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Una pandemia globale, lockdown, interruzione delle catene di approvvigionamento internazionali, guerra in Europa, prezzi del gas alle stelle, inflazione elevata, politiche monetarie restrittive (soprattutto nei paesi avanzati). Tutto questo è accaduto solo negli ultimi tre anni e l’elevato grado di incertezza persiste, perché difficilmente si tornerà al business as usual pre-pandemia. Tuttavia, l’economia mondiale potrebbe avviarsi verso un graduale recupero dopo gli shock della pandemia e dell'invasione russa dell'Ucraina. La Cina è in forte ripresa in seguito alla riapertura della sua economia e le interruzioni lungo le catene di approvvigionamento si stanno attenuando, mentre gli squilibri nei mercati dell'energia e di alcuni beni alimentari e di altre materie prime causati dalla guerra stanno regredendo. Contemporaneamente, la massiccia restrizione monetaria sincronizzata da parte di larga parte delle banche centrali dovrebbe iniziare a produrre l’effetto desiderato di riportare la dinamica dei prezzi più vicina agli obiettivi.
L’austerità monetaria dei paesi avanzati può diventare un fattore di rischio per alcune economie emergenti, soprattutto quelle caratterizzate da vulnerabilità strutturali, come squilibri nei conti pubblici e/o nelle partite correnti. Il differenziale dei rendimenti può, infatti, tradursi in fughe di capitali e improvvise svalutazioni dei tassi di cambio. In alcuni paesi già si manifestano sintomi di fragilità, ad esempio in Argentina, Iran e Turchia, dove le rispettive valute si sono deprezzate notevolmente.
L’invasione russa dell’Ucraina potrebbe produrre danni agli scambi internazionali ben oltre quelli già gravissimi legati alle sanzioni imposte alla e dalla Russia e all’impossibilità di commerciare nelle aree interessate dalle operazioni belliche. Di fatto, in Europa si sta erigendo una nuova frammentazione geopolitica che, anche in caso di fine delle ostilità, sembra destinata a restare a lungo a causa della profondità delle ferite provocate dal conflitto. La guerra ha inoltre acuito le tensioni tra USA e Cina poiché quest’ultima ha compensato la chiusura degli scambi commerciali tra blocco occidentale e Russia; le tensioni potrebbero poi inasprirsi se dovesse precipitare la già tesa situazione a Taiwan.
Vendite online, stoccaggio sempre più massivo di informazioni su piattaforme digitali, riduzione degli spostamenti fisici delle persone, affiancamento dei social media ai mass media sono alcuni dei fenomeni che, da oltre 25 anni e maggiormente con la pandemia, continuano a crescere d’intensità e di importanza, ponendo sfide inedite ai modelli di produzione e di vendita. In primis, diviene cruciale la rapidità di adattamento richiesta alle imprese come fattore di resilienza per continuare a operare sui mercati internazionali. Il cambiamento tecnologico ha fatto, inoltre, emergere colossi e giganti del web che operano su scala globale con posizioni di rendita monopolistiche difficilmente scalfibili, almeno nell’immediato, da altri operatori economici (Grafico A).
Nei comparti afferenti al “bello e ben fatto” (BBF) durante il triennio 2018-2020 l’Italia ha visto ridursi le sue quote per un effetto composizione del paniere di esportazioni che nel periodo considerato ha premiato invece Germania, Giappone e Paesi Bassi. Tuttavia, il calo delle quote è stato contenuto da un effetto competitività e di bilanciamento del paniere verso destinazioni geografiche di maggiore peso. Il miglioramento competitivo si è espresso soprattutto nel potere applicare prezzi più elevati, ad esempio rispetto alla Cina che invece continua a incontrare nei prezzi un effetto zavorra per la valorizzazione delle proprie esportazioni.
L’Italia esporta il 99% degli oltre 5.000 prodotti scambiati al mondo, e con la stessa proporzione i quasi 1.400 prodotti finali di consumo. L’Italia è seconda solo alla Cina per varietà di prodotti esportati nel comparto del BBF.
A difendere i beni BBF dalla durissima concorrenza sui prezzi è l’elemento qualitativo distintivo, che li colloca in un ambito di mercato diverso rispetto ad altri beni formalmente classificati nelle medesime categorie merceologiche. Si tratta, infatti, di prodotti che in molti casi fanno mercato a sé, collocandosi in ambiti in cui opera un numero ridotto di concorrenti, per lo più collocati in paesi avanzati con strutture di costo simili a quelle italiane. In questo senso, i beni BBF esportati dall’Italia (caratterizzati dall’orientamento a un consumatore evoluto, dall’attenzione alla qualità e dal trasferimento di un valore emozionale) competono con quelli prodotti dai concorrenti più sviluppati, operando in nicchie protette da paesi che presentano un livello di costi minore.
L’allineamento geografico fra la rete di investimenti e la rete di commercio fornisce un’indicazione importante sul livello di esposizione agli shock esterni. La distribuzione geografica delle quote di esportazioni dei comparti del BBF, insieme alla percentuale di partecipazioni societarie in entrata e in uscita, mostra una rete di paesi solida sia sotto il profilo della stabilità economica che delle relazioni internazionali. Soltanto i paesi dell’UE nel 2022 hanno contato per il 46% delle esportazioni di BBF e per il 37,5% delle imprese italiane controllate dall’estero. Anche gli USA svolgono un ruolo molto importante nei comparti del BBF, contando per il 13,3% delle esportazioni e il 18,7% delle partecipazioni in imprese italiane controllate dall’estero. Tra gli emergenti la Cina ha un peso soprattutto come meta di destinazione degli investimenti di imprese italiane sotto forma di partecipazione in imprese cinesi.
La facilità di riconoscere l’italianità come caratteristica di un prodotto e di apprezzarla si è affermata nel tempo in tutto il mondo, motivo per cui i consumatori sono disposti a riconoscere un valore superiore a un bene made in Italy piuttosto che a quello prodotto da un competitor, e di conseguenza a pagare di più per averlo. Il BBF e i suoi tratti distintivi sono la bandiera dell’italianità nel mondo (Grafico B). Questa categoria di prodotti racchiude in sé tutti quei beni che rappresentano l’eccellenza italiana in termini di design, cura nei dettagli, qualità dei materiali e delle lavorazioni. Si tratta di prodotti di elevata qualità che si distribuiscono in tutti i comparti produttivi, e che trovano la loro massima espressione nelle produzioni maggiormente legate al gusto e alla creatività. Da questo punto di vista il BBF è l’espressione più facilmente riconoscibile del made in Italy, riprendendo i tratti più caratteristici dell’ heritage culturale dell’Italia, delle sue tradizioni, dei suoi paesaggi e delle sue opere d’arte, contribuendo a comporre l’immagine dell’Italia produttiva. In questo senso il “bello e ben fatto”, oltre a rappresentare una quota importante dell’export italiano nel mondo, fa da volano a tutte le esportazioni italiane, avendo un valore non solo economico, ma anche immateriale.
Il BBF rappresenta una significativa parte delle esportazioni complessive dell’Italia ed è trasversale a tutti i principali comparti dal made in Italy, seppure in maniera più marcata nei settori afferenti alle “3F” di Fashion, Food, Furniture. Le eccellenze italiane si dirigono prevalentemente verso i mercati avanzati, che insieme ne assorbono circa 104 miliardi di euro. Ammonta invece a oltre 19 miliardi di euro il quantitativo di eccellenze esportato verso i paesi emergenti che, per il loro dinamismo (sia sul piano demografico che su quello economico), e nonostante il loro peso ancora limitato, offrono margini di crescita relativamente maggiori. Il Grafico C offre a colpo d’occhio la distribuzione geografica del BBF italiano nel mondo.
L’analisi contenuta nel Rapporto consente di ottenere una misura del potenziale dell’export italiano nell’ambito del BBF, rispetto alla quale valutare il margine di miglioramento delle posizioni fin qui acquisite. Il potenziale è calcolato valutando il possibile ampliamento delle attuali quote di mercato rispetto a quelle dei concorrenti che, per struttura dei costi di produzione e qualità dei prodotti esportati, hanno caratteristiche simili a quelle dell’Italia. Il potenziale si ripartisce per oltre tre quarti nei paesi avanzati (74 miliardi di euro) e per la restante parte negli emergenti (22 miliardi di euro).
I paesi avanzati rappresentano mercati più grandi e domandano con maggiore intensità i beni del BBF (il loro reddito pro-capite è più alto), essendo l’Italia storicamente più legata alla sfera delle economie occidentali. Le economie mature di tali paesi hanno, però, trend demografici ed economici poco dinamici e la crescita si ottiene cercando di erodere quote di mercato ai concorrenti o, alternativamente, non perdendone: in contesti di ampi volumi, anche tassi di crescita poco elevati possono rappresentare un grande guadagno e una forte espansione per le imprese, soprattutto se di dimensioni piccole o medie. I paesi emergenti hanno invece un peso più esiguo sul commercio mondiale, ma sono in continua espansione ormai da due decenni e con prospettive di crescita più rapide rispetto ai paesi avanzati. Tuttavia, molti mercati emergenti presentano criticità legate sia alla stabilità economica sia all’incertezza sulle tendenze geopolitiche in atto.
La realizzazione effettiva del potenziale passa attraverso la penetrazione commerciale nei paesi e nei comparti dove i margini di crescita sono maggiori. Ogni mercato geografico di sbocco presenta delle peculiarità sia in termini di comparti a più elevato potenziale, sia in termini di concorrenza. Un quadro sintetico è illustrato nella Tabella A, dove si riportano, per i primi cinque mercati avanzati e i primi cinque emergenti in termini di potenziale, i settori che contano di più e i principali concorrenti dell’Italia in tali mercati.
A fare da volano alle esportazioni nei paesi avanzati è la forte condivisione di gusti e standard che riflettono una sostanziale affinità dei contesti culturali. Si tratta anche dei principali paesi con cui l’Italia tesse relazioni economiche, politiche e strategiche, e con cui i legami geoeconomici sono particolarmente intrecciati. I paesi più importanti sono Stati Uniti (22,6 miliardi di euro), Germania (5,7 miliardi) e Corea del Sud (4,7 miliardi). I settori che vi esportano maggiormente sono quelli legati alle “3F”, mentre i concorrenti che più ricorrono Cina e Francia.
Tra le economie emergenti i mercati principali sono la Cina (2,4 miliardi di euro), l’Arabia Saudita (2,0) e il Qatar (1,4). Oltre ai settori legati alle “3F” compare in questo caso anche la Nautica, particolarmente fiorente in paesi dove è presente una classe di popolazione caratterizzata da spesa elevata. Anche nei paesi emergenti, i due principali competitor delle imprese italiane sono Francia e Cina.
La Russia è un mercato che si attesterebbe al secondo posto per potenziale sfruttabile nella classifica degli emergenti, ma a seguito dell’invasione dell‘Ucraina non è pensabile che gli scambi possano intensificarsi.
In generale è interessante notare come le recenti tendenze stiano spostando maggiormente il baricentro del potenziale verso le economie avanzate rispetto ai paesi emergenti. In particolare, il potenziale della Cina si è ridotto lievemente rispetto all’edizione di EDV 2021, poiché sembra essersi affievolita l’intensità del commercio cinese con partner economici simili all’Italia le cui esportazioni potrebbero trovare un’alternativa nel made in Italy. Tali tendenze potrebbero rafforzarsi ulteriormente per le tensioni geopolitiche in atto. D’altra parte, tra gli emergenti occupano sempre più spazio i paesi della penisola arabica, dove si vende il top di gamma del BBF.
Le esportazioni italiane per i beni del “bello e ben fatto” hanno, infatti, trovato grande dinamicità ed elevati tassi di crescita verso i paesi ASEAN. Nonostante l’impatto della crisi sanitaria abbia significativamente rallentato le vendite di BBF in questi paesi, registrando una perdita di quasi il 25%, la ripresa post-pandemica dell’export di BBF verso questi mercati ha garantito un ampio recupero delle esportazioni che sono cresciute del 32,2% in media all’anno tra il 2021 e il 2022. Questi ultimi valori hanno fatto sì che l’export italiano di BBF nel 2022 verso gli ASEAN raggiungesse gli 1,6 miliardi di euro. È lecito attendersi che la crescita della domanda di BBF da parte di questi paesi continui sostenuta nei prossimi anni, considerata anche la centralità del Sud-Est asiatico nelle strategie di diversificazione delle imprese internazionali che stanno progressivamente puntando non più solo alla Cina.
Singapore rimane il primo mercato ASEAN per l’export di BBF, rappresentando il 35,3% delle esportazioni nell’area considerata. La città-stato, caratterizzata da una delle popolazioni più abbienti al mondo con un’elevata capacità di spesa e gusti internazionali, ha importato nei suoi confini beni BBF per un valore circa di 562 milioni di euro solo nel 2022. La domanda di prodotti italiani potrà, inoltre, godere di un flusso turistico previsto in forte crescita nel 2023. Rispetto agli anni passati, tuttavia, il peso del paese per l’export di BBF è andato diminuendo in favore di destinazioni in rapida crescita, tra cui anche Malesia e Thailandia. La crescita dell’export verso la Malesia – paese caratterizzato da un’ampia classe media con livelli di reddito disponibile relativamente elevati – è stata guidata soprattutto dal settore della Gioielleria-oreficeria dove le vendite nel 2022 sono state pari a oltre 90 milioni di euro. La Thailandia, che conta su un settore turistico particolarmente sviluppato, redditi in aumento e un sempre maggiore livello di urbanizzazione, lo scorso anno ha importato beni del BBF per un valore pari a 336 milioni di euro, principalmente nei comparti di Pelletteria, Alimentare e bevande e Gioielleria-oreficeria.
In generale, i prodotti italiani incontrano una concorrenza meno forte da parte dei player asiatici rispetto a quelli occidentali, sia relativamente all’export totale che per quanto concerne il sottoinsieme BBF, elemento che mitiga lo svantaggio competitivo derivante dalla maggiore integrazione commerciale tra i paesi della regione. Tuttavia, l’accesso ai mercati ASEAN da parte delle imprese italiane trova spesso ostacoli nelle barriere tariffarie. Queste, sotto forma di imposte ad valorem, fanno aumentare il prezzo dei beni importati e commercializzati nelle aree considerate. Ciò è particolarmente vero per i prodotti del BBF, soggetti a dazi solitamente superiori alla media dei prodotti importati dai paesi ASEAN, specialmente in Indonesia e nel Laos. Un ulteriore ostacolo alle esportazioni di BBF verso gli ASEAN è rappresentato dalle misure non tariffarie (NTM) che comportano costi non indifferenti per le imprese italiane.
Le tensioni internazionali legate al conflitto in Ucraina, l’aumento dei prezzi e le politiche monetarie restrittive hanno contribuito a deteriorare il quadro economico globale che ancora scontava gli effetti negativi legati alla crisi pandemica. L’insieme di questi fattori ha causato un indebitamento più elevato sia per il settore pubblico sia per quello privato che, a loro volta, hanno indotto un peggioramento generalizzato nel rischio di credito. Per comprenderne le implicazioni, l’analisi del potenziale si accompagna a quella del rischio che ciascun mercato presenta (Grafico D). Non sorprende il posizionamento così elevato di Russia e Ucraina nella scala di rischio di credito essendo i due paesi direttamente coinvolti nel conflitto. Rimangono piuttosto sicuri i paesi avanzati, che peraltro rappresentano la destinazione più rilevante per le esportazioni di BBF, dove le economie più strutturate stanno consentendo, nonostante le difficoltà, una maggiore stabilità.
Il riconoscimento da parte delle massime istituzioni mondiali e italiane, chiaramente definito con l’Agenda 2030 e l’Accordo di Parigi, della necessità di un capovolgimento del paradigma economico che ponga al centro lo sviluppo sostenibile, apre le porte a un nuovo modo di fare impresa. Non è infatti più sufficiente che le imprese mirino alla massimizzazione del profitto, ma è necessario che queste acquisiscano consapevolezza dell’impatto delle loro scelte sull’ambiente e che pertanto migliorino la gestione delle risorse (naturali, finanziarie e umane) senza mai sfruttarle in maniera così intensiva da compromettere il benessere delle generazioni presenti e future. Sostanzialmente sarà, e già è, compito delle imprese quello di perseguire la massimizzazione del valore nel lungo periodo.
Per conquistare nuove quote di mercato e garantirsi la fedeltà degli attuali consumatori non si potrà trascurare il grado di sostenibilità dei prodotti venduti. È infatti dominante la porzione di consumatori, quasi il 70%, che prendono in considerazione la sostenibilità nelle proprie scelte di acquisto. Inoltre, si commetterebbe un grave errore nel ritenere tale fenomeno passeggero, in quanto questa tendenza non sembrerebbe essere stata messa in discussione neanche dalle più gravi turbolenze economiche che hanno caratterizzato gli ultimi anni.
L’integrazione delle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile (ambientale, sociale ed economica) all’interno dei processi dell’azienda richiede l’adozione di strategie volte a definire gli obiettivi di sostenibilità di medio periodo e la strada per raggiungerli, partendo dalle proprie vocazioni e specificità e cercando di valorizzare quanto già è stato fatto. L’adozione di un percorso virtuoso di integrazione della Corporate Social Responsibility (CSR) richiede alle imprese di integrare gli obiettivi strategici di sostenibilità con i propri piani industriali e di valutarne l’effettivo stato di avanzamento e miglioramento facendo affidamento su un adeguato sistema di monitoraggio interno, attraverso una rendicontazione dei risultati raggiunti nelle proprie performance CSR. Una loro corretta comunicazione permetterebbe all’impresa di suscitare l’interesse di svariate categorie di clienti, soprattutto di investitori e finanziatori, e apporterebbe considerevoli benefici alla brand reputation.
In un mondo sempre più connesso e dove il commercio online continua a crescere rapidamente, rafforzare i canali di vendita digitale, sia che implichi promuovere la presenza del BBF sui canali esistenti, sia che significhi farlo su nuovi, è di vitale importanza. Non presidiando questi “mercati virtuali” si accumulerebbe uno svantaggio competitivo difficile, se non impossibile, da colmare. Tramite questi canali, ma non solo, è possibile promuovere la creazione di marchi anche per le piccole e medie imprese italiane. La riconoscibilità del made in Italy potrebbe inoltre essere valorizzata incoraggiando la creazione di reti e consorzi di imprese volti a estrarre maggior valore dalle catene globali del valore e miranti a superare il sottodimensionamento dell’imprenditoria italiana in molti comparti.
Le straordinarie performance dell’export italiano nel mondo sono anche riconducibili ai numerosi accordi commerciali che l’Europa, e di conseguenza l’Italia, ha sancito negli anni. La promozione di nuovi trattati europei e il rinsaldamento dei legami UE-USA possono contribuire alla stabilizzazione delle relazioni internazionali di cui l’Italia non può fare a meno per fronteggiare una concorrenza crescente. L’integrazione dei mercati agevola gli scambi e in Asia di recente è stata istituita la più grande area di scambio al mondo, il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Altrettanto fondamentali per la performance dell’export BBF sono gli accordi di libero scambio (Free Trade Agreements – FTAs) che, soprattutto nei mercati ASEAN, aiutano le imprese italiane a superare le barriere tariffarie e non. Infine, nei paesi con i quali non ci sono FTAs con l’UE, è importante proseguire pragmaticamente il dialogo a livello bilaterale per superare le barriere e gli ostacoli di accesso al mercato (Tabella B).
