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Lo scorso anno, di questi tempi, abbiamo usato la metafora del meteorite che ha colpito l’economia italiana a seguito della crisi Covid, aprendo un enorme cratere in termini di prodotto e reddito, oltre alle incommensurabili perdite umane e sanitarie. Oggi, l’immagine che questo Rapporto di previsione restituisce è quella di un’economia e una società compresse, e non potrebbe essere altrimenti dopo quattordici mesi di epidemia, ma anche ricche di risorse ed energie che possono e devono essere liberate. Quanto più la crisi economica ha colpito, settori produttivi o fasce occupazionali o categorie sociali, tanto più si avverte la necessità di sanare le ferite - certo - ma anche ricostruire le premesse per liberare il potenziale italiano di sviluppo sostenibile.
Questo Rapporto fornisce alcune declinazioni in tale direzione, come anche altri documenti che Confindustria ha prodotto recentemente. In primo luogo, occorre liberare la capacità di investimento delle imprese, con l’estensione delle scadenze dei prestiti ed altre misure per il rafforzamento della struttura finanziaria; questo è ancora più urgente nel momento in cui l’aumento del prezzo delle materie prime e dei trasporti merci sta esercitando una pressione ulteriore sul cash flow delle imprese. In seconda istanza, occorre dare nuovo impulso alla formazione delle competenze dei lavoratori italiani, giovani e donne in primis, con un sistema rinnovato e rafforzato di politiche attive, accompagnato da un parallelo schema di ammortizzatori sociali universali. Occorre, poi, tradurre presto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in azioni ed investimenti, e i progetti di riforma in provvedimenti attuati, per dotare il Paese della Pubblica amministrazione e della qualità dei beni pubblici indispensabili per un’economia avanzata. Come mostra il Rapporto, è necessario liberare il potenziale enorme di alcuni comparti, come quello del turismo, che più di altri hanno sofferto nella pandemia e che hanno tutte le caratteristiche per contribuire allo sviluppo sostenibile del Paese.
Naturalmente, la priorità assoluta dei prossimi giorni e settimane è il progresso della campagna vaccinale. Le nostre previsioni per il 2021 sono vincolate da questo, ma lo sguardo poi non può che andare oltre, verso le prospettive economiche e sociali a medio termine dell’Europa e dell’Italia in un mondo in rapida trasformazione. A questo proposito, la Brexit costituisce non solo un episodio rilevante della riorganizzazione dei rapporti politici ed economici internazionali, ma anche un tassello di un più ampio cambiamento della geoeconomia globale: a questo è dedicato un approfondimento del nostro Rapporto.
Il CSC prevede un graduale recupero del PIL italiano, del +4,1% nel 2021 e del +4,2% nel 2022 (Tabella A). Numeri storicamente elevati per un paese come l’Italia, ma non si tratta di crescita: a fine 2022 l’economia italiana avrebbe a stento chiuso il profondo gap aperto nel 2020 dalla pandemia. La revisione al ribasso di 0,7 punti percentuali per il 2021, rispetto allo scenario CSC di ottobre, è spiegata da due trimestri (l’ultimo del 2020 e il primo di quest’anno) più negativi dell’atteso, a causa del peggioramento della crisi sanitaria dall’autunno scorso.
Questa previsione è condizionata all’avanzamento della vaccinazione di massa in Italia ed Europa. In particolare, lo è il profilo trimestrale per il PIL italiano, che include un forte rimbalzo nei mesi estivi del 2021 (+2,8%) e un altro marcato incremento in quelli autunnali (+1,4%), prima di un assestamento su ritmi più moderati nel corso del 2022 (+0,6% in media a trimestre). Lo scenario CSC, infatti, si basa sull’ipotesi che la diffusione del Covid sia contenuta in maniera efficace a partire dai prossimi mesi, grazie alla somministrazione dei vaccini a quote sempre più ampie della popolazione, secondo l’obiettivo del Governo di arrivare all’80% a settembre 2021. Data l’incertezza su tale ipotesi, i rischi della previsione sul PIL sono elevati, sia al rialzo che al ribasso.
