menu start: Fri Apr 26 20:41:12 CEST 2024
menu end: Fri Apr 26 20:41:12 CEST 2024
Livio Romano
Il sistema produttivo italiano è comunemente additato come poco propenso a investire, soprattutto in progresso tecnologico. Le cause citate più frequentemente sono l’arretrata specializzazione settoriale, la scarsa concorrenza interna, la struttura poco contendibile della proprietà e l’insufficiente ricorso al management esterno.
L’analisi più articolata degli investimenti e della spesa per innovazione mette in discussione questa visione. Le elaborazioni del CSC mostrano che nella manifattura italiana, vero motore della crescita economica del Paese, la propensione all'investimento è tra le più alte al mondo: 22,8% nel 2013, contro il 21,1% giapponese, il 19,2% USA, il 13,2% tedesco e il 12,5% francese. Solo la Corea del Sud fa meglio (30,6%). Il crollo degli investimenti nel 2007-13 (-31,6%) è legato alle cause e conseguenze della profonda crisi economica: credit crunch, peggioramento delle prospettive di domanda, erosione della redditività. Non, quindi, a minore spirito imprenditoriale.
Inoltre, uno sguardo più approfondito alle statistiche sull'innovazione delle imprese suggerisce maggior cautela nell'interpretare i bassi livelli di spesa in R&S dell’Italia (pari all’1% del fatturato manifatturiero, contro il 3,2% della Germania e il 2,8% della Francia). Questi sono, infatti, in parte sottostimati rispetto al dato reale, per la loro mancata contabilizzazione e sono penalizzati dalla inconsistenza, per troppi anni, della politica industriale.
La capacità di innovare delle aziende manifatturiere italiane è, invece, molto alta: nel 2012 il 46% di esse ha innovato prodotti o processi, rispetto al 63% di quelle tedesche, il 43% delle francesi e il 39% delle britanniche.
Per far leva su queste elevate propensioni e capacità occorrono politiche adeguate di sostegno agli investimenti e alla R&S, analoghe a quelle adottate negli altri maggiori paesi avanzati.