La qualità dei prodotti italiani e la loro ottima reputazione in tutto il mondo li rende oggetto di imitazione. Il richiamo all’estetica made in Italy consente di poter applicare prezzi di vendita maggiori senza rispecchiarne il valore intrinseco a causa della scarsa qualità dei materiali e l’esigua accuratezza delle lavorazioni. Secondo un rapporto dell’OECD, le imprese che più imitano il BBF si trovano principalmente in Cina, Turchia e Hong Kong. L’elevata perdita di quote di mercato legata alla contraffazione ne rende urgente il contrasto. I prodotti italiani devono poi essere tutelati da un ulteriore fenomeno altrettanto dannoso ma legale, contrariamente alla contraffazione, ossia l’Italian sounding. Questo consiste nell’evocare l’idea della qualità dei prodotti italiani sulle etichette e sulle confezioni tramite l’utilizzo, senza appunto cadere in pratiche illegali, di denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e la riproduzione di marchi simili agli originali. Le conseguenze di queste pratiche sono particolarmente nocive e rappresentano uno dei maggiori ostacoli al pieno dispiegarsi del potenziale dell’alimentare made in Italy. Le azioni che si possono intraprendere per ridimensionare il problema passano dal rafforzamento della tutela delle indicazioni geografiche all’interno degli accordi di libero scambio all’utilizzo di più efficaci campagne di marketing che aiutino a riconoscere il marchio made in Italy.
Negli ultimi anni si sono verificati numerosi shock nei mercati internazionali: per gravità d’impatto svettano su tutti la crisi pandemica, l'invasione russa dell'Ucraina e la crisi energetica. Questi shock si sommano a tendenze di più lungo corso come le transizioni digitale e ambientale e la crisi del multilateralismo. Questi cambiamenti si stanno ripercuotendo innanzitutto sulle catene di produzione che nel tempo sono diventate molto complesse e frammentate. Ciò trova conferma nelle comunicazioni sugli utili forniti dai manager delle grandi imprese europee quotate, da cui emerge che i rischi relativi alle catene di approvvigionamento sono stati percepiti come marginali fino al 2019, ma che dal 2020 in poi sono sempre più presenti tra le preoccupazioni degli imprenditori.
Le imprese italiane operanti nei comparti del “bello e ben fatto” (BBF) hanno affrontato tutto sommato bene l’incertezza di questi tempi di business unusual. Nel corso del 2022, i valori delle esportazioni BBF sono stati di oltre il 27% superiori rispetto alla media del triennio 2019-2021, mostrando una performance superiore rispetto a Francia, Germania e Spagna (data l’alta inflazione, la performance straordinaria risente ovviamente degli aumenti dei prezzi).
I principali paesi europei non sono solo concorrenti, ma anche fondamentali clienti e partner d’investimento: nel 2022 quasi il 45% delle esportazioni di BBF è stato assorbito dai paesi membri dell’Unione europea. Una quota altrettanto rilevante delle partecipazioni azionarie in entrata e in uscita nei comparti del BBF è anch’essa di matrice europea. Il sostanziale allineamento di esportazioni ed investimenti suggerisce che la rete di relazioni commerciali e industriali europea è cruciale per la resilienza della rete del BBF.
Nonostante gli shock registrati negli ultimi tre anni, il mondo rimane profondamente interconnesso e le catene globali del valore nel modo in cui si sono andate strutturando, restano centrali, tanto per le aziende multinazionali che per le aziende con filiali solo in Italia. È chiaro però che i cambiamenti intercorsi sono potenzialmente in grado di cambiare in modo permanente l’attuale articolazione delle catene del valore. D’altra parte, le catene globali del valore sono per loro natura sottoposte ad aggiustamenti continui sotto la spinta delle aziende globali che operano per rimanere competitive sui mercati internazionali.
Tra il 1995 e il 2008, si è andati verso una minore concentrazione del valore aggiunto lungo le filiere e un maggiore scambio interregionale, trainato da liberalizzazione commerciale, sviluppo tecnologico e riduzione dei costi di trasporto. A partire dal 2008, la tendenza ha invertito la rotta e gli shock degli ultimi anni hanno impresso un’accelerazione ai cambiamenti già in atto in alcune catene del valore: elementi chiave nelle decisioni delle imprese sono attualmente la disponibilità di beni strategici e la resilienza delle catene di approvvigionamento, a cui continuano ad aggiungersi le rapide evoluzioni tecnologiche.
Il BBF include un insieme di prodotti capaci di veicolare il valore aggiunto distintivo dell’Italia nei mercati internazionali. Le eccellenze italiane del BBF riescono ad ottenere un posizionamento di mercato più forte e competitivo rispetto ai maggiori concorrenti globali. Si tratta dunque di un‘analisi che concentra l’attenzione su una componente importante delle esportazioni italiane di beni manufatti.
L’identificazione del perimetro del BBF parte da un’analisi comparata degli scambi internazionali di beni finali di consumo, tenendo in considerazione le caratteristiche dei beni e dei singoli mercati. Dall’analisi quantitativa emerge il sottoinsieme dei prodotti del BBF, in cui l’Italia dimostra un vantaggio competitivo netto rispetto ai concorrenti, in termini sia di maggiori volumi venduti sia di prezzi unitari più elevati.
Le eccellenze del BBF spesso si caratterizzano per la presenza combinata dei due margini, ovvero volumi maggiori a prezzi più elevati, segnale che i mercati internazionali associano a tali beni un chiaro premio di qualità.
La sequenza dei passi seguiti per identificare l’aggregato BBF è stilizzata nel Grafico A. Il punto di partenza sono tutti i prodotti esportati dall’Italia, da cui prima si isola il sottoinsieme dei beni finali di consumo e poi quelli che tra questi possono considerarsi BBF. Per il calcolo del numero di beni finali di consumo si fa riferimento all’informazione desumibile dall’incrocio di due classificazioni internazionali in uso presso il Dipartimento di statistiche sul commercio internazionale delle Nazioni Unite: la classificazione Harmonized System (HS) e la classificazione per Broad Economic Categories (BEC). HS consente di individuare i beni scambiati sui mercati internazionali a più livelli di disaggregazione (da una singola cifra per identificare un macro-settore alle sei cifre corrispondenti alla singola categoria di un bene). La classificazione BEC serve invece a inquadrare ciascun bene secondo la sua destinazione d’uso (per esempio distinguendo beni strumentali e beni di consumo). Dall’analisi congiunta delle due classificazioni si desume che su 5.388 prodotti esportati dall’Italia, 1.348 possono essere considerati principalmente come beni finali di consumo. Le nuove classificazioni BEC, rev4 e rev5, hanno introdotto il concetto di beni a uso “duale”: ovvero beni che possono avere un’applicazione come beni di “consumo” o “strumentali” (ne sono un esempio alcuni arredi d’ufficio). Nel corso dell’analisi consideriamo nel perimetro dei potenziali BBF i beni di consumo così come i beni “duali”.
Per identificare statisticamente i singoli prodotti che rispondono ai principi ispiratori del concetto di BBF (qualità dei materiali e delle lavorazioni, artigianalità industriale, valore emozionale trasmesso al consumatore finale), occorre scendere a un elevato grado di disaggregazione settoriale. A tal fine, dopo aver isolato i soli beni finali di consumo, si deve restringere il campo alle eccellenze, cioè a quei beni per cui l’Italia gode di un premio qualità rispetto ai suoi principali concorrenti (Grafico B).
Per tracciare il focus al BBF si considerano solo quelli per cui l’Italia gode di un premio di prezzo o di quantità vendute (a parità di prezzo), cioè quei prodotti nei quali le imprese italiane sono particolarmente competitive rispetto alla concorrenza sui singoli mercati di sbocco, in termini di volumi e prezzi.
La Tabella A illustra come il “bello e ben fatto” (BBF) si articoli nei diversi comparti del made in Italy. Nel complesso, le 711 categorie di prodotto che delineano il perimetro del BBF rappresentano il 53% dei beni finali di consumo ed il 26,6% del valore delle esportazioni totali nazionali. Sulla maggioranza dei prodotti del BBF, 383 in totale, le imprese italiane esportatrici godono di un premio di prezzo particolarmente significativo (in termini statistici) rispetto ai principali concorrenti dell’Area euro. Se guardiamo al sotto-insieme di questi prodotti, il differenziale di prezzo con i concorrenti raggiunge in media il 41% (con un picco di circa il 64% per Abbigliamento e tessile casa).
I comparti legati alla moda (Abbigliamento e tessile casa, Calzature, Pelletteria, Occhialeria e Gioielleria-oreficeria) costituiscono la parte più peculiare del BBF, con 317 categorie di beni d’eccellenza, poco meno della metà del totale. Il comparto dell’Abbigliamento e tessile casa da solo conta 260 beni facenti parte del BBF (il 91% dei prodotti del comparto e il 4,1% delle esportazioni italiane). Fra i beni del BBF, nell’Abbigliamento ben 201 prodotti sono venduti a un prezzo più elevato di quello dei principali concorrenti, un premio di prezzo che in media è stato più elevato del 64% rispetto a quello dei principali concorrenti durante il periodo 2018-2020 (in leggero rialzo rispetto al 60% del periodo 2015-2017).
Negli anni dal 2018 al 2020 l’Italia ha visto contrarre leggermente le sue quote mondiali di export dei beni di eccellenza a causa di una generale crescita più lenta delle esportazioni italiane rispetto a quelle mondiali. Infatti, mentre queste ultime crescevano a un ritmo medio annuo dello 0,66%, quelle italiane aumentavano dello 0,27%, portando a una leggera contrazione delle quote di mercato (-0,38%). Una tendenza simile a quella della Francia (in contrazione dello -0,33%) e decisamente migliore di quella di Regno Unito (-2,99%), Stati Uniti (-2,53%) e Cina (-1,76%).
La performance dell’Italia è legata soprattutto a un effetto di composizione settoriale, -1,25 punti percentuali legati al rallentamento della domanda mondiale in molti beni del paniere BBF (in 6 comparti, rappresentanti il 39% delle esportazioni BBF, la domanda mondiale ha rallentato fortemente nel triennio con una contrazione in media del 3,1%). All’opposto, per Germania, Giappone e Paesi Bassi la composizione del loro paniere di prodotti BBF ha giocato un ruolo favorevole, contribuendo in modo sostanziale alla crescita delle rispettive quote di mercato.
L’effetto composizione italiano è stato parzialmente compensato da una buona crescita di competitività (+0,77 punti) e da una dinamica dei mercati più importanti sostanzialmente stabile (+0,1%). Per quanto riguarda i fattori legati alla domanda, che comunque hanno pesato per un aumento di quota pari allo 0,10%, la crescita della quota è stata indotta soprattutto dall’aver presidiato i mercati geografici a più alto tasso di crescita. Per quel che concerne la crescita della competitività, l’effetto è trainato da incrementi di prezzo, che da soli hanno contato per 2,09 punti; interessante notare come per la Cina questi stessi fattori abbiano costituito una pesante zavorra sulla dinamica della sua quota di mercato.
Osservare solo l'evoluzione delle quote di mercato può fornire un quadro errato della competitività esterna di un paese. Le quote di mercato possono contrarsi anche se le esportazioni sono in espansione, purché crescano a un ritmo più lento rispetto alla media mondiale, come è stato il caso dei beni BBF italiani durante il periodo 2018-2020. Al contrario, un'economia può migliorare la propria posizione nel mercato globale solo perché fornisce gli importatori più dinamici o i beni più richiesti.
La metodologia proposta segue un approccio top-down che quantifica la performance delle esportazioni di un paese sulla base di una versione econometrica dell'analisi a quote di mercato costanti, che consente di scomporre la crescita delle esportazioni osservata in: i) un effetto di composizione dovuto all'orientamento al mercato; ii) la composizione del paniere di prodotti esportati; e iii) uno shock di competitività dal lato dell'offerta specifico per il paese. Il termine di competitività riportato nella Tabella B riassume le determinanti della competitività proprie del paese esportatore.
In questo modo, la scomposizione della quota di mercato aiuta a rispondere a una domanda chiave per le sue implicazioni di politica economica: quanto di questi (guadagni) perdite sui mercati internazionali è dovuto alla composizione delle esportazioni, in termini di mercati serviti e dei prodotti, e quanto è legato alla competitività del paese.
I mercati di sbocco tradizionali restano il primo approdo per le esportazioni di BBF. Ai primi cinque posti nella graduatoria dei paesi ordinati per quota di importazioni di beni BBF provenienti dall’Italia si trovano Francia e Stati Uniti (12,2%), Germania (11,3%), Regno Unito (7,1%) e Svizzera (5,1%), che da soli pesano per quasi la metà dell’intero ammontare di esportazioni mondiali di BBF. Fra i mercati più importanti, la valorizzazione del BBF è stata positiva soprattutto in Germania, dove la crescita delle quantità ha reso possibile un aumento dell’export in valore seppure a fronte di un calo nei prezzi, determinando nel complesso una dinamica favorevole della domanda (Tabella 1.1).
Fra i mercati di sbocco più dinamici spiccano la Cina e i Paesi Bassi. Per quanto riguarda la Cina l’aumento delle importazioni è stato il più importante (+11,8%) e completamente determinato dall’aumento dei fattori di domanda. Nello stesso periodo la quota di importazioni mondiali della Cina è cresciuta a un ritmo dell’11,2% annuo, passando da 1,9% delle importazioni mondiali nel 2017 al 2,4% nel 2020.
Da notare come il Regno Unito, a cavallo del divorzio post Brexit, abbia avuto un tasso di crescita negativo sia per i beni BBF importati dall’Italia (-0,5%), sia per la sua quota sulle importazioni mondiali (-4,6%).
Se poi si rivolge lo sguardo ai mercati che crescono più rapidamente, oltre la Cina, spiccano i paesi dell’Europa dell’Est: Polonia (10% di aumento annuo della quota di mercato all’importazione), Romania (7,1%) Ungheria (5,7%) e i paesi emergenti del Sud-Est asiatico: Thailandia e Vietnam (Tabella 1.2).
Si noti come la Cina sia l’unico paese a comparire sia tra i principali mercati di sbocco in termini di quota di esportazioni BBF dall’Italia (tabella precedente), sia per dinamismo del mercato. Emerge nuovamente come la crescita dell’export sia dettata quasi in tutti i mercati da fattori legati alla valorizzazione dei prodotti, che si realizza attraverso una crescita in volume supportata da una dinamica positiva dei prezzi (sebbene generalmente moderata).
La performance del BBF italiano è sorprendente se si osserva dal punto di vista del numero di mercati che esso raggiunge. Il Grafico 1.1 ricostruisce la curva di tutti i possibili mercati come combinazione di categorie di prodotto e paesi di destinazione (asse orizzontale normalizzato a 100) e permette di osservare il numero di esportatori che riescono a presidiarli (asse verticale), con una quota di mercato superiore allo 0,1%. Considerando i 711 prodotti del BBF e le 216 possibili destinazioni, il numero totale di “mercati possibili” è uguale alla moltiplicazione dei due fattori, ovvero 153.576.
Nello specifico, la Cina raggiunge con le sue esportazioni circa il 68% del totale dei mercati potenziali per il BBF, ovvero 103.370 prodotti-destinazione, mentre l’Italia raggiunge circa il 50% dei mercati potenziali, essendo presente in 76.416 prodotti-destinazione (leggermente superiore agli Stati Uniti, 49%, e alla Francia, 46%). Per le categorie BBF, l’Italia è seconda solo alla Cina nel numero di mercati raggiunti, risultato sorprendente quando si confrontano le diverse scale di produzione dei due paesi, con la popolazione italiana che è circa il 4% di quella cinese.
Negli ultimi due anni abbiamo assistito a shock che hanno avuto (e stanno avendo) impatti economici molto rilevanti: dalla crisi pandemica, alle tensioni nei trasporti internazionali fino all'invasione russa dell'Ucraina. Tali mutamenti possono ripercuotersi sulle strategie delle imprese che, vedendo con preoccupazione il rischio associato a catene di produzione molto complesse e frammentate, possono cambiare direzione proprio per adattarsi meglio ai nuovi scenari internazionali.
In quanto segue, si utilizzano i dati sulle partecipazioni societarie delle imprese (presi da AIDA) in congiunzione con i dati di commercio per valutare il grado di esposizione dei differenti comparti del BBF agli shock esterni, utilizzando la metodologia di Fontagné e Santoni (2022). L’allineamento geografico fra la rete di investimenti e la rete di commercio fornisce una indicazione importante sul livello di esposizione agli shock esterni. Infatti, gli effetti di uno shock sulla domanda estera si propagano prevalentemente attraverso la rete combinata di relazioni commerciali e di investimenti esteri. Quando la rete commerciale e la rete degli investimenti esteri sono geograficamente sovrapposte, l’impatto degli shock esterni è due volte più importante. Inoltre, il 70% dell'impatto complessivo viene canalizzato indirettamente attraverso legami produttivi intersettoriali e interregionali.
Il Grafico 1.2 riporta la distribuzione geografica delle quote di esportazioni dei comparti del BBF insieme alla parte di partecipazioni societarie in entrata (Affiliate estere; casa madre estera) e in uscita (Affiliate Italia, partecipate estere di imprese italiane). Come si nota dal grafico, la maggior parte delle esportazioni italiane di BBF viene assorbita dai paesi dell’Unione europea, che nel 2022 hanno assorbito il 46% delle esportazioni di beni del BBF. Non solo per le vendite di beni BBF, i paesi membri dell’Unione europea rappresentano anche la principale fonte di investimenti diretti entranti in Italia, nel 2022: il 37,5% delle imprese controllate da imprese estere sono originarie dell’UE. Per gli investimenti uscenti, ovvero affiliate estere controllate da imprese italiane, la Cina rappresenta la destinazione privilegiata dalle imprese del BBF, assorbendo il 34,4% del totale delle affiliate estere, seguita dall’Unione europea con il 29,3%. Nei comparti del BBF, gli Stati Uniti rappresentano anch’essi un’importante fonte di investimenti in entrata, infatti il 18,7% delle imprese a controllo estero dipendono da una casa madre negli USA, e una fonte di domanda per le esportazioni, pari al 13,3% del BBF.
L'esposizione agli shock internazionali sembra essere mediata dai legami con i partner europei e dell'Asia Centrale. Il ruolo della vicinanza geografica emerge con forza, esemplificando le forze gravitazionali alla base dei modelli teorici sul commercio e sugli investimenti. Anche gli Stati Uniti e la Cina sono anelli centrali della rete internazionale del BBF, sebbene le relazioni di investimento ed esportazione da e verso questi mercati tendano a essere relativamente meno sincronizzate di quelle con gli altri partner europei.
Il Grafico 1.3 conferma che esportazioni e partecipazioni estere sono piuttosto allineate a livello settoriale, anche se con differenze importanti fra i singoli comparti. Il grafico riporta un indice di similarità fra la distribuzione delle quote di esportazioni e le quote di partecipate in entrata e uscita. L’indice varia fra 0 ed 1 dove 0 indica la completa dissimilarità ed 1 la perfetta sovrapposizione delle quote di esportazioni e partecipate. La Pelletteria è il settore che registra la maggiore dissimilarità fra le quote di esportazioni e le partecipazioni estere: i mercati di vendita dei beni finiti sono per lo più diversi da quelli delle partecipazioni azionarie. Nei comparti Vetro, Alimentare e bevande, Legno e arredo ed Elettrotecnica ed elettronica, la distribuzione geografica delle esportazioni è molto più allineata a quella delle partecipazioni azionarie (in entrata e in uscita), il che potrebbe amplificare l’effetto di uno shock nei mercati internazionali per questi comparti.