Un importante contributo alla risalita del PIL, già quest’anno e poi nel prossimo, sarà fornito dagli effetti positivi derivanti dalle risorse europee che spetterebbero all’Italia in base al programma Next Generation EU (NG-EU). Lo scenario di previsione del CSC include tali risorse nella misura di 14,4 miliardi per il 2021 e 20 per il 2022: oltre alle risorse assegnate con la Legge di Bilancio 2021, incorpora le ulteriori somme non ancora finalizzate che si è ipotizzato vengano utilizzate per investimenti pubblici. Usare bene questi fondi è cruciale, per riuscire davvero a mettere presto la testa fuori della voragine in cui siamo caduti. Secondo una simulazione econometrica del CSC, senza NG-EU il recupero del PIL italiano sarebbe minore dello 0,7% nel 2021 e dello 0,6% nel 2022, rispetto allo scenario base, con circa 120mila occupati in meno nel biennio (Tabella B). Quindi, se non riuscissimo a spendere le risorse UE, la risalita del PIL si assottiglierebbe a +3,4% nel 2021 e +3,6% nel 2022 e resteremmo molto sotto i valori pre-crisi.
A inizio 2021, a risentire maggiormente del rafforzamento delle misure di contrasto al Covid è stato, ancora una volta, il comparto dei servizi, dove l’attività di numerosi settori è stata di nuovo fortemente colpita. La chiusura forzata degli esercizi e le limitazioni agli spostamenti delle persone hanno compromesso soprattutto l’attività di aziende nell’alloggio, nella ristorazione, nei trasporti, in alcuni servizi alle imprese. Prima di ciò, a fine 2020, il fatturato nel terziario in aggregato era già inferiore dell’8,4% rispetto ai valori pre-crisi. Qui la risalita sarà particolarmente dura e lunga.
Sul fronte dell’industria, sostenuta da una buona ripartenza della domanda da metà 2020, è stato possibile limitare a fine anno al -2,6% il divario rispetto ai valori pre-crisi. Con una forte eterogeneità tra i vari settori. A inizio 2021 l’industria evidenzia una certa resilienza, nonostante la terza ondata di pandemia, con segnali positivi in termini di produzione. Ma comunque su valori compressi, che rendono necessario, anche nell’industria, un periodo di recupero prima di rivedere i livelli perduti.
La domanda di lavoro è calata nel 2020 con un’elasticità oltre l’unità rispetto al PIL, date le chiusure prolungate di molte attività dei servizi ad alta intensità di lavoro: -10,3% rispetto al 2019 in termini di unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (ULA) e -11,2% come monte ore lavorate. Gran parte di questo crollo è stato registrato nelle ore lavorate pro-capite (-8,6%), mentre il calo del numero di persone occupate è stato limitato al 2,8% (770mila occupati in meno nel quarto trimestre 2020 rispetto a fine 2019). Ciò grazie a un’ampia gamma di forme di riduzione degli orari, tra cui la CIG, ampliata e rafforzata, e al blocco dei licenziamenti. Nella risalita attesa per il 2021, concentrata nella seconda metà dell’anno, le ULA viaggeranno quasi al ritmo dell’attività economica (+3,8%), trainate dal riallungamento delle ore lavorate pro-capite. Il numero di persone occupate, invece, è atteso in calo (-1,7%) complici gli inevitabili processi di ristrutturazione e ricomposizione settoriale che avranno luogo in uscita dalla crisi. Nel 2022, secondo anno di risalita del PIL, il ritmo delle ULA è previsto meno intenso (+3,7%). Ci sarà spazio anche per un recupero del numero di occupati (+1,4%, pari a +313mila unità).
Nello scenario CSC, le esportazioni italiane di beni e servizi, dopo la profonda caduta del 13,8% nel 2020, risaliranno dell’11,4% nel 2021 e del 6,8% nel 2022, sostenute dalla crescita della domanda mondiale. Fortemente eterogenee le dinamiche degli scambi di beni e di servizi: le vendite all’estero di beni sono attese recuperare pienamente già nel 2021, grazie al rimbalzo della domanda nella UE e negli USA; quelle di servizi, invece, sono crollate molto di più nel 2020, zavorrate dalla profonda crisi del settore turistico, e sono attese chiudere il gap solo alla fine del biennio previsivo, iprendendo slancio con l’uscita dall’emergenza pandemica in Italia e nel mondo.
