Capitolo 2 - Dipendenze critiche europee e italiane

SCARICA QUESTA SEZIONE

2.1 Scambi internazionali e autonomia nazionale: una tensione millenaria

Il rapporto tra stati sovrani è sempre stato caratterizzato dalla tensione, e a volte contraddizione, tra apertura agli scambi e autonomia produttiva, fin dall’inizio della storia della civiltà occidentale.

Nell’antica civiltà greca, che nasce dagli scambi commerciali e culturali all’interno del mare Mediterraneo, le polis (città-stato) sono in rapporti stretti e costanti e, allo stesso tempo, in conflitto latente o aperto. Perciò, secondo il filosofo ateniese Aristotele (IV secolo a.C.), il territorio della città deve essere innanzitutto «autosufficiente nel più alto grado possibile», e più precisamente «per realizzare questa condizione deve produrre prodotti di ogni specie». E, tuttavia, il filosofo aggiunge che «importare i prodotti che non si trovano nel luogo ed esportare quelli di cui si ha abbondanza sono tra le cose indispensabili». Concludendo, in modo piuttosto enigmatico, che «lo stato deve esercitare il commercio per il suo proprio interesse e non per interesse di altri».

Questa tensione persiste e si qualifica in modo più preciso nella civiltà moderna, in particolare con la nascita delle nazioni europee. È famosa l’affermazione di Montesquieu, propugnatore già nel XVIII secolo delle ragioni a favore degli scambi con l’estero, che «l’effetto naturale del commercio è di portare alla pace», perché «tutte le unioni sono fondate sui bisogni reciproci». Ma allo stesso tempo lo studioso francese evidenzia le ragioni dell’autosufficienza: «non sono le nazioni che non necessitano di nulla a ricavare un danno dal commercio, bensì quelle che hanno bisogno di tutto. Non sono i popoli autosufficienti, ma quelli che dispongono di poche risorse a trovar vantaggio dal non commerciare con nessuno». Si rinnova la contraddizione tra bisogni reciproci e autosufficienza, con l’obiettivo di ottenere un vantaggio, gli uni a scapito degli altri.

Per superare questa tensione, almeno sulla carta, occorre aspettare la nascita del pensiero economico contemporaneo, con la teoria di Adam Smith della divisione del lavoro e della specializzazione delle funzioni nella produzione manifatturiera. Si deve a David Ricardo, all’inizio del XIX secolo, la sua applicazione a sostegno del principio di libero scambio, che risulta essere vantaggioso per tutti i partecipanti: la teoria ricardiana dei vantaggi comparati, infatti, mostra come ogni nazione possa trarre beneficio dalla specializzazione nelle attività produttive in cui è relativamente più efficiente.

Tuttavia, la tensione tra integrazione e autonomia economiche resta pronta a emergere, specialmente in occasione di shock economici sistemici. È il caso della crisi economica globale tra le due Guerre Mondiali nel XX secolo, culminata nella Grande Depressione del 1929. Una crisi che si riflette nell’evoluzione del pensiero del più profondo osservatore dell’epoca, John Maynard Keynes, così come si manifesta esplicitamente nel titolo di due suoi articoli apparsi a dieci anni di distanza: “Free Trade” (1923) e “National Self-Sufficiency” (1933). Secondo il Keynes del 1933, la teoria del libero scambio non ha «nulla di sbagliato», ma «molti di noi non sono soddisfatti del modo in cui funziona come teoria politica». Per quali motivi? Perché «al momento attuale non sembra logico che la salvaguardia e la garanzia della pace internazionale siano rappresentate […] dalla stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuazioni delle politiche economiche di [altri] paesi […]. L’elemento cruciale è che non c’è nessuna speranza che nei prossimi anni si realizzi una uniformità del sistema economico internazionale paragonabile a quella esistita, in generale, durante il XIX secolo».

Questa conclusione potrebbe essere applicata, in modo perfettamente calzante, alla situazione geoeconomica attuale (spostando il riferimento temporale dal XIX alla fine del secolo XX). Ma oggi sappiamo anche che la ricerca dell’autosufficienza non ha avuto successo. Il deterioramento delle relazioni europee e mondiali è sfociato in un conflitto bellico globale.

La nascita della Comunità europea

L’architettura europea post Seconda Guerra Mondiale nasce da questa logica. La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, istituita nel 1951, ha creato un mercato comune per questi prodotti, assicurandone una libera circolazione e un libero accesso alle fonti di produzione, al fine di costruire una pace duratura tra le nazioni europee. Il carbone e l’acciaio costituivano, infatti, le principali risorse strategiche dell’industria europea, rappresentando una cruciale fonte energetica, il primo, e un metallo fondamentale per lo sviluppo industriale, il secondo.