Il Grafico 1.4 riporta l’andamento delle esportazioni mensili di beni finali ascrivibili al BBF per Italia, Francia, Germania e Spagna. Al fine di facilitare la comparazione, esso riporta il tasso di crescita delle esportazioni mensili nel 2022 rispetto ai valori per lo stesso mese ottenuti come media sul triennio 2019-2021. In generale, il 2022 ha segnato un avanzamento del 26,5% delle esportazioni italiane di prodotti BBF rispetto alla media del triennio precedente. In linea con l’Italia le esportazioni della Francia (25%) e della Spagna (27%), a fronte di una dinamica marcatamente più lenta per la Germania (17%). Inoltre, le esportazioni italiane delle eccellenze BBF hanno iniziato il 2022 con una dinamica più favorevole rispetto ai principali partner europei, seppure frenata a partire da maggio 2022 dall’intensificarsi del conflitto in Ucraina ma soprattutto dall’aumento dei prezzi dell’energia; mentre a partire da luglio 2022 si è assistito a una ripartenza generalizzata, seppure a ritmi più lenti.
Il Grafico 1.5 riporta i valori medi delle esportazioni mensili per tutti i comparti. Le esportazioni sono ancora espresse in tassi di crescita nel 2022 rispetto al triennio 2019-2021. Hanno frenato le esportazioni in Elettrotecnica ed elettronica (7%) e della Pelletteria (19%). Mentre le esportazioni di Veicoli a motore (47%), Gioielleria-oreficeria (45%) e Occhialeria (36%) hanno mantenuto una buona dinamica. La guerra in Ucraina, e prima di questa le difficoltà lungo le catene di approvvigionamento hanno senz’altro influito significativamente sull’andamento dei prezzi dei beni di consumo. L’inflazione a due cifre come quella acquisita per il 2022 ha parzialmente controbilanciato la corsa dei valori in termini nominali delle esportazioni BBF, in particolare per Elettrotecnica ed elettronica, la cui crescita nel 2022 non è riuscita a superare l’inflazione.
Concentrando l’attenzione sull’andamento trimestrale 2022, si nota come nel 1° trimestre l’andamento dell’export sia stato particolarmente positivo per la Nautica, che ha raggiunto valori quasi due volte e mezzo superiori a quelli del triennio precedente, sospinta soprattutto da un aumento significativo delle esportazioni di imbarcazioni a motore. Dopo una partenza molto dinamica, le esportazioni del comparto della Nautica hanno rallentato fortemente nel 2° trimestre, assestandosi su valori in linea con la media triennale nel 3° trimestre (18%). Nel complesso, il comparto si attesta su valori superiori del 33% rispetto alla media del triennio precedente.
Anche per i Veicoli a motore l’andamento è stato favorevole. L’apertura positiva nel 1° trimestre 2022 con volumi superiori del 36% dello stesso trimestre 2019-2021 si è consolidata nel corso del 2° e, soprattutto, nel 3° e 4° trimestre, registrando volumi superiori del 60% della media di riferimento. A fare da traino sono stati i motocicli di grossa cilindrata (più di 800cc) le cui vendite internazionali hanno superato del 90% la media nel 3° e nel 4° trimestre.
Il macrosistema arredamento e illuminazione in media registra volumi superiori del 24% rispetto all’ultimo triennio, determinati in egual misura dall’andamento delle vendite nazionali e da quello delle esportazioni. Quasi tutti i comparti dell’Arredamento registrano volumi superiori alla media degli ultimi tre anni. Particolarmente positive sono le vendite di poltrone imbottite, +34%, seguite dagli arredamenti in legno per la casa +22,7%. Il settore dell’arredo d’ufficio e dell’illuminazione, anch’essi in positivo, registrano incrementi meno importanti ma comunque significativi, con volumi superiori del 21% rispetto al triennio precedente.
Buoni i volumi della Ceramica. Nel complesso, le esportazioni del comparto sono state piuttosto dinamiche con valori superiori del 28% alla media degli ultimi tre anni (trainate dalle piastrelle, +31%). Particolarmente a rilento invece le esportazioni di porcellana (-21% rispetto alla media).
L’Italia nel 2022 rallenta marcatamente nel settore dell’Elettrotecnica ed elettronica, la Francia accelera nel comparto della Pelletteria e del Vetro (sebbene in misura minore per quest’ultimo). L’espansione nel comparto di Gioielleria-oreficeria dell’Italia è rilevante e più marcata di Francia e Germania; come nei Veicoli a motore, dove l’Italia vanta anche una performance migliore nel comparto, soprattutto per merito dei veicoli a due ruote; la dinamica italiana in entrambi i comparti è però meno travolgente di quella della Spagna. Da sottolineare che la Spagna esporta 1/3 dei volumi dell’Italia nei Veicoli a motore e 1/12 dei volumi italiani della Gioielleria-oreficeria; nonostante l’avanzamento relativo è ancora molto indietro in termini di volumi (Grafico 1.6).
Sotto il profilo geografico, i mercati dell’America del Nord, dell’Asia del Sud e dell’America Latina e Caraibi sono quelli che hanno registrato la crescita maggiore nel corso del 2022 rispetto ai tre anni precedenti: +47% per America del Nord, +38% per Asia del Sud e +36% per America Latina e Caraibi.
Mentre in Europa ed Asia Centrale le esportazioni italiane sono allineate con quelle di Francia e Germania, ma leggermente indietro alla Spagna (che registra volumi più importanti del +25% rispetto alla sua media di riferimento contro il +21% dell’Italia). Da notare come le esportazioni BBF della Germania in Medio Oriente e Africa del Nord sono cresciute molto nel 2022, segnando un +56% rispetto alla media triennale di riferimento, mentre quelle italiane sono aumentate del 34% (Grafico 1.7).
Effettuando un focus sui paesi pilastro per le esportazioni del BBF, si nota come USA e Cina siano in netta crescita, mentre per l’Unione europea la crescita è più contenuta. Verso gli USA l’export nel 2022 è pari al +48% di quello del 2019-2021; su livelli simili la Cina le cui importazioni di BBF italiano nel 2022 sono state pari al +39% di quelle medie nel triennio precedente. Negli Stati Uniti, spiccano i comparti di Nautica (+98%) e Veicoli a motore (+95%), seguiti dalla Pelletteria (+84%); mentre in Cina Veicoli a motore (+108%) e Gioielleria-oreficeria (+73%) hanno registrato gli incrementi più significativi. L’export di BBF verso il mercato di Hong Kong ha rallentato fortemente nel 2022 rimanendo sotto la media del triennio precedente (-8%), soprattutto per quel che riguarda i comparti dell’Elettrotecnica ed elettronica (-21%) e dell’Occhialeria (-20%).
In ambito europeo, la Francia ha rappresentato un mercato molto dinamico nel 2022, con esportazioni superiori del 28% rispetto alla media di riferimento, trainate in particolare da Pelletteria (+52%), Gioielleria-oreficeria (+37%) e Abbigliamento e tessile casa (+37%; Grafico 1.8).
Il presente lavoro illustra la struttura produttiva e le performance economiche del dominio del bello e ben fatto (BBF), come i gruppi economici, prevalentemente beni di consumo, che hanno il maggiore vantaggio competitivo nelle esportazioni italiane del made in Italy, secondo uno studio di Confindustria, che tiene conto della maggiore quantità, qualità e prezzo dei prodotti esportati dalle imprese italiane in tutto il mondo.
Alimentare, Legno e arredo e Moda costituiscono i pilastri del BBF Le unità locali dei gruppi economici del perimetro BBF erano 171.644 nel 2019, prevalentemente concentrate nel gruppo delle “3F” (Fashion, Food, Furniture), costituito dal settore Alimentare con oltre 57mila stabilimenti pari al 33,3%, dal settore del Legno e arredo con oltre 44mila unità locali pari al 26,2% e dal settore Abbigliamento e tessile casa con oltre 32mila unità locali pari al 19,1%. Nel complesso, le unità locali delle “3F” coprono il 78,6% delle unità locali complessive (Grafico A).
Nel 2019, gli addetti dei gruppi economici del perimetro BBF erano oltre un milione e duecentomila, concentrati nei settori Alimentare con circa 410mila addetti pari a 32,9%, Legno e arredo con oltre 244mila addetti pari al 19,6% e Abbigliamento e tessile casa con quasi 200mila addetti pari al 16%. Il gruppo delle 3F copre il 68,6% degli addetti complessivi (Grafico B).
Anche il settore delle Calzature, Pelletteria e dei Veicoli a motore ha un significativo numero di addetti, pari rispettivamente a 75mila addetti, 70mila e 62mila.
La spina dorsale del BBF è costituita per lo più da piccole imprese La dimensione media aziendale, misurata in termini di addetti, è pari a 7,3 addetti, con un picco di 325,3 addetti nel settore dei Veicoli a motore e di 44,5 addetti nel settore Elettrotecnica ed elettronica (Grafico C). Negli altri gruppi economici del perimetro BBF si nota una dimensione media aziendale maggiore nel settore della Cosmetica (17 addetti), Occhialeria (11,2 addetti) e Bevande (10,4 addetti) mentre le unità locali più piccole in termini dimensionali ricadono nei gruppi della Gioielleria-oreficeria con 4,1 addetti, Ceramica con 4,6 addetti e Legno e arredo con 5,4 addetti.
I profitti più elevati nel settore delle Bevande La redditività, espressa dal margine operativo lordo sul valore aggiunto, era pari al 38,6% nel perimetro BBF, con punte nel settore delle Bevande, pari a 55,9%, e Cosmetica, pari al 48,2%, mentre i gruppi economici con minore redditività sono rappresentati da Elettrotecnica ed elettronica, pari al 13,7% e della Ceramica, pari al 23,9% (Grafico D).
Questo capitolo analizza quali siano le nuove potenziali opportunità a disposizione delle imprese del “bello e ben fatto” (BBF) nei mercati internazionali, a quanto possa ammontare il potenziale di export e quali siano i principali concorrenti dell’Italia.
Per rispondere a queste domande si analizzano i dati di commercio mondiale di tutti i paesi. Ciò permette di valutare la capacità delle imprese italiane di intercettare efficacemente la domanda estera in modo tale da individuare quei settori e quei mercati in cui esiste un potenziale non sfruttato. I dati mostrano che in molti mercati esistono esportatori esteri che performano meglio delle imprese italiane nelle stesse tipologie di beni a parità di condizioni quali prezzo, qualità, distanza geografica e altro. In altre parole, esiste una domanda che teoricamente potrebbe essere soddisfatta dalle imprese made in Italy.
Per ognuna delle oltre 711 categorie di prodotto del BBF e per ogni mercato di destinazione vengono individuati i paesi esportatori che, presentando caratteristiche simili a quelle dell’Italia, riescono a ottenere risultati migliori in termini di export. Gli elementi presi in considerazione nel confronto tra i diversi paesi esportatori si basano sulle principali misure adottate nella letteratura economica e includono le quote di mercato, i prezzi (valori medi unitari), la distanza geografica, il grado di specializzazione, la diversificazione dell’export, la sostituibilità dei beni esportati (ovvero il loro grado di unicità) e il reddito pro-capite. Grazie a queste informazioni, comparando la performance italiana con quella dei concorrenti più simili all’interno di ogni tipologia di prodotto in ogni mercato di destinazione, è possibile costruire una misura della domanda aggiuntiva che potrebbe rivolgersi alle imprese italiane, cioè dell’export addizionale ottenibile. L’esistenza di un differenziale positivo tra export potenziale complessivo ed export effettivo indica che esistono margini di miglioramento nella capacità di penetrare i mercati esteri.
A inizio 2022, si prevedeva un proseguimento di quel percorso di miglioramento iniziato dopo la lenta uscita dalla pandemia. Tuttavia, l’escalation delle tensioni tra Russia e Ucraina, divenuta vera e propria invasione da parte della Russia a febbraio, ha fatto sì che lo scenario macroeconomico atteso per tutto il 2022 mutasse. L’inizio della guerra ha avuto e sta avendo tuttora impatti negativi sulla disponibilità e sui prezzi di alcune materie prime energetiche, agricole e industriali, essendo entrambi i paesi coinvolti importanti fornitori globali di alcune di queste.
Nel 2022, l’inflazione ha raggiunto picchi molto elevati a livello globale, come non accadeva da decenni: l’inflazione media nei paesi avanzati è stata pari al 7,3% e negli emergenti al 9,8%, valori molto superiori a quelli del periodo 2013-2019 pari rispettivamente all’1,3% e al 4,8%. L’aumento del livello dei prezzi ha effetti negativi sulle prospettive di crescita, perché riduce il reddito reale delle famiglie e impone alle banche centrali politiche monetarie restrittive che hanno l’effetto di rallentare l’attività economica. Inoltre, i paesi dell’Europa avanzata hanno patito, seppur in maniera differenziata, diverse criticità̀ nell’approvvigionamento di input, in particolare di quelli energetici.
L’aumento dei costi di produzione, in particolare energetici, e quello dell’inflazione seguita dall’aumento dei tassi di interesse, hanno avuto ripercussioni negative sulla crescita dell'economia mondiale. Oltre agli effetti quantitativi di breve periodo sul commercio, il conflitto in Ucraina comporta cambiamenti potenzialmente radicali nelle relazioni commerciali tra paesi, con una maggiore attenzione alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento, in particolar modo per quanto riguarda energia e materie prime strategiche. In questo scenario, le questioni geopolitiche, la vicinanza geografica e la solidità dei rapporti diplomatici sembrano assumere nuova rilevanza. Rischi e opportunità, costi e benefici di queste ultime tendenze sono di difficile valutazione; ne deriva un elevato grado di incertezza sulle prospettive future che rende difficile per le imprese effettuare piani strategici e investimenti di lungo periodo. Non si assiste e non si auspica una deglobalizzazione, che sarebbe estremamente penalizzante per l’economia globale e quella italiana, ma sembra in atto un cambiamento dei legami produttivi internazionali rispetto agli scorsi decenni; ciò sembra portare a una maggiore regionalizzazione degli scambi internazionali o addirittura verso una polarizzazione tra “Occidente” e “Oriente”.
L’analisi svolta in questo capitolo è presentata separatamente per i mercati avanzati e per quelli emergenti. La scelta deriva dal fatto che i paesi appartenenti ai due gruppi presentano caratteristiche molto diverse, specialmente per quanto riguarda le capacità di penetrazione dell’export italiano: le economie mature dei paesi avanzati hanno mercati grandi in valore, un reddito pro-capite elevato, e in esse il BBF gode già di un posizionamento relativamente consolidato; viceversa, i paesi emergenti, salvo eccezioni, hanno mercati interni più piccoli in valore, un reddito pro-capite mediamente inferiore, e il BBF presenta ancora un elevato margine di miglioramento, sia per ragioni legate allo sviluppo economico dei paesi sia per ragioni storico-culturali, anche in ragione della diversità di gusti e tradizioni.
Il potenziale sfruttabile rappresenta l’export aggiuntivo, ottenibile in un’ottica di medio periodo, rispetto a quanto già realizzato. Per agevolare i confronti, il potenziale sfruttabile può essere espresso come indice percentuale (0-100). Il valore dell’indice misura l’ampiezza del potenziale rispetto al massimo export teoricamente raggiungibile (che include l’export effettivo già realizzato e il potenziale sfruttabile).
Per comodità si riportano di seguito alcune definizioni:
Il valore del potenziale di export non è una previsione circa la possibile evoluzione futura delle vendite, che dipende non solo dal potenziale stesso ma anche dalla capacità degli esportatori di saper cogliere le opportunità, dalla congiuntura e dalle condizioni macroeconomiche. Questi aspetti, più altre valutazioni qualitative, sono discusse nel capitolo a complemento dell’analisi quantitativa di misurazione del potenziale.
Il tasso di cambio euro/dollaro da più di un anno sta attraversando una fase ribassista. Avere una moneta “debole” ha diverse conseguenze, sia positive che negative, per le imprese italiane, soprattutto in termini di competitività di prezzo sui mercati internazionali. Avere un euro debole significa poter esportare con più facilità, soprattutto nei mercati extra-UE, nello specifico negli Stati Uniti che rappresentano il primo mercato di sbocco del made in Italy. Questo si verifica perché le nostre merci sono meno care per i consumatori esteri, incentivandone la domanda.
L’indebolimento dell’euro, però, aumenta il costo dei beni esteri importati dalle imprese italiane. Questo fenomeno pesa particolarmente sugli acquisti di materie prime, i cui prezzi sono già elevati e sono denominati in dollari (a parte quello del gas).
Il forte incremento dei costi energetici ha un effetto ancora più drammatico per un Paese come l’Italia che è importatore netto di materie prime ed è caratterizzato da un’industria di trasformazione. Questo comporta il rischio di una perdita di competitività delle imprese italiane, soprattutto rispetto a Germania e Francia che sono caratterizzate da una minore incidenza dei costi energetici rispetto all’Italia. Inoltre, la Francia, al contrario dell’Italia, ha un fabbisogno energetico dall’estero molto ridotto.
Queste considerazioni complicano la valutazione circa le concrete possibilità di realizzare il potenziale di export esistente. Questo studio, tramite una dettagliata analisi dei dati, aiuta cogliere e quantificare l’esistenza di una domanda estera aggiuntiva appetibile per il nostro export. La sfida per gli esportatori è di riuscire a intercettare tale domanda, trasformando il potenziale in effettivo.
Il Grafico 2.1 riporta l’export potenziale nei principali mercati avanzati. Osservando il grafico, si nota come l’elevato potenziale negli USA dipenda in larga parte dalla dimensione del mercato. Risulta, quindi, possibile incrementare l’export negli USA date le caratteristiche merceologiche dell’Italia. Inoltre, il grafico mostra come un piccolo miglioramento nella capacità di penetrare il mercato statunitense comporterebbe un significativo aumento dell’export. Nel 2021 l’andamento degli scambi USA-Italia ha registrato un forte aumento (+19,4%) dopo il -14,4% del 2020 e il +2,1% rispetto al 2019. Se si considera l’intero Nord America il potenziale è ancora più elevato, grazie a 4,6 miliardi di euro di possibile export aggiuntivo in Canada.
Il Grafico 2.1 mostra anche un significativo potenziale nei seguenti paesi: Germania (5,7 miliardi di euro di export aggiuntivo possibile) e Giappone (4,6 miliardi). Il Regno Unito presenta un potenziale sfruttabile elevato (4 miliardi); ma l’incertezza nelle nuove relazioni con l’UE in seguito alla Brexit può compromettere le possibilità di trasformare il potenziale in export effettivo. Anche il Canada presenta un significativo livello di export potenziale sfruttabile (4,6 miliardi). Nonostante questo, però, si rivela un paese con una ridotta presenza di esportatori italiani. In questo mercato, anche per ragioni storiche, linguistiche e di contiguità geografica, l’Italia sconta la forte presenza degli USA.