I consumi delle famiglie italiane, invece, sono previsti recuperare solo parzialmente: +3,6% nel 2021 e +4,6% nel 2022, dopo il -10,7% dello scorso anno, quando i consumatori hanno dovuto sacrificare gli acquisti di beni durevoli e soprattutto di servizi, a causa delle restrizioni anti-pandemia. L’eccesso di risparmio “forzato” accumulato così nel 2020 dalle famiglie (alcune, non tutte, che non hanno sofferto un crollo del reddito), secondo stime CSC ammonta a 26 miliardi di euro. Tale risparmio rappresenta una risorsa che potrà alimentare il rimbalzo dei consumi dalla seconda metà del 2021, quando si ipotizza che sarà avviata a soluzione la pandemia. Tuttavia, la crisi economica in corso, caratterizzata dallo stretto legame con la crisi sanitaria, rischia di generare nei consumatori effetti più duraturi delle crisi passate, alterando anche nel medio periodo le abitudini di spesa, nella direzione di una maggiore prudenza e un tasso di risparmio ancora alto (sebbene sotto i picchi del 2020): non tutto il risparmio accumulato verrà speso. Questo atteggiamento è, in particolare, legato alle incertezze sulle prospettive occupazionali.
Gli investimenti fissi totali, privati e pubblici, sono previsti aumentare a ritmi elevati: +9,2% quest’anno e +9,7% il prossimo, dopo l’ampia perdita nel 2020 (-9,1%). Per il 2021, il recupero nella seconda parte del 2020, in particolare di quelli in costruzioni, ha già quasi compensato il calo patito, tanto che gran parte della variazione attesa per quest’anno è stata già “acquisita” a fine 2020 (+8,0%). Nel 2022, viceversa, si avrà per gli investimenti una crescita oltre i valori pre-Covid. Questa espansione sarà trainata dall’inversione dello scenario rispetto a quanto accaduto nel 2020 e cioè da un recupero della domanda interna, una risalita degli ordini esteri e un rafforzamento della fiducia delle imprese e dei loro investimenti, nell’ambito di un miglioramento del contesto economico internazionale.
Gli investimenti privati, comunque, saranno frenati, dal 2021, dall’alto indebitamento delle imprese. Nel 2020, i prestiti bancari con garanzie pubbliche hanno attenuato efficacemente la crisi di liquidità subita dalle imprese per il crollo dei fatturati. Ma l’aumento del debito ne ha indebolito i bilanci, invertendo la tendenza al rafforzamento dell’ultimo decennio. Il peso del debito è cresciuto molto: ripagarlo assorbe circa il doppio degli anni di cash flow necessari prima della crisi. Perciò, in mancanza di un pieno recupero di fatturato dal 2021, le imprese italiane faranno fatica a finanziare investimenti ai ritmi pre-crisi. Servono misure per alleviare questa situazione: la più diretta, a costo zero, è di consentire un allungamento dei tempi di rimborso dei debiti garantiti contratti dalle imprese per far fronte all’emergenza, da 6 a (almeno) 10 anni, anche modificando le norme europee del Temporary Framework. Secondo una simulazione econometrica del CSC, questo intervento di policy (non incluso nello scenario base), renderebbe possibili per le imprese italiane maggiori investimenti per 6,8 miliardi all’anno, con un impatto molto positivo sul PIL, pari a +0,3% nel 2021 e a un ulteriore +0,2% nel 2022. Un impatto tale da riportare l’economia sopra i valori pre-crisi alla fine del prossimo anno. In termini di occupazione, si potrebbe generare un aumento di 41mila unità nel 2022 (Tabella C).
