 1.819 aziende del campione che hanno compilato la sezione del questionario relativa agli orari e alle assenze dal lavoro.