Questo mercato, infatti, mostra un potenziale sfruttabile del 65%. La Corea del Sud nel 2021 ha visto il suo PIL crescere del 4%, principalmente grazie alla salita vertiginosa della domanda per il made in Korea. Nel 2020, stimoli fiscali e monetari, insieme a una forte crescita delle esportazioni e al tracciamento dei contatti da Covid-19, hanno fatto sì che il calo del PIL non superasse la soglia dell’1%, risultato inferiore solo alla performance della Cina.
In generale, rimane vero che strutturalmente i margini di miglioramento sono più ampi nei paesi in cui l’export italiano è tradizionalmente meno presente. Oltre che nei mercati avanzati asiatici, anche in Belgio (2,7 miliardi), Austria (2 miliardi) e Portogallo (1,3 miliardi), paesi dell’Unione economica e monetaria dell’Unione europea, l’Italia potrebbe teoricamente esportare molto di più, così come si evince dai potenziali percentuali che indicano margini di miglioramento di poco inferiori o superiori al 50%.
Per meglio capire l’origine del potenziale di export è utile comprendere la struttura dei mercati e individuare i principali concorrenti. Sono considerati concorrenti solo quei paesi che presentano caratteristiche simili all’Italia e che esportano le categorie di prodotto corrispondenti al BBF. L’approccio seguito permette di non decidere a priori chi siano i concorrenti, ma di lasciar “parlare i dati”: la lista dei paesi, infatti, varia per ogni singolo prodotto e mercato. Il Grafico 2.2 riporta i dati aggregati, in modo da fornire un quadro sintetico a livello di paese. I principali concorrenti dell’Italia nei vari mercati avanzati sono Cina e Francia, e, in qualche caso, Germania e Spagna. La presenza della Francia non sorprende, mentre per quanto riguarda la Cina bisogna considerare che la sua imponente crescita rimane dipendente dal traino delle esportazioni, anche se, nel 2022, il paese ha registrato un inaspettato calo delle vendite all’estero, che vedono anche il primo segno meno in oltre due anni.
Il Grafico 2.2 mostra come la Cina sia uno dei principali esportatori nelle stesse categorie di prodotto del BBF e come presenti alcune caratteristiche simili all’Italia che implicano un certo grado di concorrenza tra i due paesi. Negli USA i principali concorrenti dell’Italia, per quanto riguarda le categorie di prodotto del BBF, sono Cina, Messico e India; tra questi, la quota di mercato della Cina è di gran lunga la maggiore, pari quasi al 40%. I prodotti cinesi possono potenzialmente essere rivolti a fasce di mercato diverse da quelle italiane, ma una presenza così rilevante nelle stesse tipologie di prodotto è un elemento sempre più centrale e che richiede particolare attenzione.
Vi sono ovviamente fattori di somiglianza: per esempio, la distanza geografica e, dunque, i costi di trasporto verso gli Stati Uniti sono simili tra Italia e Cina, ed è anche relativamente simile la specializzazione settoriale dei due paesi. Rimangono alcuni elementi di differenziazione: l’Italia ha un PIL pro-capite ancora molto superiore (nel 2021 era più del doppio) e gode negli USA (e non solo) dell’effetto positivo legato all’elevata reputazione della qualità del made in Italy. La Cina, invece, anche se in misura minore rispetto al passato, conta su un basso costo del lavoro. È molto difficile studiare quale sia l’effettivo grado di concorrenza, è chiaro però che la Cina sia uno dei principali esportatori dei prodotti che corrispondono al BBF e, considerando le sue prospettive di crescita nonché il recente miglioramento qualitativo e tecnologico di molti beni cinesi, potrebbe iniziare a contendere rilevanti quote di mercato all’Italia.
Non sorprende vedere il ruolo della Spagna nel mercato portoghese, della Germania in quello austriaco o ancora degli USA in Canada (tutti con quote di mercato intorno al 40% nei rispettivi mercati di destinazione). Infatti, in tutti questi casi entrano in gioco fattori quali la prossimità geografica e le affinità linguistiche, culturali e istituzionali. Queste affinità sono fondamentali nello spiegare i flussi del commercio internazionale che consentono a tali paesi di godere fisiologicamente di un importante vantaggio competitivo nei confronti dell’Italia.
La concorrenza cinese in alcuni mercati/prodotti si fa sentire. Il Grafico 2.2 permette di confrontare le quote di mercato dei concorrenti dell’Italia nei prodotti del BBF; tuttavia, è importante considerare anche quanto effettivamente l’export dell’Italia e dei suoi concorrenti risulti in sovrapposizione. Infatti, il grado di concorrenza può variare a seconda delle caratteristiche dei beni esportati e dei paesi esportatori. A tal fine, si considera la quota di export italiano direttamente esposta alla concorrenza di un particolare paese. I risultati sono riportati nel Grafico 2.3 a seguire.
Negli USA la Cina è uno dei primi concorrenti dell’Italia con una quota del 37,5% sul totale dei beni BBF, a fronte di una quota italiana del 3,6%; inoltre il 24,5% dell’export italiano risulta direttamente in sovrapposizione con l’export cinese, che risulta essere il paese con la sovrapposizione maggiore negli USA. Sorprende notare come, in generale, il grado di sovrapposizione tra export italiano e cinese sia in crescita in alcuni mercati. Più prevedibile, invece, è la significativa sovrapposizione in alcuni mercati con la Francia.
La Cina fa valere il suo predominio nei mercati asiatici e, senza sorpresa, rappresenta il principale concorrente dell’export italiano. Inoltre, questo andamento sarà confermato anche negli anni a venire in seguito al crescente rafforzamento degli scambi intraregionali.
La presenza del made in China è di grande rilievo, non solo nel mercato asiatico, ma anche in quello europeo. Di conseguenza, rispetto al passato, la Cina risulta essere una concorrente diretta insieme agli altri paesi europei, in primis Francia, Germania e Spagna.
Il Grafico 2.4 riporta i potenziali nei mercati avanzati aggregati per settori. I principali settori per potenziale sfruttabile sono Alimentare e bevande, con 17,3 miliardi di euro di possibile export aggiuntivo; Abbigliamento e tessile casa (15,7 miliardi) e Legno e arredo (12,5 miliardi). In questi settori, in termini percentuali, il potenziale sfruttabile risulta elevato nel Legno e arredo, segnalando possibili margini per migliorare la performance delle imprese sui mercati esteri.
L’analisi precedente ha evidenziato che i primi tre mercati avanzati per potenziale sono Stati Uniti, Germania e Corea del Sud. Gli USA compaiono tra i principali mercati in molti settori (Grafico 2.5): Legno e arredo, che risulta essere nettamente il comparto più rilevante per potenziale (5,9 miliardi di euro), Abbigliamento e tessile casa (5,1 miliardi), Calzature (2,3 miliardi), Alimentare e bevande (2,2 miliardi) ed Elettrotecnica ed elettronica (1,7 miliardi). Tra questi, Elettrotecnica ed elettronica presenta particolari margini di sviluppo, dato che l’indice di potenziale sfruttabile è pari al 91%.
Nel caso del settore Alimentare e bevande, i primi tre mercati per potenziale sono Stati Uniti (2,2 miliardi ottenibili), Germania (2,0 miliardi ottenibili, ma indice di potenziale sfruttabile non particolarmente elevato anche se con quote italiane in crescita) e Canada (1,8 miliardi).
Spicca il potenziale elevato in Corea del Sud nel settore della Ceramica (93%). Ciò segnala l’esistenza di un ampio mercato in cui la partecipazione dell’Italia risulta relativamente scarsa, mentre la significativa presenza di esportatori con caratteristiche simili indica che gli esportatori italiani potrebbero essere in grado di competere in questo ambito.
Nel comparto Legno e arredo si nota la presenza di Corea del Sud e Canada tra i principali mercati per potenziale, con potenziali di miglioramento rispettivamente dell’88% e dell’83% rispetto all’export effettivo.
Abbigliamento e tessile casa sono il principale settore per potenziale in valore, con maggiori vendite ottenibili soprattutto in USA, Corea del Sud e Giappone. I principali competitor dell’Italia in questo settore sono Cina e India, paesi che giocano un ruolo predominante nell’export dei prodotti dell’abbigliamento e tessile casa in tutti e tre i paesi citati.
Chimica, farmaceutica e cosmetica, Vetro e Occhialeria sono comparti che hanno visto nell’ultimo triennio una generalizzata perdita di posizioni dell’Italia, evidenziata dalla riduzione delle quote di mercato, segno che gli operatori del settore stanno riscontrando difficoltà nel concretizzare il potenziale. In questi settori i principali concorrenti sono Francia e Spagna per la Chimica, farmaceutica e cosmetica mentre per il settore dell’Occhialeria e quello della lavorazione del Vetro emerge principalmente il ruolo della Cina.
L’export italiano del BBF nei mercati emergenti è strutturalmente molto inferiore a quello nei mercati avanzati. Questo fenomeno è in parte fisiologico e dovuto al fatto che i paesi avanzati hanno mercati più grandi, in cui i consumatori godono di una maggiore disponibilità economica; ma è anche dovuto a una limitata presenza degli esportatori italiani. Tuttavia, molti mercati emergenti, caratterizzati da una rapida fase di modernizzazione nella sfera economica e sociale, e da un continuo allargamento della classe benestante, presentano importanti bacini di domanda per i beni del BBF.
Il Grafico 2.6 riporta per l’Italia l’export effettivo e il potenziale sfruttabile nei principali mercati emergenti; i paesi sono ordinati per potenziale in miliardi di euro, in modo da evidenziare quelli più promettenti in termini assoluti.
Nel dettaglio, per l’Arabia Saudita, a fronte di un potenziale totale di 2,7 miliardi, l’export già realizzato è il 28% circa, mentre è ancora sfruttabile il 72%. Invece, per quanto riguarda la Cina, a fronte di un potenziale totale di 6,5 miliardi, l’export già realizzato è il 63% (circa 4,1 miliardi), mentre è ancora sfruttabile il 37%. Un potenziale così elevato in Cina è dovuto in larga parte alla dimensione del mercato che, in futuro, sarà ancora più ampio, favorito da tassi consistenti di crescita dell’economia superiori alla media mondiale. Lo stesso vale per il più grande paese della penisola arabica, l’Arabia Saudita, che è attesa crescere a ritmi sostenuti nei prossimi anni.
Confrontando la Cina con gli USA si nota che il potenziale sfruttabile (ovvero l’export aggiuntivo ottenibile) riflette la differenza nella dimensione economica dei due mercati. L’export effettivo BBF verso gli USA è oltre tre volte quello verso la Cina (14,8 miliardi di euro contro 4,1 miliardi); l’export potenziale sfruttabile è di 22,6 miliardi di euro contro 2,4 miliardi in Cina. Dal confronto con l’Arabia Saudita emerge che contro i 14,8 miliardi di euro di export negli USA, nel paese arabo l’Italia esporta solo 0,8 miliardi di euro, mentre l’export potenziale sfruttabile è di 22,6 miliardi di euro in USA contro i 2 miliardi in Arabia Saudita.
Ovviamente questa analisi non può essere svolta senza prendere in considerazione il fatto che dal suo inizio, lo scorso 24 febbraio, l’invasione russa dell’Ucraina ha costretto i paesi membri dell’Unione europea ad adottare misure straordinarie di embargo commerciale nei confronti della Federazione Russa. A febbraio 2023 il Consiglio ha adottato il decimo pacchetto di sanzioni. Le nuove misure vietano, tra l'altro: le esportazioni di tecnologie critiche e beni industriali, l'importazione di asfalto e gomma sintetica, la fornitura di capacità di stoccaggio del gas ai russi, il transito attraverso la Russia di beni e tecnologie a duplice uso dell'UE esportati. L'UE ha, inoltre, sospeso le licenze di radiodiffusione di altri organi di informazione russi e ha allargato il numero di persone ed entità, tra cui politici e militari, soggetti a sanzioni.
Al contrario di quanto emerso per i mercati avanzati (caratterizzati da una tendenza all’aumento del potenziale nei paesi in cui l’Italia è meno presente), nel caso degli emergenti, anche dove già le esportazioni sono relativamente elevate, permane comunque un alto margine di incremento dell’export (con alcune eccezioni come Emirati Arabi Uniti e Turchia).
L’analisi incrociata dei concorrenti dell’Italia nei mercati emergenti e nelle categorie di prodotto del BBF offre risultati piuttosto netti. Il Grafico 2.7 mostra le quote di mercato dell’Italia e dei suoi primi tre competitor. Nei mercati emergenti è senza dubbio la Cina il principale esportatore concorrente dell’Italia nel BBF, seguita da Spagna, Francia e Germania. La preponderante presenza della Cina come esportatore di prodotti appartenenti alle categorie merceologiche del BBF deve far riflettere: una parte consistente della domanda estera si rivolge a produttori cinesi anziché italiani, in qualche caso anche rinunciando a una qualità superiore.
Nei mercati emergenti l’Italia presenta ancora quote di mercato relativamente ridotte, e vi sono paesi concorrenti simili all’Italia che ottengono risultati migliori nell’export di beni appartenenti alle categorie del BBF. È altrettanto vero che le economie emergenti sono spesso molto dinamiche, e lo sviluppo e la crescita economica sono tendenzialmente superiori a quelli delle economie mature, aprendo così di anno in anno rapidamente nuove opportunità. Ad esempio, oltre alla Cina, anche Vietnam e Filippine offrono importanti opportunità per il BBF, così come Egitto, Emirati Arabi e India, dove la quota di mercato italiana è risultata crescere nel periodo 2018-2020.
Comprendere le leve da utilizzare per cogliere le opportunità offerte dai mercati emergenti è la sfida che attende gli imprenditori. È necessario innanzitutto essere presenti in loco al fine di cogliere le tendenze e le peculiarità della domanda, accorciare la distanza tra produttori e consumatori in termini logistico-commerciali, monitorare costantemente sia l'evoluzione normativa che le politiche amministrative. Altri fattori fondamentali includono i canali di marketing e comunicazione e le strategie di prezzo. La digitalizzazione, e in particolare il maggiore utilizzo dell’e-commerce, è oramai una tendenza strutturale nei mercati asiatici sia nel privato (specialmente tra i giovani) che nell’industria.
Così come già visto per i mercati avanzati, il confronto tra le quote di mercato è utile a quantificare il mercato potenziale in termini di categorie di prodotti del BBF, ma non necessariamente coglie il grado di concorrenza diretta con i vari competitor. Analogamente a quanto già osservato per i paesi avanzati, il Grafico 2.8 riporta la quota dell’export italiano effettivamente in sovrapposizione con i concorrenti. Nel caso dei mercati emergenti la concorrenza cinese è pervasiva: la Cina è infatti il primo concorrente in quasi tutti i mercati emergenti e presenta un’elevata sovrapposizione con l’export BBF. Questo aspetto evidenzia ancora una volta la crescita notevole della Cina e la sua sempre maggiore centralità nell’export mondiale, nonostante molti dei loro prodotti, seppure facenti capo alle stesse categorie merceologiche, risultino spesso qualitativamente inferiori rispetto a quelli offerti da imprese italiane. Ne deriva che gli esportatori italiani potrebbero ottenere risultati migliori se riuscissero a raggiungere più efficacemente i consumatori dei mercati emergenti puntando sull’esclusività, oltre che sulla qualità dei prodotti offerti. Risulta, inoltre, significativa la sovrapposizione con gli Emirati Arabi Uniti in Arabia Saudita.
Il Grafico 2.9 riporta per settori i risultati dell’analisi del potenziale di export nei mercati emergenti. Il potenziale sfruttabile più alto si registra nell’Alimentare e bevande, con 3,9 miliardi di euro di possibile export aggiuntivo; seguono Legno e arredo (3,1 miliardi), Abbigliamento e tessile casa (3,0 miliardi) e Chimica, farmaceutica e cosmetica (2,1 miliardi). A fronte di valori assoluti molto inferiori rispetto ai mercati avanzati, i margini di incremento dell’export risultano ampi. In particolare, in termini percentuali, il potenziale sfruttabile è particolarmente elevato nella Ceramica e nei Veicoli a motore (rispettivamente, 75% e 79%), mentre è relativamente più contenuto nell’Occhialeria (24%).
I risultati principali per le combinazioni di settori e mercati emergenti sono riportati nel Grafico 2.10. Il settore dell’Alimentare e bevande e quello della Chimica, farmaceutica e cosmetica sono i principali per valore del potenziale. In particolare, per il primo settore la Cina si caratterizza per un export potenziale pari a 682 milioni di euro con un indice di potenziale sfruttabile del 63%, pur con una quota dell’Italia in calo; per il secondo settore, invece, la Cina presenta un valore del potenziale di 728 milioni di euro. La Cina è il paese più presente tra i mercati di destinazione nei diversi settori, nello specifico la si trova, oltre che nel comparto Alimentare e bevande e Chimica, farmaceutica e cosmetica, anche nei settori Pelletteria e Gioielleria-oreficeria. Oltre alla Cina, il paese più presente al primo posto per potenziale è la Federazione Russa. In particolare, il paese compare al primo posto per il settore Abbigliamento e tessile casa (603 milioni), Calzature (231 milioni) e Ceramica (50 milioni).
Nel settore dell’Alimentare e bevande, il principale concorrente dell’Italia nei mercati di Cina, Arabia Saudita e Messico è la Spagna; mentre nel settore Chimica, farmaceutica e cosmetica, il principale concorrente dell’Italia risulta essere la Francia. La Cina è uno dei principali competitor dell’Italia in diversi settori e mercati; soprattutto, è interessante notare come il paese abbia quote di mercato significativamente elevate rispetto agli altri paesi concorrenti dell’Italia in quegli stessi settori e paesi.
Il Grafico 2.10 è utile a evidenziare anche il tendenziale aumento o la riduzione delle quote di mercato italiane sull’import del mercato. Nel triennio 2018-2020, l’andamento delle quote è stato tendenzialmente negativo in molti comparti, in particolare nel Legno e arredo, nella Ceramica, nelle Calzature e nell’Elettrotecnica ed elettronica, settori non esattamente piccoli per volumi e in cui l’Italia è tradizionalmente forte, ma nei quali è anche notevole la concorrenza dei paesi emergenti. Viceversa, l’andamento delle quote è stato in parte positivo nell’Alimentare e bevande e nella Gioielleria-oreficeria.
L’analisi del potenziale di export nei vari mercati, avanzati ed emergenti, consente di identificare le aree in cui l’Italia presenta margini di incremento dell’export rispetto alla domanda potenziale di prodotti del BBF. Il dettaglio settoriale e l’approfondimento paese-settore aiutano a individuare in ognuno dei principali mercati i settori a più alto potenziale e i relativi concorrenti che, per offerta e caratteristiche, contendono quote di mercato all’Italia.
Il Grafico 2.11 riporta in maniera sintetica, per settore e distinguendo tra mercati avanzati ed emergenti, i principali risultati dell’analisi di misurazione del potenziale di export. Il potenziale sfruttabile così quantificato rappresenta una misura della distanza che separa l’Italia da una performance ottimale nel medio periodo.
L’effettivo avvicinamento al potenziale dipende dalla competitività del paese esportatore nel suo insieme e dalla capacità delle imprese di saper cogliere le opportunità che si presenteranno. Per questa ragione se, da un lato, individuare i settori e le aree a più alto potenziale di export è necessario a comprendere dove indirizzare gli sforzi, dall’altro ciò non è sufficiente per incrementare la presenza dell’Italia sui mercati esteri; bisogna infatti verificare, caso per caso, la facilità con cui ciò è possibile, nonché i rischi e le opportunità nei singoli mercati e settori. In questa sezione viene fornita una prima analisi in questa direzione.