Il recupero degli investimenti sarà sostenuto, viceversa, dal forte contributo di quelli pubblici. Già nel 2020 è stata confermata la ripartenza degli investimenti pubblici italiani (al 2,7% del PIL), avviata nel 2019 dopo un decennio di contrazione in termini nominali. Nei due anni, le previsioni governative sono risultate meno ottimistiche dei dati di consuntivo. Questa inversione di tendenza rispetto al passato potrebbe essere stata facilitata dai Decreti “Sblocca Cantieri” e “Semplificazioni”, nonostante la carenza di norme attuative e le difficoltà legate alla pandemia. Per tale ragione, per il biennio 2021-2022, lo scenario CSC ritiene che verranno ampiamente raggiunti gli obiettivi indicati dal Governo con incrementi della spesa, molto consistenti, nell’ordine del +19% annuo, per arrivare a un flusso di investimenti pubblici di 63 miliardi nel 2022 (3,6% del PIL). Il deficit pubblico, intanto, è stimato dal CSC in graduale calo, sebbene su valori ancora elevati: 7,8% del PIL nel 2021 e 4,8% nel 2022, dal picco di 9,5% nel 2020 a causa della crisi pandemica. Il debito pubblico italiano in rapporto al PIL, dopo il balzo di 21 punti nel 2020, arriverà al 155,7% quest’anno. Ma poi inizierà a scendere, al 152,9% nel 2022, per effetto del miglioramento del deficit e della risalita del PIL.
Cruciale, in questa situazione di alti debiti pubblici e privati, è preservare la fiducia riconquistata dall’Italia sui mercati finanziari. Il tasso di interesse sui BTP decennali è sceso ai minimi storici (0,6% a marzo) e lo spread rispetto alla Germania si è stabilizzato poco sotto 1 punto percentuale: un elemento molto favorevole dello scenario per l’Italia. Risultato dei massicci acquisti BCE “anti-pandemia” di titoli pubblici e privati di Eurolandia, che proseguiranno fino a marzo 2022. Francoforte, inoltre, terrà ancora a lungo i tassi di interesse di breve termine vicino allo zero.
Lo scenario per la ripartenza dell’economia italiana è complicato, invece, dal forte rincaro delle materie prime, accentuatosi a inizio 2021, che riguarda i metalli e gli alimentari, oltre al petrolio. I rialzi dei prezzi delle commodity esercitano una pressione al ribasso sui margini delle imprese, che si va a sommare al problema di fatturati già compressi nel 2020. Infatti, l’assottigliarsi del markup, per ogni unità di prodotto venduto, comprime il cash flow generato dalle imprese anche nel 2021, aggravando una situazione già difficile da gestire. Il rincaro delle commodity alimenta anche i timori di inflazione. Nello scenario CSC, la dinamica dei prezzi al consumo in Italia, appena tornata in territorio positivo, si stabilizzerà entro fine anno, arrivando in media al +1,2% nel 2021.
Una revisione al rialzo di 0,8 punti rispetto allo scenario di ottobre. Nel 2022 è attesa restare poco sotto, +1,1%, per l’esaurirsi dell’impatto temporaneo del rincaro del petrolio e altre commodity. Alla base di tale previsione di inflazione, in aumento ma moderata, ci sono vari fattori: la domanda ancora compressa dei consumatori; la debolezza dell’attività in vari settori, specie dei servizi; le attese sui prezzi ancora negative, presso le famiglie; la disoccupazione molto ampia; l’apprezzamento dell’euro nel 2021, che attenua l’inflazione importata tramite input. I rischi della previsione sui prezzi, però, sono tutti al rialzo, visti anche gli enormi stimoli monetari e fiscali messi in campo in Europa.
Mentre la pandemia continua a esigere un costo elevatissimo in termini di vite umane, l’economia mondiale mostra segnali positivi e appare vicina a una svolta. L’attività economica si è dimostrata più resiliente alla seconda ondata pandemica, anche grazie a risposte più adeguate nelle politiche e nei comportamenti. La produzione industriale e gli scambi globali hanno continuato a risalire, tornando sopra i livelli pre-crisi. Le risorse messe in campo dai governi, in termini di misure emergenziali già in funzione e stimoli di bilancio programmati, sono senza precedenti. L’efficacia dei piani vaccinali, soprattutto nell’abbattere i tassi di mortalità, nei paesi in cui è stata più rapida la loro somministrazione, ha rafforzato le aspettative di un’uscita dall’emergenza pandemica nei mesi estivi in varie aree del mondo; condizione necessaria per una ripartenza robusta e sostenibile dell’economia.