Per definire più concretamente le opportunità di export a livello di mercato vengono affiancati alla misura del potenziale sfruttabile (calcolato a partire dai singoli prodotti, espresso in termini percentuali) altri due indicatori sintetici a livello di paese. Il primo indicatore cattura la somiglianza tra la struttura delle esportazioni italiane e la domanda di importazioni dei mercati, e ha la funzione di verificare quanto due paesi siano compatibili come partner commerciali: la compatibilità tra offerta e domanda è elevata quando la composizione per prodotti dell’export di un paese assomiglia molto alla composizione per prodotti dell’import del paese partner. Il secondo indicatore, invece, cattura le prospettive di espansione nella dimensione dei mercati, attribuendo un peso maggiore ai mercati grandi e in rapida crescita.
Nei mercati avanzati la posizione dell’Italia è più consolidata e il potenziale sfruttabile minore, ma le grandi dimensioni e l’aumento della domanda possono incrementare l’export. Le informazioni sono riassunte nel Grafico 2.12. I mercati avanzati, tendenzialmente più grandi per dimensione e aumento del PIL in valore (ampiezza delle bolle), presentano un’elevata compatibilità con la struttura dell’export italiano, in quanto domandano in larga parte beni che l’Italia è in grado di offrire ma, allo stesso tempo, hanno un potenziale sfruttabile leggermente più basso, visto che si tratta di mercati maturi e in cui l’Italia è storicamente più presente.
Nei mercati emergenti si osserva che la maggior parte dei mercati ha ancora dimensioni economiche ridotte e una minore compatibilità con la struttura delle esportazioni italiane, tuttavia, l’Italia gode in essi di un ampio potenziale ancora non sfruttato che potrebbe far registrare tassi di crescita dell’export molto significativi.
India, e soprattutto Cina, presentano maggiori opportunità grazie alla dimensione e alle prospettive di espansione dei mercati, al netto degli strascichi di una crisi pandemica spesso mal gestita. Nonostante questo, la compatibilità con l’export italiano è ancora relativamente bassa. In India lo scarso posizionamento del BBF soffre i gusti dei consumatori locali e la loro tendenza a essere price sensitive; diversamente, il risultato in Cina potrebbe essere dovuto al fatto che buona parte della domanda locale di prodotti concorrenti del BBF sia in realtà soddisfatta dalle stesse imprese cinesi, seppure con una qualità inferiore. Molti altri mercati asiatici, sia tra gli avanzati (Giappone e Corea del Sud) che tra gli emergenti (Thailandia e Malesia) non sono caratterizzati da una notevole compatibilità con la struttura delle esportazioni italiane; tuttavia, l’Italia gode in essi di un ampio potenziale ancora non sfruttato. Un miglioramento della competitività e, quindi, una sensibile crescita nell’export, deve necessariamente passare da una maggiore presenza in questi mercati per cogliere le tendenze emergenti e l’evoluzione dei gusti dei consumatori di reddito medio-alto.
Questi due paesi mostrano un grado di compatibilità con l’export italiano particolarmente accentuato: seppure i potenziali sfruttabili non siano tra i più alti, questi sono paesi emergenti in cui le possibilità di incrementare l’export sembrano più concrete, ma allo stesso tempo si scontano fattori di incertezza e instabilità.
Il Grafico 2.13 riassume le considerazioni circa le opportunità di export nei vari mercati in un indice sintetico che al potenziale sfruttabile affianca la compatibilità tra domanda e offerta, e le prospettive di espansione del mercato. Nel complesso, Stati Uniti, Canada e Australia risultano ai primi posti per opportunità di export tra i mercati avanzati. Nei mercati emergenti, le principali opportunità risultano essere in Cina, Vietnam e Filippine. Ai primi posti nelle rispettive classifiche, Stati Uniti e Cina si confermano mercati fondamentali per l’export italiano, non solo per l’esistenza di un potenziale sfruttabile rispetto ai concorrenti, ma anche per la dimensione del mercato e per le prospettive di espansione della domanda. Viceversa, in Canada e Australia, come in Vietnam e Filippine, pur non trattandosi di mercati piccoli, le opportunità da cogliere sembrano derivare dal buon bilanciamento tra compatibilità domanda-offerta e potenziale sfruttabile, fattori che indicano che le imprese italiane possiedono caratteristiche adeguate ad aumentare la competitività in questi mercati.
Nella conquista di nuovi mercati le imprese esportatrici italiane e di tutto il mondo devono confrontarsi con un nuovo paradigma economico che mette al centro lo sviluppo sostenibile. Si tratta di sfide avviate ormai da molto tempo, che impongono vincoli sempre più stringenti e rappresentano vantaggi competitivi per le imprese più rapide nel cogliere le nuove opportunità. In questo capitolo si ripercorre l’excursus storico, rivolgendo lo sguardo anche al futuro con l’orizzonte temporale 2030 e si mettono in risalto le peculiarità di rilievo per le imprese, con particolare riferimento agli obiettivi di sostenibilità per i principali comparti del BBF.
La promulgazione nel febbraio 2022 della Legge Costituzionale in materia di tutela dell’ambiente ha rappresentato per l’Italia il sigillo a un percorso di consapevolezza sulle dimensioni ambientali e sociali delle attività di impresa cominciato almeno 50 anni prima, in seguito alla pubblicazione nel 1972 del Rapporto sui limiti dello sviluppo da parte del Club di Roma.
«Nella sua corsa disordinata, l'umanità è giunta a una grande svolta che nasconde pericoli senza precedenti, ma che può anche aprire orizzonti meravigliosi. Non può quindi permettersi di fare errori. Tutto dipende dall'uomo». Con queste attualissime parole Aurelio Peccei (1908-1984) esprimeva una profonda convinzione maturata durante la sua lunga esperienza manageriale in FIAT e Olivetti, convinzione che lo spinse nel 1968 a riunire a Roma un cenacolo di scienziati, industriali e politici provenienti da tutto il mondo per discutere di quella che lui definiva la problématique, ossia quel groviglio di problemi come il degrado ambientale, la povertà, le epidemie e la criminalità i cui intrecci richiedevano un approccio olistico prima di allora sconosciuto. Una delle prime iniziative del Club di Roma fu proprio commissionare al Massachusetts Institute of Technology uno studio sui possibili scenari economici futuri, i cui risultati furono poi pubblicati nel celebre Rapporto del 1972 che in estrema sintesi prevedeva, sulla base delle interazioni fra crescita industriale, consumo di risorse e inquinamento, l’insostenibilità nel lungo periodo del modello economico corrente. L’eco del Rapporto fu ben presto amplificata dalla crisi energetica del 1973, risuonando così come un grave campanello d’allarme circa i rischi connessi a un’economia fondata sul consumo di risorse non rinnovabili, come i combustibili fossili, e sostanzialmente miope rispetto al lungo periodo.
Il tema, che in verità veniva già da tempo sollevato dall’allora nascente movimento ambientalista, cominciò dunque ad acquisire centralità nel dibattito e nell’agenda delle istituzioni politiche ed economiche internazionali. Nel 1980 comparve per la prima volta l’espressione “sviluppo sostenibile” nel World Conservation Strategy – Living Resource Conservation for a Sustainable Development, documento pubblicato dall’IUCN, dall’UNEP e dal WWF in cui venivano trattati i temi dello sviluppo, della conservazione e della capacità rigenerativa dei sistemi naturali. Bisognerà tuttavia aspettare il 1987 per giungere a una definizione compiuta di sviluppo sostenibile, allorquando la Commissione mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo istituita alcuni anni prima dall’Organizzazione delle Nazioni Unite concluse i suoi lavori pubblicando il Rapporto Our Common Future, anche noto come Rapporto Brundtland, dal nome della premier norvegese chiamata a presiedere la Commissione. In quel documento era enunciata la definizione ancora oggi maggiormente diffusa e accettata di sviluppo sostenibile, ossia quella forma di sviluppo «che soddisfa le necessità delle attuali generazioni, senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare le proprie».
Sull’onda del Rapporto Brundtland, nel 1992 l’ONU convocò a Rio de Janeiro il cosiddetto Summit della Terra, la prima conferenza mondiale dei capi di Stato e di governo sull’ambiente. La conferenza produsse svariati documenti, tra cui il primo programma per l’ambiente e lo sviluppo, l’Agenda 21, una guida per lo sviluppo sostenibile del pianeta nel XXI secolo. L’Italia si è perfettamente inserita in questo percorso. Il primo documento programmatico del governo italiano finalizzato alla realizzazione di uno sviluppo compatibile con la salvaguardia dell’ambiente è rappresentato dal Piano Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile, emanato nel 1993 dal Ministero dell’Ambiente sulla scorta dell’Agenda 21. La linea era ormai tracciata, e gli anni successivi hanno visto un susseguirsi di conferenze e documenti che hanno progressivamente approfondito e aggiornato il tema, andando a coinvolgere non soltanto i governi e le ONG, ma anche le imprese. Risale, infatti, al 2000 il Global Compact, il patto mondiale delle Nazioni Unite nato per incoraggiare l’adozione da parte delle aziende dei suoi Dieci Principi di rispetto della responsabilità sociale d’impresa. Nel 2002 nasce la Fondazione Global Compact Network Italia con l’obiettivo primario di contribuire allo sviluppo del Global Compact delle Nazioni Unite.
Recentemente, le più significative tappe di questa presa di coscienza globale sono entrambe avvenute nel 2015, che rappresenta così un autentico annus mirabilis per lo sviluppo sostenibile. A settembre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva l’Agenda 2030, introducendo così gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, si veda il BOX n. 3.1). A dicembre, la Conferenza delle Parti dell’UNFCC riunita a Parigi impone la riduzione delle emissioni di gas serra al fine di contenere l’innalzamento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, al fine di ridurre i rischi connessi ai cambiamenti climatici.
La già citata Legge Costituzionale in materia di tutela ambientale nel 2022 ha previsto l’aggiunta di un nuovo comma all’articolo 9 che introduce, tra i principi fondamentali della Costituzione, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, «anche nell’interesse delle future generazioni». Il nuovo articolo così composto riecheggia la definizione di sviluppo sostenibile contenuta nel Rapporto Brundtland del 1987. Inoltre, all’articolo 41, che già riconosceva la libertà dell’iniziativa economica privata a patto che non rechi danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, è stato altresì aggiunto che essa non può svolgersi neppure a danno della salute e dell’ambiente, andando così a completare e integrare le imprescindibili dimensioni ambientali e sociali dello sviluppo sostenibile (Grafico 3.1).
La riforma, che è stata approvata pressoché all’unanimità, colloca dunque al vertice dell’ordinamento giuridico il riconoscimento del valore e dell’importanza dello sviluppo sostenibile, e rappresenta così il culmine di un percorso cominciato oltre mezzo secolo fa grazie anche alla presa di coscienza di imprenditori visionari come Aurelio Peccei, un percorso che richiede oggi più che mai l’impegno concreto di imprenditori altrettanto visionari.
Nel 2015 l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha adottato l’Agenda 2030, l’ambiziosa strategia che, introducendo gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals), intende affrontare con un approccio olistico le grandi sfide globali del XXI secolo. I 17 Obiettivi si sostanziano in 169 target finalizzati a eradicare la povertà in tutte le sue forme, dal contrasto alle disuguaglianze fino alla lotta contro l’inquinamento e il cambiamento climatico.
L’Agenda è stata ratificata da tutti i 193 stati membri dell’ONU che si sono dunque impegnati al raggiungimento di un futuro migliore e più sostenibile per tutti. Nessuno deve esserne escluso, né deve essere lasciato indietro lungo il cammino necessario per portare il mondo sulla strada della sostenibilità. Anche le imprese sono pertanto chiamate ad assumere un ruolo proattivo, dando il proprio cruciale contributo alla trasformazione culturale necessaria per l’affermazione di un nuovo modello di sviluppo che guardi al benessere delle generazioni presenti senza mettere a repentaglio quello delle generazioni future.
In sostanza, nel paragrafo precedente si è visto come le massime istituzioni mondiali e italiane abbiano fatto proprio e incoraggiato un allargamento di prospettiva nei concetti stessi di crescita e sviluppo. È così maturata una più ampia concezione che considera non più soltanto gli indicatori quantitativi di natura squisitamente economica, ma anche gli indicatori quali-quantitativi di natura ambientale e sociale.
È infatti davvero sostenibile quello sviluppo che mira a un equilibrio che soddisfi nel lungo periodo le dimensioni economica, ambientale e sociale. Tali dimensioni sono invero così strettamente correlate e interconnesse da richiedere necessariamente un approccio olistico, con uno sguardo costantemente rivolto al futuro.
All’interno della dimensione ambientale ricade la capacità di mantenere alta la qualità e la riproducibilità delle risorse naturali, avendo piena consapevolezza della limitatezza del pianeta e della fragilità degli ecosistemi. Ne discende la necessità e il dovere per le imprese di preservare l’integrità dell’ambiente, inteso come casa comune in cui tutti gli uomini trovano le condizioni imprescindibili per lo sviluppo e il mantenimento della vita.
La dimensione sociale della sostenibilità richiama poi la capacità delle imprese di garantire le condizioni di salute, sicurezza e, più in generale, di benessere psicofisico delle persone. Questo non può che partire dal rispetto dei diritti umani, mirando alla costruzione di una società più equa e giusta, priva di qualsivoglia forma di discriminazione e sfruttamento.
La sostenibilità economica, infine, può essere definita come la capacità dell'impresa di assicurare una crescita duratura degli indicatori economici, generando in particolare lavoro e reddito per il sostentamento degli individui. Essa è intimamente legata alla governance, ovvero l’insieme delle politiche attuate dagli organi di governo aziendale per il raggiungimento di obiettivi inerenti alla sostenibilità.
Analizzare la pur sempre primaria dimensione economica alla luce delle altre due dimensioni precedenti significa, dunque, acquisire consapevolezza dell’impatto che le scelte delle imprese possono avere sulla società e sull’ambiente, e gestire pertanto le risorse (non solo finanziarie ma anche naturali e umane) senza mai sfruttarle in maniera così intensiva da compromettere il benessere delle generazioni presenti e future. In altre parole, occorre che le imprese si prefiggano non più l’obiettivo di massimizzazione dei profitti nel breve periodo, bensì di massimizzazione del valore nel lungo periodo.
Questo, comunque, non richiede alle società di rinunciare allo scopo di lucro per le quali sono state costituite e magari trasformarsi in enti non profit ma, semmai, di allargare la prospettiva. Se in passato la tradizionale gestione aziendale mirava, in ultima analisi, al soddisfacimento dei bisogni dei soci (gli shareholder) nel loro esclusivo interesse, oggi la gestione sostenibile di un’azienda richiede di contemplare i bisogni dei vari portatori di interesse (gli stakeholder), mediando e bilanciando nelle situazioni di contrasto che possono sorgere tra i soci e i clienti, i fornitori, i dipendenti, i governi e la comunità.
Quanto appena detto necessita, ovviamente, dell’adesione volontaria e convinta da parte di tutti gli organi di governo dell’impresa che sono così chiamati a ridefinire le strategie da adottare e a disseminarle su tutti i livelli organizzativi. Lo sviluppo sostenibile aziendale è, infatti, veramente tale quando travalica gli slogan e le dichiarazioni per diventare pietra angolare della vision e della cultura aziendale.
Questa tensione è l’essenza stessa della Responsabilità Sociale d’Impresa (in inglese Corporate Social Responsibility, CSR), dal momento che parlare di sostenibilità in ambito aziendale equivale a parlare di CSR. Nel Libro Verde del 2001, la Commissione europea la definiva come «l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle attività aziendali e nei rapporti con gli stakeholder». Dieci anni dopo, nel 2011, la Commissione ha sintetizzato e rafforzato tale definizione come «responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società».
In altre parole, gli shareholder sono e rimangono i primari stakeholder di un’impresa, ma non sono più gli unici cui l’impresa debba rendere conto. A tal proposito, un’impresa è sostenibile quando nella sua contabilizzazione punta non soltanto a rendicontare la mera ultima riga (bottom line) del conto economico circa l’utile (o perdita) generato, ma ad allargare l’orizzonte rendicontando la cosiddetta triple bottom line circa gli impatti e, quindi, il valore generato nelle dimensioni economica, ambientale e sociale.
È infatti per questo motivo che negli ultimi anni si è assistito alla crescita e diffusione della rendicontazione non finanziaria, anche su impulso della normativa (si veda il paragrafo 3.3).
Il cambio di paradigma di cui si è parlato nei paragrafi precedenti viene ormai abbracciato da numerosi attori: dai governi alle istituzioni finanziarie, dai clienti industriali ai consumatori finali provengono oggi molteplici sfide ma anche opportunità per le imprese, le quali sono dunque chiamate ad affrontare quella che appare non come un’onda passeggera, bensì una trasformazione sistemica.
La centralità riconosciuta al tema dello sviluppo sostenibile dalle massime istituzioni mondiali attraverso l’Agenda 2030 e l’Accordo di Parigi vede la convinta partecipazione delle istituzioni europee e italiane, che hanno concretizzato il proprio impegno mediante il varo dei più ambiziosi piani di intervento pubblico della storia recente. Risale al 2019 il Green Deal europeo, il pacchetto di iniziative che mira a fare dell’Europa il primo continente climaticamente neutrale entro il 2050. In risposta alla crisi pandemica il pacchetto è confluito nel Next Generation EU, il piano di investimenti per rilanciare l’economia europea nel segno della sostenibilità. In esso si inserisce il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che vede il governo italiano investire oltre 200 miliardi di euro in diverse missioni, tra cui la transizione ecologica, la mobilità sostenibile, l’inclusione e coesione e la salute. In collaborazione con l’ISTAT, il governo ha stimato il contributo del PNRR al raggiungimento dell’Agenda 2030: gli investimenti appaiono mirare soprattutto agli SDG 7, 9 e 11, di particolare interesse per le imprese (Grafico 3.2). A queste misure, si è affiancato, già a partire dal 2018 un ambizioso Piano d’Azione sulla Finanza Sostenibile, adottato dalla Commissione europea, (ulteriormente rafforzato nel 2021 con la Nuova Strategia sulla Finanza Sostenibile) che si pone l’obiettivo di accelerare la transizione sostenibile dell’economia reale attraverso il rapporto con le banche e la finanza.
Le istituzioni europee e italiane non hanno mancato di intervenire nella veste di legislatori. Per quanto riguarda in particolare la contabilità, la Non-Financial Reporting Directive (NFRD) 2014/95/EU (recepita in Italia mediante il decreto legislativo 254/16) ha ormai da alcuni anni imposto a una platea di società (sostanzialmente le società quotate e gli intermediari finanziari) l’obbligo di rendicontare anche le informazioni necessarie a far comprendere l’andamento, i risultati e l’impatto della propria attività rispetto agli ambiti ESG. La NFRD è stata recentemente aggiornata dalla Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) 2022/2464/EU, che estenderà l’obbligo di rendicontazione a tutte le grandi imprese (con almeno 250 dipendenti e/o fatturato superiore a 40 milioni di euro e/o totale attivo di stato patrimoniale superiore a 20 milioni di euro) e alle PMI quotate, ampliando anche l’oggetto dell’informativa secondo il principio della doppia materialità.
Le imprese dovranno riferire sia le informazioni necessarie alla comprensione del loro impatto sulle questioni di sostenibilità, sia come i fattori ambientali, sociali, relativi ai diritti umani e di governance influiscono sul proprio andamento e risultati. A tal fine sarà richiesto loro di utilizzare gli appositi European Sustainability Reporting Standard (ESRS), attualmente in corso di approvazione, per garantire maggiore uniformità, completezza, trasparenza e comparabilità delle dichiarazioni non finanziarie.
Peraltro, a integrazione della CSRD, la Commissione europea ha pubblicato una Proposta di Direttiva relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, (Corporate Sustainability Due Diligence Directive - CS3D) il cui iter di approvazione è ancora in corso. La Proposta introduce, a carico di un novero di imprese più ampio (una media di oltre 500 dipendenti e oltre 150 milioni di euro di fatturato oppure una media di oltre 250 dipendenti e oltre 40 milioni di euro di fatturato, a condizione che almeno il 50% di tale fatturato sia stato realizzato nei settori c.d. ad alto impatto), un dovere di diligenza (due diligence) inerente agli impatti negativi su diritti umani e ambiente, generati durante l'intero ciclo di vita della produzione, dell'uso e smaltimento del prodotto o della prestazione del servizio, a livello delle attività proprie delle società, delle controllate e delle catene del valore cui partecipano.
Il processo di attuazione di questo dovere si articola in sei fasi e deve formare anch’esso oggetto di rendicontazione. Al generale dovere di diligenza in capo alle società, viene affiancato uno specifico dovere di sollecitudine degli amministratori (duty of care) che, nell’agire nell’interesse della società, devono tenere conto delle questioni di sostenibilità nelle decisioni che assumo. Viene altresì delineato un sistema di enforcement imperniato sul coinvolgimento di autorità nazionali di controllo incaricate di vigilare sulla corretta attuazione degli obblighi di due diligence e su un regime di responsabilità civile delle società per i danni derivanti dal mancato rispetto dei predetti obblighi.
In sintesi, non potendo in questa sede scendere in ulteriori dettagli, traspare fin dall’aggiornamento di denominazione della direttiva (passata da non-financial reporting a corporate sustainability reporting) la chiara intenzione del legislatore europeo di considerare (e far considerare) la rendicontazione delle dimensioni ambientale, sociale e di governance non più come ancillare, ma pienamente integrata rispetto alla tradizionale rendicontazione della dimensione economica. In altre parole, sarà dovere di tutte le imprese di una certa dimensione dare prova della propria capacità di creazione del valore in tutte e tre le dimensioni della triple bottom line.
In tutto questo, al fine di evitare fenomeni di greenwashing, il Regolamento UE 852/2020 ha introdotto la Tassonomia delle attività ecosostenibili, ossia una classificazione delle attività economiche ritenute idonee a contribuire agli obiettivi climatici e ambientali dell’Unione europea. La Tassonomia è essenzialmente uno strumento di trasparenza: le imprese non sono obbligate a investire in tali attività, ma possono essere obbligate a farne disclosure. L’obbligo riguarda, infatti, tutte le grandi imprese (finanziarie e non finanziarie) già soggette a NFRD (e a partire dal 2024 alla CSRD). In particolare, già a partire dall’esercizio 2023, le imprese non finanziarie devono dichiarare le quote di fatturato e di spese in conto capitale e operative (CapEx, OpEx) associate alle attività economiche classificate come ecosostenibili. Anche le aziende non obbligate sono nondimeno incoraggiate a fare ricorso alla Tassonomia, quale strumento utile per meglio definire le proprie strategie di sostenibilità o attrarre investitori e finanziatori.
Il mondo finanziario va, infatti, maturando una sempre più accentuata sensibilità in merito alle dimensioni Environmental, Social e Governance (ESG) degli investimenti. Se in passato tali aspetti erano valutati esclusivamente da una nicchia di gestori della cosiddetta “finanza etica”, oggi un numero crescente di investitori prende in considerazione, in varia misura, i fattori ESG nelle proprie strategie di investimento, anche per effetto della Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) 2019/2088 che impone a operatori del mercato finanziario obblighi di trasparenza relativamente ai prodotti finanziari collocati presso la clientela. Nelle operazioni di finanza straordinaria, inoltre, sempre più spesso le tradizionali operazioni di due diligence finanziaria sono integrate con due diligence ESG finalizzate ad analizzare l’approccio dell’azienda ai temi di sostenibilità, rilasciando una valutazione espressa in termini di rischio e opportunità.
Dal canto loro, anche le banche sono tenute, in base alle Linee Guida EBA sulla concessione e monitoraggio del credito (entrate in vigore a luglio 2021), a valutare i rischi ESG delle imprese clienti nell’esercizio dell’attività creditizia. Tale valutazione è richiesta alle banche anche dalle Aspettative di vigilanza della Banca Centrale Europea e della Banca d’Italia.
Di anno in anno, le ricerche di mercato confermano come sempre più consumatori mostrino attenzione agli aspetti ambientali e sociali dei prodotti che acquistano, e questa tendenza non sembra venire messa in discussione dalle varie turbolenze economiche innescate da pandemie e guerre. È significativo, ad esempio, che secondo il Rapporto Coop 2022 la prima preoccupazione degli italiani per il futuro è, e rimane, l’emergenza ambientale e la crisi climatica, davanti a inflazione e guerra in Ucraina. Una survey condotta nell’estate 2022 da BCG nelle otto maggiori economie del mondo (Italia compresa) su dodici settori, ha inoltre indagato vari gradi di intensità del legame tra consumo e sostenibilità: sebbene i consumatori disposti a pagare in ogni caso un premio per la sostenibilità non superino il 7%, la percentuale di consumatori che prendono comunque in considerazione la sostenibilità nelle proprie scelte di acquisto si aggira in media intorno al 70%, rivelando come la netta maggioranza dei consumatori globali sia ormai, seppure in varia misura, interessata al tema (Tabella 3.1).
Per le loro dimensioni, le grandi imprese sono quelle più immediatamente sollecitate, sia perché sono destinatarie dirette degli obblighi normativi sopra citati, sia perché sono maggiormente esposte ai riflettori di mercati e consumatori. Sarebbe tuttavia un errore pensare che le sfide della sostenibilità si limitino alle grandi aziende. L’integrazione della CSR nelle strategie d’impresa, infatti, richiede tipicamente un ripensamento delle modalità di gestione della catena di fornitura, travalicando dunque il perimetro aziendale per andare a toccare anche i fornitori. Questo può avvenire in forme di diversa intensità, che vanno dall’introduzione di criteri premianti per i fornitori giudicati “sostenibili”, all’esclusione di fornitori “non sostenibili”, fino all’attivazione di veri e propri audit ESG. In ogni caso, il fornitore deve essere in grado di dimostrare, con la produzione di “numeri” ma anche con la presenza di presidi organizzativi, policy e procedure, che il business è gestito in modo sostenibile.
Spesso le suddette richieste provenienti dai grandi partner industriali, che possono risultare talvolta stringenti, sono supportate da programmi di accompagnamento e coinvolgimento rivolti ai fornitori, che rappresentano così una preziosa occasione, soprattutto per la piccola o media impresa, di essere guidati in un percorso strategico di sviluppo.
Viene, insomma, ormai richiesto a tutte le aziende, anche alle PMI, di dimostrare la capacità di gestire i propri impatti sociali e ambientali e la presenza di buoni sistemi di governo. In questo periodo di grande fermento, invero spesso accompagnato da confusione e impreparazione, è necessario anzitutto mantenere la calma. Di fronte alle richieste pressanti e poco comprensibili di governi, clienti e operatori finanziari, l’azienda può sentirsi spinta a cercare “pacchetti di sostenibilità” preconfezionati e “chiavi in mano”, non pensati per la propria realtà. O, peggio, può cadere nella tentazione di cercare di recuperare il più velocemente possibile il ritardo cumulato lanciandosi in attività ardite di comunicazione potenzialmente dannose se non supportate da azioni concrete (il greenwashing, appunto).
Il modo migliore per procedere è, quindi, avviare un percorso di riflessione strategica volto a definire gli obiettivi di sostenibilità di medio periodo e la strada da percorrere per raggiungerli, partendo dalle proprie vocazioni e specificità e cercando di valorizzare quanto già è stato fatto. Per i valori di bellezza e dolce vita che da sempre le animano, infatti, le imprese del made in Italy dispongono di un indubbio potenziale che attende solo di essere sviluppato.
In concreto, come può un’impresa adottare un approccio sostenibile al business? Sarebbe ideale implementare un percorso strutturato sulle tappe di pianificazione, azione, monitoraggio, rendicontazione e comunicazione (Grafico 3.3).
Partendo dall’esistente, l’impresa è chiamata a fare emergere le proprie eccellenze nonché criticità e aree di miglioramento, tarando la riflessione sulla propria specifica realtà e in considerazione del settore di riferimento. Ne derivano l’identificazione degli aspetti rilevanti (in gergo “materiali”) per l’impresa, e le priorità strategiche su cui esplicitare un piano di miglioramento di medio periodo, definendo gli obbiettivi e il piano d’azione necessario a raggiungerli.
Sono molteplici le iniziative di sostenibilità che un’impresa può attivare, sia ex novo sia potenziando l’esistente, ma non sarebbe certo realistico aspettarsi che un’impresa le metta tutte in campo: la scelta dipende proprio dalla riflessione strategica citata prima. In ogni caso, è bene associare a ciascuna azione uno o più indicatori e il relativo sistema di monitoraggio, per potere avere contezza, nel tempo, dell’effettivo stato di avanzamento e miglioramento.
Si riportano di seguito, senza pretesa di esaustività, alcuni esempi di buone pratiche di sostenibilità aziendale nelle dimensioni ambientale, sociale e di governance, implementabili da qualunque impresa. Nel focus settoriale in calce si illustrano, a integrazione, alcuni esempi specifici delle imprese operanti nei settori Alimentare, Arredamento, Moda e Nautica.
La decarbonizzazione appare quanto mai urgente e necessaria, anzitutto adottando soluzioni di efficientamento energetico e/o di approvvigionamento da fonti rinnovabili. Sempre al fine di ridurre le emissioni si può apportare un contributo significativo sia intervenendo sulla logistica (ottimizzazione di carichi e spostamenti, ammodernamento delle flotte), sia incentivando la mobilità sostenibile dei propri collaboratori. Si può poi puntare a modelli di produzione e consumo responsabili ottimizzando i consumi di materie prime e riducendo i rifiuti prodotti, e promuovendo forme di riciclo all’interno delle proprie operazioni e/o nei riguardi dei consumatori. Non meno importante, d’altronde, è l’uso efficiente delle risorse idriche e la corretta gestione degli scarichi fognari. Senza dimenticare, infine, la tutela della biodiversità sia terrestre che marina.
I collaboratori costituiscono una delle più importanti risorse di cui dispone qualsiasi impresa. Oltre ovviamente a garantire le condizioni minime di salute e sicurezza, un’azienda può notevolmente migliorare il benessere psicofisico dei lavoratori mediante forme di flessibilità oraria, lavoro agile, contributi e convenzioni (sanitarie, sportive ecc.). Un ambiente di lavoro sano e accogliente richiede, d’altronde, politiche e pratiche di diversità e inclusione, e un’attenzione costante all’equilibrio vita-lavoro. I dipendenti possono essere coinvolti anche nelle iniziative promosse nei confronti della comunità, promuovendo forme di volontariato aziendale in aggiunta a donazioni e collaborazioni con enti locali e del terzo settore.
La sostenibilità dovrebbe caratterizzare anche la stessa governance di un’impresa, secondo un grado di complessità adeguato alle dimensioni aziendali. È buona pratica dotarsi di un Modello 231 al fine di ridurre il rischio di commissione di illeciti, implementando un Organismo di Vigilanza e adottando un Codice Etico. La mappatura dei rischi andrebbe estesa anche alla sfera ESG, con particolare riguardo ai rapporti con i fornitori e, quindi, alla loro selezione secondo criteri ambientali e sociali. Per meglio presidiare la responsabilità sociale d’impresa sarebbe, infine, opportuno istituire un Comitato sostenibilità e/o un CSR manager.
Con cadenza annuale, e in particolare al termine del periodo considerato da una pianificazione strategica, è opportuno rendicontare gli indicatori e i risultati raggiunti nelle proprie performance di sostenibilità. D’altronde, come si è detto, ciò è già richiesto dalla normativa alle grandi imprese, ma anche le PMI sono incoraggiate a fare altrettanto, proporzionalmente alle proprie caratteristiche dimensionali (per esse è in corso di elaborazione una versione semplificata degli European Sustainability Reporting Standard). Proprio nella percezione delle PMI italiane si è infatti visto che questo può suscitare l’interesse di svariate categorie di stakeholder, soprattutto di clienti industriali e consumatori finali, dipendenti, investitori e finanziatori, nonché analisti e agenzie di rating (Grafico 3.4). I benefici percepiti riguarderebbero in particolare il miglioramento della brand reputation, come pure dei processi interni, della gestione dei rischi e della relazione con gli stakeholder (Grafico 3.5).
Al di là delle percezioni e delle dimensioni, la rendicontazione potrà essere il punto di partenza di nuove riflessioni strategiche e nuovi percorsi di miglioramento, nella consapevolezza che la sostenibilità richiede alle imprese di intraprendere un viaggio continuo.
ALIMENTARE
LEGNO E ARREDO
MODA
NAUTICA
I paesi ASEAN, pur rimanendo ancora una destinazione poco esplorata per il made in Italy (con un peso dell’1,5% sul totale dei beni esportati dall’Italia), hanno mostrato grande dinamicità nel decennio pre-Covid: tra il 2010 e il 2019 le esportazioni italiane verso tali paesi sono cresciute a un tasso medio annuo del 7%, ben superiore alla crescita registrata dall’export complessivo (+4% nello stesso periodo; Grafico 4.1A). La caduta del 2020 è stata particolarmente intensa per le vendite verso questi mercati (-15,4%) e il rimbalzo ha recuperato solo parzialmente l’anno successivo (+8,9%). Il superamento dei livelli pre-pandemici è avvenuto solo nel 2022, anno in cui l’export italiano verso gli ASEAN si è attestato a 9,3 miliardi di euro.
I beni del “bello e ben fatto” (BBF) hanno registrato, nel periodo 2010-2019, un aumento del 7,2% per i paesi ASEAN contro il +5,3% verso il mondo. Mentre a livello globale le esportazioni di BBF hanno segnato un calo solo leggermente superiore rispetto a quello dell’export di beni nel suo complesso (-9,6%) nel 2020, l’impatto della crisi sanitaria è stato particolarmente significativo sulle vendite di BBF verso i paesi considerati (-24,9%); quanto “perso” è stato tuttavia ampiamente recuperato grazie ai forti incrementi del biennio successivo (+32,2% in media all’anno tra 2021 e 2022; Grafico 4.1B), che hanno portato nel 2022 l’export di BBF a 1,6 miliardi di euro.
Quasi un quarto delle esportazioni di BBF verso i dieci paesi ASEAN è costituito dal settore Alimentare e bevande, particolarmente rilevanti le vendite di vino, cioccolatini e creme spalmabili, pasta e prodotti da forno; seguono per importanza gli articoli di Gioielleria-oreficeria e Pelletteria. Tra il 2010 e il 2022 si è osservato un aumento dell’incidenza di Alimentare e bevande, Pelletteria e – in misura minore – Abbigliamento e tessile casa e Gioielleria-oreficeria; mentre nello stesso periodo è diminuita sensibilmente quella di Veicoli a motore e Occhialeria (Tabella 4.1). La dinamica di Legno e arredo è invece differente: lo scorso anno si è verificata una riduzione del peso del comparto sull’export complessivo di BBF (+11,5% contro il +41% del totale). Il dato non implica un trend di riduzione della domanda di arredo, ma riflette più probabilmente fattori episodici legati agli eventi dello scorso anno.
Come mercati, non sorprende che Singapore sia rimasta la prima destinazione per i beni del BBF durante il periodo considerato; la città-stato, oltre a ospitare una delle popolazioni più abbienti al mondo con un’elevata capacità di spesa e gusti internazionali, rappresenta un importante hub attraverso cui le merci raggiungono l’area asiatica, grazie sia alla ri-esportazione sia alla spesa dei turisti che visitano il paese, in particolare dalla Cina. Di rilievo i comparti Alimentare e bevande, Pelletteria e Chimica, farmaceutica e cosmetica che nel 2022 hanno rappresentato oltre la metà dei beni del bello e ben fatto venduti a Singapore; considerevoli anche Gioielleria-oreficeria, Abbigliamento e tessile casa e Legno e arredo. Rispetto al 2010, tuttavia, il peso del paese per l’export di BBF è andato diminuendo in favore di destinazioni in rapida crescita, in primis Malesia e Thailandia (Grafico 4.2).
La crescita dell’export verso la Malesia – paese caratterizzato da un’ampia classe media con livelli di reddito disponibile relativamente elevati – è stata guidata dalla Gioielleria-oreficeria (+46%, in media, tra il 2010 e il 2022), comparto che da solo pesa per oltre un terzo delle vendite di BBF nel paese. La Thailandia, che conta su un settore turistico particolarmente sviluppato, redditi in aumento e un sempre maggiore livello di urbanizzazione, lo scorso anno ha importato beni BBF per un valore pari a 336 milioni di euro, principalmente nei comparti Pelletteria, Alimentare e bevande e Gioielleria-oreficeria.
Si riduce, invece, l’incidenza del Vietnam, che negli ultimi tredici anni ha segnato un tasso di crescita inferiore a quello dell’area. Ciò, tuttavia, sottende una dinamica polarizzata dei comparti; durante il periodo considerato, i Veicoli a motore, principalmente motocicli, sono passati dall’essere la prima voce di export a diminuire fino a pesare circa il 2%, con un tasso di crescita medio annuo pari a -32% (dinamica che potrebbe trovare una parziale giustificazione in quanto riportato nella Nota 1, essendo proprio il Vietnam tra le principali destinazioni degli investimenti produttivi italiani nel settore). Al contempo, gli altri segmenti del BBF hanno segnato aumenti significativi, specie per settori oggi particolarmente importanti quali Alimentare e bevande, Pelletteria e Chimica, farmaceutica e cosmetica: non considerando il comparto dei Veicoli a motore, infatti, il tasso di crescita medio dei beni BBF verso il Vietnam è pari al +14,6% tra il 2010 e il 2022. Rimane stabile poco al di sotto della doppia cifra la quota delle Filippine come destinazione dei beni BBF tra i paesi ASEAN.
In termini prospettici, mentre Singapore – mercato ormai consolidato – continuerà certamente a rappresentare una destinazione di riferimento nell’area, le potenzialità di crescita di altre economie potranno guidare le vendite del bello e ben fatto. La capitale del Vietnam, Hanoi, mostra ad esempio ancora significative opportunità per i beni del lusso made in Italy: il paese è uno dei mercati in più rapida crescita dell’Asia emergente, con ottime prospettive per i marchi high end grazie a livelli di reddito in forte aumento, come evidenziano le previsioni di crescita del PIL pro-capite nel prossimo quinquennio (Grafico 4.3). Pur non essendo, ad oggi, tra le prime destinazioni per i beni BBF, l’Indonesia mostra alcune caratteristiche di potenziale interesse: il paese conta una delle più vaste popolazioni al mondo, con un’elevata incidenza di giovani adulti (la fascia di popolazione tra i 20 e i 39 anni costituisce quasi il 31% del totale) e un numero di famiglie appartenenti alla classe media previsto in rapido aumento; si evidenziano prospettive particolarmente positive in questo senso per arredi e beni per la casa.