Tuttavia, lo scenario resta incerto ed eterogeneo. La risalita è trainata dalle prime due economie mondiali: Stati Uniti (anche grazie alla prospettiva di uno stimolo di bilancio record) e Cina (dove il contagio epidemico è stato da tempo sostanzialmente annullato). Invece in Europa, in Italia in particolare, la caduta del PIL è stata più forte e il recupero è atteso più lento. La crisi, quindi, ha ampliato il divario di crescita strutturale tra Europa e Stati Uniti, e tra Italia e paesi core europei (specialmente la Germania). Per colmare questo ritardo di velocità di lungo periodo occorre un cambio di passo nelle politiche per le imprese e gli investimenti, per il lavoro e la formazione.
L’impatto della crisi è stato fortemente asimmetrico anche tra settori economici. È stato più forte in alcuni servizi, come quelli di alloggio e ristorazione, arte e intrattenimento, tanto che la diversa specializzazione dei paesi in questi comparti contribuisce a spiegare le differenti dinamiche del PIL. Nel manifatturiero, una caduta più ampia si è verificata in settori strategici per l’industria italiana, come il tessile e abbigliamento, i mezzi di trasporto e i macchinari. Inoltre, si sono ampliate le differenze di performance tra le imprese e tra i lavoratori, in base alla capacità di far fronte alle trasformazioni strutturali che la pandemia ha accelerato: dal digitale all’automazione, dalla tutela della salute alla sostenibilità ambientale.
Queste eterogeneità persistenti, e in parte strutturali, generano il rischio di una ripresa asimmetrica, a più velocità (k-shaped recovery). Ciò richiede una gestione molto attenta delle politiche emergenziali, che hanno assicurato la tenuta del tessuto produttivo e sociale, non solo in Italia.
Le imprese italiane, che si erano rafforzate patrimonialmente prima della crisi, hanno fatto un massiccio ricorso ai prestiti “emergenziali” nel 2020, così come è successo negli altri principali paesi europei. L’aumento dell’indebitamento, differenziato per macro-settori, è più consistente nei comparti dei servizi più colpiti dalla crisi. Ciò spiega in parte la variabilità osservata tra paesi europei, che però dipende anche in modo significativo dalle differenti misure varate per sostenere la liquidità delle imprese, in termini sia di consistenza che di tipologia. Lo strumento maggiormente utilizzato in tutti i paesi è la garanzia pubblica per prestiti bancari, ma altre misure hanno un ruolo rilevante: in Italia, la moratoria sui prestiti pre-esistenti, specie per le PMI; in Germania, varie misure per la patrimonializzazione delle imprese, che hanno permesso un calo dei prestiti già nella seconda metà del 2020.
L’aumento del debito delle imprese europee può avere un impatto negativo molto forte sui piani di investimento, perché è stato associato a un crollo del cash flow (azzerato in Spagna). Il peso del debito, misurato in anni di cash flow necessario per ripagarlo, è salito poco sopra 2 anni in Germania e a quasi 7 in Italia e Francia.
Per far ripartire gli investimenti italiani, anche sopra i ritmi pre-crisi, è necessario allora rivedere gradualmente le policy. Oltre ad allungare, come detto, il periodo di rimborso dei debiti, nel lungo periodo occorre sostenere il riequilibrio della struttura finanziaria delle imprese, con la promozione di canali di finanziamento alternativi, in particolare sui mercati del capitale proprio.