Anche il mercato thailandese continuerà a rappresentare un traino per i beni italiani, non solo nel lungo termine grazie a redditi e livelli di urbanizzazione in aumento, ma anche nel breve grazie alle riaperture al turismo internazionale, anche di lusso. Questo mercato tende, infatti, a essere caratterizzato da consumatori locali sensibili al prezzo e a orientarsi, quindi, sul turismo per il consumo di articoli di fascia alta.
A elevato potenziale anche il mercato malesiano, altamente urbanizzato e che nei prossimi anni vedrà aumentare la spesa per intrattenimento e tempo libero, specie per ristoranti, hotel e attività ricreative e culturali. Occorrerà con ogni probabilità più tempo per la Cambogia, che nonostante un PIL pro-capite previsto in ampia crescita nei prossimi anni e una richiesta di beni BBF aumentata a ritmi sostenuti, rimane ancora un mercato molto piccolo e con un potere d’acquisto contenuto (lo scorso anno contava 15 milioni di abitanti e un PIL pro-capite pari a circa 1.800 dollari).
La dinamicità delle economie dei paesi ASEAN, che nel decennio pre-Covid sono cresciute a un ritmo decisamente superiore rispetto all’economia mondiale (in media del 5,5% l’anno contro il 3,4%, performance confermata anche nel 2022), ha permesso una rapida espansione delle vendite di BBF. Se si escludono le economie che si trovano in uno stadio di sviluppo ancora poco avanzato (Cambogia, Laos e Myanmar) o con una base di consumatori estremamente ridotta (come il Brunei, paese con una popolazione inferiore a 500.000 abitanti), è lecito attendersi che la crescita della domanda di BBF da parte degli ASEAN continui sostenuta nei prossimi anni, considerata anche la centralità del Sud-Est asiatico nelle strategie di diversificazione delle imprese internazionali che stanno progressivamente puntando non più solo sulla Cina.
Al netto di questa premessa, il resto del paragrafo individua, senza la pretesa di essere esaustivo, alcune specifiche opportunità geografiche e settoriali per il BBF.
Il primato di Singapore per l’export italiano di BBF nei paesi ASEAN (quasi 562 milioni di euro di beni venduti nel 2022, in crescita del 34% rispetto all’anno precedente) è stato raggiunto soprattutto grazie alla domanda di beni di lusso, favorita dai redditi elevati dei cittadini singaporiani (quasi 80.000 dollari nel 2022 in termini nominali), dalla creazione, nel 2010, del Singapore Freeport (una facility duty free a elevata sicurezza utilizzata per l’importazione e il deposito di beni di lusso quali gioielli, metalli preziosi, diamanti, opere d’arte, vini, sigari e auto d’epoca) e dal crescente ruolo della città-stato quale centro asiatico per lo shopping di prodotti di pregio, che sta stimolando un aumento degli investimenti da parte di alcuni dei più importanti premium brand del settore.
Il mercato dei beni di lusso di Singapore continuerà a crescere a tassi sostenuti, con un ritmo previsto di circa il +5% l’anno nei prossimi sei anni. Questa performance positiva sarà facilitata dal contributo importante dell’e-commerce. Durante la pandemia, infatti, è diventato evidente lo svantaggio di un modello di business basato esclusivamente su punti vendita fisici e la maggior parte delle aziende ha iniziato a sviluppare parallelamente canali di vendita digitali. Questo nuovo approccio sta funzionando molto bene nel paese, che presenta oggi uno dei tassi di penetrazione di internet più alti al mondo. Altro importante driver della domanda di BBF sono gli acquisti da parte dei turisti: quelli che scelgono come meta Singapore appartengono, solitamente, a una fascia di reddito medio-alta e dedicano una parte del viaggio allo shopping di lusso (in particolare quelli dei paesi limitrofi, dove risulta più difficile l’acquisto di alcuni prodotti). I flussi di turisti in entrata nel paese sono previsti in forte crescita nel 2023 rispetto al 2022 (circa 12 milioni di ingressi, +100%), anche se ancora lontani dai livelli del 2019 (19 milioni), che dovrebbero essere nuovamente raggiunti a partire dal 2024.
In termini di composizione settoriale dell’export di BBF nel paese, le vendite italiane sono dominate dai prodotti del settore Alimentare e bevande (22% del totale), tra i quali spiccano, in particolare, il vino e altre tipologie di alcolici, seguito da Pelletteria (15%), grazie all’apprezzamento per le borse made in Italy, Chimica, farmaceutica e cosmetica (14%, in particolare profumi e prodotti per la cura della persona) e Gioielleria-oreficeria, con il 13% (Grafico 4.4).
Il mercato del Food & Beverage (F&B) vietnamita è tra i più interessanti dell’intero panorama asiatico. Il paese ha, infatti, una popolazione di circa 100 milioni di abitanti, è ancora nel pieno del processo di urbanizzazione (nel decennio 2012-21 la popolazione cittadina è passata da circa il 30% a poco meno del 40%) e con redditi in rapido aumento (nel decennio 2012-21 il reddito pro-capite reale è cresciuto a una media del 5% l’anno), seppure ancora piuttosto contenuti relativamente al resto dei principali paesi ASEAN. Lungo l’orizzonte temporale 2023-27 sia la spesa alimentare che quella destinata alle bevande è prevista in crescita a un tasso annuo superiore al 10%.
Le crescenti opportunità in questo mercato si riflettono nella dinamica dell’export italiano: le vendite di prodotti del settore Alimentare e bevande rappresentano quasi un terzo di quelle del BBF in Vietnam e sono aumentate a un tasso medio annuo superiore al 20% nel decennio 2013-22, passando da poco più di 9 milioni di euro a circa 50. Quasi la metà del valore esportato nel paese in questo settore è rappresentato dal vino, seguito da pasta (8%), prodotti da forno (4%), succhi di frutta (3%) e formaggi, con una quota del 2% (Grafico 4.5).
Nonostante la notevole crescita dell’export negli ultimi anni, la quota di mercato italiana in Vietnam nel settore Alimentare e bevande rimane ancora contenuta a circa l’1% nel 2021. Questo dato rispecchia una generale difficoltà di penetrazione del mercato del F&B vietnamita da parte delle imprese europee; in questo ambito l’Italia è, infatti, seconda solo alla Francia, che ha una quota di mercato pari all’1,3%. Le ragioni di queste difficoltà sono riconducibili a due elementi: la presenza di una forte cultura circa la preparazione e il consumo di cibo e bevande e l’elevata sensibilità al prezzo dei beni da parte dei consumatori vietnamiti. Alcuni prodotti italiani incontrano la concorrenza di beni succedanei – forse l’esempio più immediato è quello dei noodle rispetto alla pasta – mentre il mercato delle bevande alcoliche è dominato dalla birra, di cui il paese è tra i principali consumatori mondiali.
La scarsa penetrazione e alcune, nuove, dinamiche culturali rendono, però, questo mercato un’opportunità per gli esportatori di F&B. Il consumo di vino è, infatti, in generale aumento e, al momento, la quasi totalità della domanda nazionale è soddisfatta attraverso le importazioni. Essendo richiesto soprattutto dal canale HO.RE.CA, la crescita dei flussi turistici nel paese rappresenta un ulteriore driver della domanda di vino nei prossimi anni. Anche la maggiore attenzione a uno stile di vita sano da parte delle nuove generazioni vietnamite può stimolare la domanda di alcuni prodotti made in Italy come, ad esempio, l’olio di oliva, riconosciuto come più salutare rispetto agli altri olii vegetali. Non vanno dimenticati, infine, i benefici per il settore Alimentare e bevande derivanti dall’Accordo di libero scambio con l’UE in vigore dal 2020, che ha abbattuto gli altrimenti elevati dazi sui prodotti importati (questi raggiungevano anche il 50% nel caso del vino) e ha permesso il corretto riconoscimento e la tutela di ben 38 indicazioni geografiche tipiche italiane.
Rimaste pressoché stabili nei cinque anni precedenti la pandemia, le esportazioni italiane di prodotti del settore Gioielleria-oreficeria in Malesia sono cresciute a un ritmo record nel triennio 2020-22, senza subire in alcun modo gli effetti del Covid. Appena superiori a 20 milioni di euro nel 2019, le vendite sono aumentate di oltre quattro volte nel 2022, risultando pari a oltre 90 milioni di euro.
La crescita del mercato dei gioielli nel Paese può essere ricondotta a quella della domanda da parte di due classi di consumatori: la quota – in aumento negli anni – di popolazione benestante, molto reattiva alle pressioni di tipo sociale e desiderosa di evidenziare il proprio status attraverso il possesso di beni di lusso di marca; e i turisti in visita nella penisola di Malacca, che dedicano parte del loro viaggio agli acquisti nei numerosi outlet di grandi marchi internazionali presenti nel paese, che hanno spesso incluso la Malesia tra i mercati di lancio dei loro nuovi prodotti. Secondo le statistiche ufficiali governative, lo shopping ha rappresentato oltre il 50% della spesa dei turisti nel paese nel 2021, contro meno del 6% di quella destinata agli alloggi. Inoltre, i prodotti del settore godono di un trattamento fiscale particolarmente vantaggioso, sia dal punto di vista doganale, con imposte ad valorem pari a zero, che per quanto riguarda l’imposta sul valore aggiunto, azzerata nel 2018.
In termini di posizionamento competitivo, l’Italia è riuscita a ritagliarsi una quota di mercato nel settore Gioielleria-oreficeria in Malesia non indifferente, pari al 12% nel 2021 e inferiore solamente a quella di India (16%), Hong Kong, Singapore ed Emirati Arabi Uniti, tutti con un market share del 13% (Grafico 4.6).
La Thailandia è uno dei mercati di sbocco del BBF più interessanti tra quelli ASEAN: come già illustrato nel Grafico 4.2, nel 2022 il paese si è posizionato dietro Singapore con una quota di mercato pari al 21%. L’interesse verso i prodotti del BBF è principalmente rivolto al settore Alimentare e bevande (22% del totale) e alla moda italiana, ossia Pelletteria (23%), Gioielleria-oreficeria (17%) e Abbigliamento e tessile casa (9%).
In particolare, quello della Pelletteria rappresenta un mercato a elevato potenziale, dati i forti margini di crescita osservati nel corso degli anni. Nel decennio 2010-19, infatti, le esportazioni italiane sono passate da poco più di 5 milioni di euro a quasi 39, una crescita media annua del 24,5%. Lo scoppio della pandemia nel 2020 ha interrotto questo trend positivo e nel 2021 le vendite hanno faticato a tornare ai livelli pre-Covid, complice la lenta riapertura dei confini della Thailandia e la mancata ripresa a pieno ritmo dei flussi turistici. Tuttavia, il boom di domanda per gli articoli in pelle registrato nel 2022 (+128% rispetto all’anno precedente, per un valore delle vendite di quasi 77 milioni di euro) sembra aver cancellato rapidamente gli effetti della crisi, portando la domanda thailandese ai massimi storici.
Gli articoli in pelle più apprezzati dai consumatori del “paese del sorriso” sono le borse: l’espansione dell’industria della moda e la crescita del ceto medio hanno determinato una sempre maggiore ricerca di prodotti di qualità, così come l’affermarsi del fashion statement ha accresciuto l’attenzione rivolta ai migliori brand del settore. L’Italia è riuscita a ritagliarsi uno spazio importante in Thailandia nell’export di prodotti della Pelletteria, raggiungendo una quota di mercato del 7% (dietro a Cina, 56%, e Francia, 12%) nonostante i dazi elevati, pari in media al 20%, che incidono notevolmente sul prezzo finale del bene. Tra le diverse strategie di accesso al mercato thailandese delle imprese italiane del settore, si sottolinea l’importanza dei canali digitali, in forte crescita nell’ultimo triennio: in questo contesto assume particolare rilevanza l’accordo siglato nel 2021 tra l’Istituto per il Commercio Estero (ICE) e Lazada, uno dei principali player di e-commerce nel paese che già prima della pandemia registrava oltre 45 milioni di accessi mensili, sia in termini di volumi di vendita che di fatturato.
L’accesso ai mercati ASEAN da parte delle imprese italiane trova spesso ostacoli nelle barriere tariffarie, sotto forma di imposte ad valorem che fanno aumentare il prezzo dei beni importati e commercializzati in queste nazioni. Questo è particolarmente vero per i prodotti del BBF, soggetti a dazi solitamente superiori alla media dei prodotti importati dai paesi ASEAN (Grafico 4.7).
Circoscrivendo l’analisi alle nazioni di maggior interesse per le aziende italiane, il BBF incontra dazi medi ponderati (per la composizione dell’export) pari al 10,1% nelle Filippine, al 19,1% in Indonesia e al 17,1% in Thailandia, un valore pari a quasi due volte e mezzo quello calcolato per l’intero export. Fa eccezione la Malesia, con un dazio medio per il BBF pari solo al 2,7%, addirittura inferiore a quello complessivo.
Per i singoli settori del BBF, il livello più alto dei dazi è rilevato in Veicoli a motore (composto prevalentemente da motocicli), soggetto a un’aliquota pari addirittura al 48% in Thailandia, al 28% nelle Filippine e al 23,5% in Indonesia (Grafico 4.8). Essendo una delle principali finalità dei dazi quella di proteggere le imprese domestiche dalla concorrenza estera, questo dato non sorprende data l’importanza del settore in queste nazioni, specialmente in Thailandia, che ha un’industria motociclistica rilevante. Il Grafico 4.8 evidenzia la presenza di dazi generalmente elevati anche negli altri settori del BBF, in particolare Ceramica (20% in media nelle quattro nazioni riportate), Vetro (18,5%), Alimentare e bevande e Calzature (17%) e Abbigliamento e tessile casa (16%). L’aspetto tariffario può avere rilevanza non secondaria, soprattutto in mercati emergenti caratterizzati da redditi medi ancora relativamente bassi, a eccezione di Singapore, e per beni di consumo non essenziali (esclusi quelli di lusso), la cui domanda presenta una maggiore sensibilità alle variazioni di prezzo.
Le barriere di tipo tariffario, sebbene rappresentino una distorsione della concorrenza a favore della produzione domestica, sono di facile individuazione. L’esportazione e la commercializzazione di prodotti in mercati esteri possono, tuttavia, incontrare un’altra serie di ostacoli, nella forma di misure non tariffarie (NTM) che regolano le importazioni di un certo paese. Malgrado la connotazione di queste misure non sia necessariamente negativa (alcune sono pensate, infatti, per la salvaguardia del consumatore), il rispetto di queste disposizioni da parte delle imprese esportatrici spesso comporta costi non indifferenti, legati sia alla fase di acquisizione di tutte le informazioni rilevanti, sia al rispetto delle stesse (ad esempio, costi legati all’ispezione e al test dei prodotti, all’ottenimento di certificati e licenze, come pure i potenziali investimenti in beni capitali per conformare un certo bene agli standard richiesti). La Tabella 4.2 riporta un primo livello di segmentazione di queste barriere, con la loro incidenza relativa sul totale delle NTM adottate dai paesi ASEAN.
Diversamente dalle misure tariffarie, in calo nel corso degli anni, quelle non tariffarie mostrano un generale incremento nei paesi ASEAN. Utilizzando l’ultima ricognizione disponibile per i mercati del Sud-Est asiatico, risalente al 2018, il numero complessivo di NTM è infatti aumentato del 15% dal 2015, mentre è rimasta relativamente stabile la loro composizione, dominata dalle barriere tecniche al commercio e, in seconda istanza, dalle misure di tipo sanitario e fitosanitario. Il settore Alimentare e bevande, che rappresenta il 25% dell’export di BBF nei paesi ASEAN nel 2022, è quello maggiormente colpito: il 26% delle disposizioni in vigore nel 2018 riguardavano, infatti, i prodotti vegetali, il 22% quelli animali e il 13% gli altri alimenti (Tabella 4.3).
La Thailandia ha il maggior numero di NTM, che nel 2018 rappresentavano oltre un terzo di quelle in vigore nei mercati ASEAN, seguita da Filippine, Indonesia e Malesia (Tabella 4.4). Se rapportate ai valori importati, le NTM interessano oltre l’80% dei beni acquistati da Cambogia, Laos, Myanmar, Filippine e Vietnam, mentre in Malesia e Singapore le misure si concentrano nei prodotti a elevata intensità commerciale, come quelli con una profonda partecipazione nelle catene globali del valore (come Meccanica, Macchine elettriche, Trasporti).
L’esistenza di queste misure può rendere più difficile l’esportazione di prodotti italiani nei mercati ASEAN a vantaggio dei player regionali, che beneficiano dell’esistenza di accordi commerciali bilaterali, rafforzati a loro volta dall’entrata in vigore, tra il 2022 e i primi mesi del 2023, del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). In quest’ottica, assumono particolare valore gli accordi siglati tra l’UE e le economie asiatiche, come Corea del Sud, Singapore e Vietnam.
Un’ultima considerazione sui possibili ostacoli alla vendita del BBF nei mercati ASEAN riguarda la concorrenza incontrata dai produttori italiani, sia da parte degli esportatori regionali che internazionali. A questo proposito si è calcolato un indice di similarità delle esportazioni (ESI) delle principali economie manifatturiere, asiatiche e mondiali, nei paesi ASEAN, evidenziando anche il contributo del BBF (Tabella 4.5). Mentre c’è una significativa sovrapposizione tra le vendite complessive italiane e quelle di alcuni importanti competitor – specialmente Germania, con un indice pari a 43,3, Regno Unito (36,7), Paesi Bassi (35,8), Stati Uniti (34,9), Cina (34,5), Spagna (34,3) e Giappone (33,3) – il valore generalmente contenuto del contributo del BBF evidenzia l’unicità dei beni finali di consumo italiani che rientrano in questo aggregato.
Da questo punto di vista, il BBF rappresenta la massima espressione del made in Italy, con caratteristiche qualitative difficilmente comparabili. I paesi in cui l’aggregato BBF contribuisce maggiormente a definire la sovrapposizione con il paniere di beni esportati complessivamente dall’Italia sono la Francia (24,1%, ossia 8 punti dei 33,2 totali) e la Spagna (15,9%): nel primo caso, tale contributo è principalmente riconducibile ai settori Gioielleria-oreficeria per il 22%, Pelletteria (20%), Alimentare e bevande (16%), Chimica, farmaceutica e cosmetica (13%) e Abbigliamento e tessile casa (11%), mentre, nel secondo, ad Alimentare e bevande (28%), Chimica, farmaceutica e cosmetica (19%), Pelletteria (18%) e Abbigliamento e tessile casa (14%). In generale, i prodotti italiani incontrano una concorrenza meno forte da parte dei player asiatici rispetto a quelli occidentali, sia relativamente all’export totale che per quanto concerne il sottoinsieme BBF, elemento che mitiga lo svantaggio competitivo derivante dalla maggiore integrazione commerciale tra i paesi della regione.
Quali sono i punti di forza (es. tratti distintivi del prodotto, strategie aziendali, principi e valori, etc.) che hanno reso la vostra azienda un’eccellenza del made in Italy nel mondo, determinandone il successo sui mercati internazionali?
Siamo sempre stati esportatori: già nel 1913 Ezechiello Levoni vinceva la medaglia d’oro per il salame ungherese all’esposizione internazionale di Londra. Inizialmente le esportazioni dei nostri salumi hanno seguito gli italiani all’estero, per primi hanno aperto gastronomie e salumerie. Anche nei mercati esteri siamo rimasti fedeli ai nostri valori: salumi di alta qualità, carne suina 100% italiana, ingredienti selezionati, lavorazioni tradizionali, filiera controllata, ma soprattutto il fascino di un’azienda in mano alla stessa famiglia da oltre un secolo, con i titolari in prima linea. I prodotti tutelati DOP e IGP sono sempre stati i primi ad aprire i mercati grazie al sostegno del sistema diplomatico italiano, alla promozione di ICE nei paesi esteri, in collaborazione con IVSI (Istituto Valorizzazione Salumi Italiani). Per i paesi al di fuori dell’UE, è stata fondamentale l’azione della nostra associazione di categoria ASSICA, di Federalimentare e dei Ministeri, principalmente Esteri, Sviluppo Economico, Salute e Agricoltura.
In quale mercato avete riscontrato maggiore soddisfazione per l’internazionalizzazione della vostra impresa? Qual è stato il percorso che ha portato a poter consolidare la presenza in quel mercato?
Il nostro principale mercato fuori dalla UE è quello degli Stati Uniti. Dagli anni Novanta esportiamo negli USA dapprima tramite importatori a New York, San Francisco, Chicago e Miami e poi, con l’apertura delle esportazioni anche dei salami, dal maggio del 2013 abbiamo iniziato a pensare alla crescita. Con questo obiettivo, nel 2014 abbiamo aperto la nostra filiale Levoni America Corp in Connecticut, che è cresciuta dall’uno ai dieci milioni di dollari di quest’anno. Nel 2024 vedrà la luce in New Jersey il primo stabilimento USA di Levoni dedicato all’affettamento e confezionamento dei nostri salumi prodotti in Italia. La vera internazionalizzazione non si fa solo esportando i prodotti ma portando oltreoceano il saper fare Italiano. I nostri ingegneri, i responsabili dei sistemi informativi, gli esperti del controllo qualità, della produzione e del packaging, confrontandosi quotidianamente con i colleghi americani e viaggiando per seguire i progetti in loco, fanno un vero salto di qualità, un cambio di paradigma e di mentalità.
L’export italiano resiste nonostante la pluralità di crisi susseguitesi negli ultimi anni (pandemia, crisi energetica, inflazione, squilibri geoeconomici, etc). Come sono state riadattate le strategie di internazionalizzazione alla luce di questi importanti cambiamenti?
L’Industria alimentare e delle bevande nazionale, sia nel pieno della crisi pandemica che nella lunga fase di incertezza e squilibro innescata dall’invasione russa dell’Ucraina, nonostante le difficoltà operative, logistiche, di approvvigionamento e l’impennata delle commodity, ha continuato a produrre per il mercato interno e l’export senza mai abbassare gli altissimi standard che fanno del made in Italy alimentare un vanto e un pilastro dell’economia nazionale. L’impegno delle nostre aziende per crescere e internazionalizzarsi non conosce battute d’arresto e si è adattato al difficile quadro internazionale ricorrendo a nuovi canali (commercio online, fiere virtuali, business matching da remoto) e rafforzando la presenza in mercati storici, ma al tempo stesso cercandone di alternativi. Sul fronte dell’offerta, abbiamo continuato ad ampliare le gamme e innovare prodotti per rispondere all’affermazione di trend di consumo sempre più attenti all’autenticità, a un regime alimentare equilibrato e vario e alla sostenibilità, nel rispetto della nostra grande tradizione alimentare.
Guardando al futuro, in quali ambiti strategici ritiene che l’Italia e le imprese italiane debbano investire maggiormente per essere ancor più competitive all’estero?
Saldi nei valori di sicurezza e qualità che fanno la storia del nostro know-how, dobbiamo cogliere la sfida globale dello sviluppo sostenibile in linea con gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 nella sua dimensione sociale, ambientale ed economica e farne sempre più un elemento di competitività delle nostre produzioni. Parallelamente, va proseguita la battaglia contro le etichettature semaforiche che discriminano i nostri prodotti di punta, difendendo il modello alimentare italiano ispirato alla Dieta Mediterranea dai tentativi di omologazione in atto a livello globale. Circa gli strumenti per crescere nell’export, si conferma il ruolo cruciale degli accordi di libero scambio e delle intese bilaterali per superare le barriere soprattutto non tariffarie e tutelare le nostre eccellenze dalle imitazioni, così come è fondamentale portare avanti le attività promozionali e di comunicazione mirate sui mercati e nelle fiere strategiche, per crescere nelle grandi catene retail e horeca oltre confine, aiutando i consumatori a distinguere l’autentico made in Italy dall’Italian sounding. Non da ultimo, dobbiamo favorire l’internazionalizzazione, in particolare delle PMI, aiutandole a crescere per cogliere il grande potenziale ancora inespresso del nostro export e rispondere alla voglia di mangiare italiano diffusa in tutto il mondo.
Quali sono i punti di forza (es. tratti distintivi del prodotto, strategie aziendali, principi e valori, etc.) che hanno reso la vostra azienda un’eccellenza del made in Italy nel mondo, determinandone il successo sui mercati internazionali?
Slamp è stata fondata nel 1994 sulla base di un’intuizione che ha messo in equilibrio estetica e arte con tecniche di produzione sostenibili. Sostenibili poiché basate sulla lavorazione a freddo di un materiale con un impatto ambientale di quattro volte inferiore a quello del vetro, ampiamente usato nel segmento dell’illuminazione decorativa. Quando parlo di lavorazione a freddo mi riferisco non solo alle fasi di taglio dei tecnopolimeri, ma soprattutto all’assemblaggio, che copre circa il 90% della nostra produzione. Il fatto che le lampade Slamp siano allestite a mano le rende uniche, poiché realizzate tramite un sistema di incastri e piegature effettuato da operatrici specializzate. In questa veloce introduzione ho evidenziato almeno tre o quattro dei nostri valori distintivi: unicità, sartorialità, sostenibilità e fluidità. Valori che ci vengono riconosciuti sullo scenario internazionale, senza limitazioni geografiche dall’America all’Asia e che portano molti designer e architetti a scegliere la nostra manifattura per dare forma e sostanza alle loro idee creative.
In quale mercato avete riscontrato maggiore soddisfazione per l’internazionalizzazione della vostra impresa? Qual è stato il percorso che ha portato a poter consolidare la presenza in quel mercato?
Nei primi 20 anni d’impresa i grandi risultati sono arrivati dal mercato europeo, presso il quale la sensibilità al mondo del design e dell’arte affonda radici in millenarie stratificazioni culturali. Non è stato solo questo a determinare il successo del mercato “vicino”, sicuramente la prossimità geografica e la velocità di connessione sono stati decisivi in un’epoca in cui non esisteva internet e i viaggi aerei intercontinentali erano appannaggio di pochi. La sdrammatizzazione valoriale arrivata negli anni Duemila, nonostante abbia introdotto nel mercato molti player prima confinati nelle loro aree geografiche, di contro ha permesso alle aziende virtuose di iniziare a raccontare le loro storie anche a migliaia di km di distanza. Per noi sono arrivati prima gli Stati Uniti circa dodici anni fa e negli ultimi cinque/sei anni la Cina e il Medio Oriente. È proprio grazie a questi mercati che oggi stiamo crescendo e contrastando un freno economico che investe l’Europa. Devo anche dire che l’evoluzione culturale avvenuta in Cina e nel Golfo negli ultimi anni sta creando una sempre più diffusa sensibilità verso il “bello e ben fatto” Italiano: la popolazione cerca di accreditarsi attraverso l’acquisto di prodotti autentici, griffati e di cui conosce e riconosce il valore manifatturiero.
L’export italiano resiste nonostante la pluralità di crisi susseguitesi negli ultimi anni (pandemia, crisi energetica, inflazione, squilibri geoeconomici, etc). Come sono state riadattate le strategie di internazionalizzazione alla luce di questi importanti cambiamenti?
Riassumerei questa risposta in tre punti: etico, economico, tecnico. Quando una casa è costruita sulla roccia, sicuramente le tempeste possono scalfirla ma di certo non la butteranno giù. Ho fondato questa azienda con il desiderio di migliorare la vita delle persone, non con l’idea di un profitto. Ritengo che il denaro sia uno strumento e che il profitto sia una naturale conseguenza di un operato attuato con profondità valoriale, fatto da persone che ne tutelano la qualità e che risuonano della stessa energia della marca. Abbiamo affrontato il marasma degli ultimi tre anni con unità ed etica, dimostrando vicinanza ai clienti, facendogli sentire che eravamo tutti sulla stessa barca e che non erano “mucche da mungere”. La fiducia dei consumatori e la consapevolezza che fossimo prima delle persone e poi degli imprenditori ci hanno dato credito e permesso di sostenere la crisi. È indubbio che gli aiuti governativi e quelli delle associazioni di categoria sono stati determinanti per contenere le perdite economiche. Dal punto di vista tecnico, inoltre, avendo una filiera di approvvigionamento cortissima, non abbiamo dovuto attendere i tempi di importazione dei componenti dall’Asia, ma abbiamo incrementato le scorte in magazzino prima che i fornitori arrivassero a rottura di stock, riuscendo così a evadere gli ordini senza ritardi e senza ripetuti incrementi sui listini di vendita.
Guardando al futuro, in quali ambiti strategici ritiene che l’Italia e le imprese italiane debbano investire maggiormente per essere ancor più competitive all’estero?
Tecnologia, innovazione e formazione sono tre milestone che le imprese italiane dovrebbero mettere a budget. Troppo spesso nei conti economici o nei business plan aziendali, in particolare nelle PMI, queste voci sono marginali. L’efficientamento e l’innovazione delle procedure, la strutturazione di una classe dirigente altamente formata in grado di incidere sulle scelte strategiche aziendali (che in molte aziende rimangono appannaggio del solo imprenditore/padrone), la digitalizzazione del brand (che non significa aprire un e-commerce) per rendere più smart ogni processo aziendale e interconnessi tutti gli stakeholder. L’azienda, inoltre, deve conoscere sé stessa, creare la sua identità ed esservi fedele, non vivere di emulazione. Qualcuno sarà incline a una distribuzione fisica intermediata, qualcuno a un retail monomarca, qualcuno ancora a operare esclusivamente sul web senza intermediazione alcuna, e un altro ancora solo tramite prescrizione. L’importante è analizzare il proprio prodotto/servizio e domandarsi in quale area del mercato questo trovi collocazione, senza troppo ego o affezione dei confronti della “propria creatura”, ma come un padre che mette al mondo i propri figli non perché seguano le sue orme ma perché trovino la loro strada verso la realizzazione personale nel rispetto dell’ecosistema che li accoglie.
Quali sono i punti di forza (es. tratti distintivi del prodotto, strategie aziendali, principi e valori, etc.) che hanno reso la vostra azienda un’eccellenza del made in Italy nel mondo, determinandone il successo sui mercati internazionali?
L’azienda per più di 150 anni è riuscita a rinnovarsi nei vari cicli economici e di modello di business. Il rimanere a produrre il 100% in Italia è stata forse la scelta strategica più importante; potersi fregiare del marchio made in Italy ancora oggi è un vantaggio competitivo non indifferente. L’aver considerato da sempre i nuovi mercati come una opportunità e non come un problema ci ha permesso di aprirci a un mercato immenso, che ha sopperito in modo significativo alle crisi degli ultimi venti anni. Aver messo le persone e la sostenibilità al centro del nostro progetto fino a farci diventare, primo lanificio al mondo, una società benefit è un altro significativo tratto distintivo.
In quale mercato avete riscontrato maggiore soddisfazione per l’internazionalizzazione della vostra impresa? Qual è stato il percorso che ha portato a poter consolidare la presenza in quel mercato?
Direi che la Cina può essere presa come esempio virtuoso del nostro percorso. Un paese che all’inizio sembrava più un concorrente che un’opportunità; noi siamo riusciti a renderlo la seconda delle due. Non è stato facile, ma fin dall’inizio (anno 2001), abbiamo deciso di aprire un ufficio a Shanghai per seguire direttamente il mercato. In questa operazione, più che il costo in sé, la vera difficoltà è stata costruire delle relazioni stabili con dei clienti che non sapevano come era il nostro modello di lavoro. Ma dopo 22 anni possiamo dire di avercela fatta.
L’export italiano resiste nonostante la pluralità di crisi susseguitesi negli ultimi anni (pandemia, crisi energetica, inflazione, squilibri geoeconomici, etc). Come sono state riadattate le strategie di internazionalizzazione alla luce di questi importanti cambiamenti?
L’export resiste perché abbiamo un marchio made in Italy che è riconosciuto in tutto il mondo e la ripresa che c’è stata dopo il Covid ne è la dimostrazione. Gli Stati Uniti rimangono il primo mercato e nonostante sia oramai un mercato considerato maturo, in realtà secondo me lo abbiamo “scalfito” solo in superficie: ci sono ancora molti consumatori americani che devono essere “educati” sul vero made in Italy e questo non vale solo per l’industria della moda. La Cina, d’altro canto, diventerà prima o poi il primo mercato mondiale, quindi, non possiamo non continuare ad investire per cercare di spiegare il valore aggiunto dei nostri prodotti. Serve una strategia comune, perché non possiamo pensare di vivere di rendita sul made in Italy: dobbiamo costantemente alimentarlo e divulgarlo, soprattutto alle nuove generazioni di consumatori.
Guardando al futuro, in quali ambiti strategici ritiene che l’Italia e le imprese italiane debbano investire maggiormente per essere ancor più competitive all’estero?
Sostenibilità ed innovazione sono le due aree dove abbiamo un gap rispetto ad altri paesi concorrenti. Sulla sostenibilità dobbiamo lavorare tutti insieme per far sì che in Europa non prevalgano posizione ideologiche che possano mettere in ginocchio la nostra filiera, ma posizioni pragmatiche che portino a risultati reali sull’impatto che questa industria ha in ambito ambientale. Sul tema dell’innovazione, invece, ritengo che la questione sia più complessa. Siamo infatti tutti consapevoli che stiamo vivendo una nuova rivoluzione industriale – chiamata oggi digitale – che è molto complessa per una filiera di piccole-medie imprese come la nostra; trovare però una chiave di lettura affinché questa rivoluzione non sia subìta passivamente dalla nostra industria è fondamentale per la nostra sopravvivenza.
Quali sono i punti di forza (es. tratti distintivi del prodotto, strategie aziendali, principi e valori, etc.) che hanno reso la vostra azienda un’eccellenza del made in Italy nel mondo, determinandone il successo sui mercati internazionali?
Il Gruppo Permare nasce nel 1973 a Sanremo per offrire servizi nautici alla crescente clientela ligure e della vicina Costa Azzurra e, nei primi anni Novanta, inizia a costruire barche con il proprio cantiere “boutique” Amer Yachts, che diventerà sinonimo di qualità e personalizzazione nel segmento delle imbarcazioni e delle navi da diporto. Il Gruppo è un’azienda a gestione familiare e, ad oggi, vede protagoniste tre generazioni. Il cantiere ha realizzato negli ultimi 40 anni una produzione artigianale considerata di nicchia, con oltre 90 yacht costruiti su misura. Il nostro cantiere vede una clientela estera fidelizzata che si rivolge a noi con continuità, apprezzando l’atmosfera familiare della nostra azienda, con un filo diretto senza intermediari da produttore a cliente. Costruire yacht è un’avventura lunga che crea un legame e dà modo ad ambo le parti, costruttore e acquirente, di conoscersi e approfondire una relazione che è destinata a durare nel tempo. Essere italiani apre molte porte all’estero e i nostri prodotti sono sinonimo di Italia: abbiamo colleghi importanti ma noi siamo sempre rimasti una realtà di nicchia fatta di pochi numeri. Ognuna delle nostre barche riassume il meglio della qualità e investiamo molto in ricerca; abbiamo anche un cuore green, ora così attuale, che parte da lontano per Amer e in tempi non sospetti.
In quale mercato avete riscontrato maggiore soddisfazione per l’internazionalizzazione della vostra impresa? Qual è stato il percorso che ha portato a poter consolidare la presenza in quel mercato?
Vantiamo un rapporto privilegiato con la Francia ed il Principato di Monaco vista la vicinanza geografica, siamo esportatori abituali da molto tempo ed operiamo globalmente: in Europa, nella zona balcanica, negli Emirati Arabi, nel Far East e negli USA, sia per scafi nuovi, sia per usati di nostra proprietà che vengono ristrutturati e rivenduti. Un dato rilevante è il 60% di acquisti destinato ad utilizzo per attività commerciale dai nostri clienti, permettendone la fruizione a una platea più allargata. Una produzione contenuta permette di dedicare tempo ai singoli clienti ed è certamente un fattore rilevante per consentire una personalizzazione avanzata; questo rappresenta indiscutibilmente un valore aggiunto, che viene apprezzato perché accresce il prestigio del bene, che diventa unico e riconoscibile.
L’export italiano resiste nonostante la pluralità di crisi susseguitesi negli ultimi anni (pandemia, crisi energetica, inflazione, squilibri geoeconomici, etc). Come sono state riadattate le strategie di internazionalizzazione alla luce di questi importanti cambiamenti?
I forti legami dell’industria nautica con i paradigmi del made in Italy ne hanno decretato da anni l’eccellenza a livello mondiale e il raggiungimento, nel 2022, del record storico di export di unità da diporto, con un valore di oltre 3 miliardi di euro. Le nostre aziende sanno esportare bene in tutto il mondo: barche e yacht italiani si riconoscono non solo per classe ed eleganza, ma anche per ricerca e innovazione, applicate a una produzione che raggiunge livelli di lavorazione quasi artigianali, grazie a una manodopera altamente qualificata e specializzata, per ottenere risultati all’avanguardia nell’estetica, nella funzionalità, nelle prestazioni, nel comfort e nella sostenibilità. Questa formula risulta vincente a livello globale ed è capace di esprimere a tutti gli armatori lo straordinario valore dell’industria nautica italiana, che è riuscita a superare con maestria tutte le complesse condizioni che si sono palesate negli ultimi anni.
Guardando al futuro, in quali ambiti strategici ritiene che l’Italia e le imprese italiane debbano investire maggiormente per essere ancor più competitive all’estero?
La competitività del nostro settore si giocherà nei prossimi anni soprattutto sul tema della sostenibilità, della ricerca e dell’open innovation, anche attraverso trasversalità fra settori differenti, per affrontare tematiche comuni. Sul fronte della sostenibilità il nostro cantiere è impegnato da anni a cercare ed applicare soluzioni innovative: abbiamo iniziato studiando la riduzione dei consumi, abbiamo proseguito investendo su materiali alternativi e riciclabili, per poi continuare costantemente con la ricerca congiunta di filiera. Oggi, secondo me, è fondamentale unire le forze e non lavorare da soli. Inoltre, serve anche un pizzico di generosità per poter condividere i risultati, renderli noti al settore, così in qualche modo si riesce ad allargare l’orizzonte della ricerca e non ci si sovrappone sullo stesso percorso. La transizione per il comparto nautico sarà lunga e tortuosa e una maggior condivisione e coesione tra aziende italiane sarebbe senza dubbio auspicabile per la crescita.