Durante la crisi il tasso di disoccupazione nell’Area euro si è mosso relativamente poco (da 7,3% in febbraio 2020 a 8,7% in agosto, per poi tornare a scendere all’8,3% a novembre, valore a cui è rimasto ancorato anche nei primi mesi del 2021), mentre negli USA si sono registrate fluttuazioni molto ampie (da 4,4% a marzo a 14,8% in aprile, per poi rientrare a 6,3% a inizio 2021). Tuttavia, l’impatto sul mercato del lavoro europeo è più grave di quanto dicano i numeri sulla disoccupazione, sia per il labor hoarding senza precedenti (trattenimento di manodopera inutilizzata, soprattutto tramite riduzione di orari) sia per l’aumento degli inattivi (mezzo milione in più in Italia). A differenza che negli Stati Uniti, la politica economica in Europa ha mirato a scongiurare aumenti eccessivi della disoccupazione, in primo luogo con il rafforzamento, anche con risorse comunitarie (tramite il SURE, temporary Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency), dei programmi nazionali di sostegno al reddito dei lavoratori in caso di riduzioni dell’attività. In Italia si è avuta l’estensione praticamente illimitata della CIG, accompagnata dal blocco dei licenziamenti economici.
Le differenze settoriali sono forti, anche a livello europeo: nei servizi di informazione e in quelli immobiliari l’input di lavoro, misurato dalle ore lavorate, è tornato vicino ai livelli pre-crisi, mentre le perdite sono ancora molto ampie nell’alloggio e ristorazione e nell’arte e intrattenimento. Se parte della caduta della domanda si rivelasse strutturale, il calo delle ore lavorate potrebbe trasformarsi in un aumento della disoccupazione, specie a lungo termine.
L’eterogeneità è forte anche per tipologia di lavoratori: il calo è più drammatico per i giovani e (in misura minore) per le donne, per i dipendenti a termine e per quelli a bassa qualifica. Per questi ultimi, in particolare, spesso occupati in mansioni che richiedono la presenza e il contatto fisico, risulta quasi impossibile il lavoro da remoto, reso necessario dalla pandemia. I processi di automazione e digitalizzazione, accelerati dalla crisi, potrebbero tenere bassa la domanda per alcune tipologie di lavoro: l’80% dei datori di lavoro intende rafforzare la digitalizzazione e il lavoro a distanza e il 50% l’automazione del lavoro (Future of Jobs Survey 2020, World Economic Forum). Il rischio, quindi, è quello di una jobless recovery nei prossimi anni, su cui le policy devono intervenire.
Le politiche del lavoro, allora, devono essere rimodulate allo scopo di aumentare l’occupabilità degli individui, compresi i lavoratori in CIG, i disoccupati, gli scoraggiati fuori dalla forza lavoro, e di facilitare la ricollocazione verso nuovi lavori e settori in espansione. L’Italia può trarre lezioni utili dagli altri paesi europei: ampliare l’offerta formativa ai lavoratori in CIG (come nel FNE-Formation in Francia); aumentare la spesa per le politiche attive del lavoro (in Italia allo 0,42% del PIL nel 2018, con un tasso di disoccupazione del 10,6%; rispetto allo 0,68% del PIL in Germania, con una disoccupazione al 3,4%); tra le politiche attive, rafforzare le misure di training e job placement, che hanno dimostrato di essere molto efficaci a livello internazionale; incrementare la formazione tra gli adulti, per ridurre la diffusa mancanza di competenze; aumentare il coordinamento tra servizi pubblici locali (come nel PES, network europeo tra centri dell’impiego).
I settori più profondamente colpiti dalla crisi, come già anticipato, sono quelli più strettamente connessi con le presenze turistiche, nazionali e internazionali. Il turismo svolge un ruolo centrale, in particolare in Italia e in altre economie europee, anche per il forte impatto occupazionale, per le connessioni con gli altri settori produttivi e per il legame con le economie locali. Inoltre, i flussi turistici alimentano gli scambi con l’estero, in termini di beni, servizi e investimenti diretti. Nel 2020 gli arrivi turistici mondiali sono crollati di tre quarti, generando perdite pari al 2% del PIL mondiale e mettendo a rischio 100 milioni di posti di lavoro. Maggiormente colpite sono le categorie più deboli: giovani e donne, lavoratori meno qualificati, micro o piccole imprese. Secondo la maggior parte degli analisti, un ritorno ai livelli pre-crisi non avverrà prima del 2023 o 2024.
L’Italia ha una storica specializzazione turistica, grazie alle bellezze paesaggistiche, al clima favorevole, al patrimonio senza pari in ambito artistico, architettonico e archeologico. Il settore produce il 7% del PIL e, attraverso i legami con gli altri comparti (soprattutto alimentare e bevande, energetico, stampa e metallurgia), vale il 13% del PIL e il 14% dell’occupazione. La crisi ha accelerato la trasformazione dei modelli di business, in molteplici direzioni: tecnologie digitali, sicurezza sanitaria, impatto ambientale, attenzione al territorio. In sintesi, la parola d’ordine è turismo sostenibile, orientato anche alla domanda interna.
Occorre ripensare, quindi, le politiche per il turismo, non solo per superare l’emergenza ma anche per cambiare paradigma nell’ottica di una crescita sostenibile, in campo ambientale, culturale e sociale, che includa le categorie più deboli e le comunità locali. L’Italia primeggia, a livello internazionale, per arte e cultura, ma è in ritardo nelle infrastrutture di trasporto e digitali e nella capacità dei governi di definire le priorità in materia di turismo, legate alla promozione del brand Italia e all’attrattività del Paese all’estero. Una strategia dilungo periodo necessita di una più stretta cooperazione degli attori pubblici e privati che operano nel settore turistico.
La crisi pandemica ha evidenziato anche le contraddizioni insite nei rapporti multilaterali mondiali: da un lato, l’esigenza di una risposta comune e necessariamente globale all’emergenza, per fermare il contagio e per sfruttare le economie di scala nello sviluppo, produzione e distribuzione del vaccino; dall’altro, le forti tensioni nazionalistiche, specie riguardo la disponibilità dei vaccini e di altri prodotti medicali. Inoltre, nella crisi è emersa la centralità delle catene globali del valore, soprattutto nelle filiere di produzione strategiche, con un trade off tra le ragioni di efficienza produttiva e logistica e quelle di controllo e resilienza agli shock imprevedibili. Il tema del vaccino, soprattutto, è diventato geopolitico, inserendosi in un quadro, già evidenziato nei precedenti rapporti, di profondo mutamento degli equilibri mondiali.
L’Unione europea è particolarmente attiva nel concludere accordi bilaterali commerciali e di investimento: negli ultimi due anni ha raggiunto nuovi accordi con Giappone, Singapore, Vietnam, paesi Mercosur, Cina e Regno Unito. In particolare, l’Accordo commerciale e di cooperazione tra UE e UK ha un compito storico: ridefinire i rapporti tra l’Unione e un ex paese membro. Contrariamente agli altri trattati commerciali, il suo obiettivo è quello di regolare la progressiva divergenza del Regno Unito dal quadro normativo UE, riducendo l’enorme incertezza generata dalla Brexit. Il testo è particolarmente ambizioso sul tema della concorrenza leale, assicurando un level playing field tra le parti. Per quanto riguarda gli scambi di beni e servizi, invece, pur confermando l’assenza di dazi, non scongiura l’emergere di barriere non tariffarie e normative, ad esempio per le società finanziarie. Gli effetti economici saranno profondi e complessi, dati i legami tra UE e Regno Unito. Per l’Italia, in particolare, le connessioni commerciali sono più forti nei settori di macchinari, sistema moda e alimentari e bevande. Inoltre, sono profondi i legami diretti, in termini di presenza di imprese multinazionali e di integrazione nelle catene globali del valore.
Infine, il cambiamento è molto rilevante per i movimenti di persone: le nuove regole impongono forti limitazioni all’ingresso di lavoratori e studenti UE in UK, con un sistema disegnato per attrarre competenze medio-alte. Ciò avrà conseguenze rilevanti: il Regno Unito, negli ultimi cinque anni, è stata la prima destinazione degli italiani trasferitisi all’estero. Questi trasferimenti hanno riguardato persone con un livello di istruzione mediamente basso (nel 2019 circa la metà aveva al massimo un titolo di scuola secondaria inferiore); quasi un terzo proveniva dal Mezzogiorno, ma di questo una quota nettamente più elevata aveva una laurea o un dottorato (più di uno su quattro). In prospettiva, sono le professioni apicali quelle che saranno sempre più richieste dal mercato inglese, assecondando peraltro una tendenza già emersa di recente.