Oggi ci troviamo di fronte a un nuovo passaggio epocale nei rapporti geoeconomici globali e a una discontinuità potenzialmente altrettanto significativa nelle tecnologie produttive. Gli shock sistemici che si sono trasmessi e amplificati tra le economie mondiali, generando anche spinte inflazionistiche nelle commodity e negli input industriali, hanno evidenziato le dipendenze critiche nelle filiere produttive internazionali. Le crescenti tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina spingono verso un allontanamento e una competizione serrata nello sviluppo delle tecnologie strategiche, cruciali per guidare la doppia transizione energetica e digitale delle economie e, in particolare, delle industrie.


BOX - Le policy UE

L’Unione europea ha definito, nel corso degli ultimi anni, un obiettivo di Autonomia Strategica Aperta, consistente nella capacità di agire, sia con i partner sia autonomamente, in base ai propri valori e interessi strategici. Interessi che riguardano, innanzitutto, la leadership nelle nuove tecnologie. In questa ottica, la politica strategica europea si è concentrata sulla fornitura delle materie prime critiche, cioè necessarie alla produzione manifatturiera dei prodotti ad alta tecnologia.

Come è noto, infatti, a livello europeo sono state definite come materie prime critiche le materie prime più importanti dal punto di vista economico e che presentano un elevato rischio di approvvigionamento. Le Critical Raw Material (CRM) sono materie prime indispensabili per l'economia dell'UE e per un'ampia gamma di tecnologie necessarie per settori strategici quali le energie rinnovabili, il digitale, lo spazio e la difesa. L’UE ha varato di recente un regolamento comunitario, il Critical Raw Materials Act (di seguito CRMA) con il fine di garantire l'accesso dell'UE a un approvvigionamento sicuro e sostenibile di materie prime essenziali, consentendo all'Europa di raggiungere i suoi obiettivi climatici e digitali per il 2030.

Il CRMA deve essere seguito da ampie misure per eliminare gli ostacoli e stimolare ulteriori investimenti privati lungo tutta la catena del valore. Dovrebbe fornire sufficiente certezza degli investimenti perché questo settore industriale è caratterizzato da un lungo periodo di ammortamento. La proposta è un buon inizio, ma sono necessari ulteriori miglioramenti per renderla praticabile per le imprese ed è fondamentale creare un contesto normativo e di investimento favorevole.

Confindustria guarda con favore all’iniziativa europea del Critical Raw Materials Act, che dimostra che le istituzioni dell'UE hanno compreso che abbiamo bisogno di una forte strategia industriale europea per avere successo nella transizione energetica e ambientale; dal momento che il tema è attenzionato da tempo, infatti, Confindustria coordina il Gruppo di Lavoro che analizza i fabbisogni di materie prime critiche nell’ambito del Tavolo Nazionale sulle Materie prime critiche, istituito presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy e il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica del nostro Paese, valutando le necessità anche in prospettiva.

Il lavoro, attraverso un monitoraggio dei fabbisogni presenti e futuri di materie prime critiche presenti nell’industria italiana, mira a rafforzare il coordinamento nazionale sul tema, a potenziarne la progettualità in termini di sostenibilità degli approvvigionamenti e di circolarità e a contribuire alla creazione delle condizioni normative, economiche e di mercato volte ad assicurare un approvvigionamento sicuro e sostenibile delle materie prime critiche.


Le dipendenze critiche e strategiche dell’industria europea, e di quella italiana in particolare, si sviluppano lungo molteplici dimensioni. Da un lato, infatti, occorre quantificare l’esposizione, sia diretta che indiretta, agli shock, a monte e a valle, lungo le catene globali del valore. Dall’altro, è necessario analizzare le criticità delle forniture a un elevato livello di dettaglio merceologico, cioè di singolo passaggio produttivo, soprattutto per identificare le fragilità in settori e tecnologie strategici. La tensione tra apertura agli scambi e autonomia strategica, quindi, è destinata a persistere e rinnovarsi. Diversi, infatti, sono gli strumenti, analitici e di policy, necessari per affrontare con successo le sfide poste dalle nuove forme di globalizzazione degli scambi e dalla frammentazione internazionale della produzione in un mondo policrisi e ad alte tensioni geopolitiche.

Sono sfide cruciali per l’economia italiana, da sempre ad alta vocazione manifatturiera. Citando le parole dello storico economico Carlo M. Cipolla: «il modello di sviluppo italiano è […] quello di un paese che mancò sempre delle materie prime utili allo sviluppo del tempo. Per questo gli italiani poterono arricchirsi e svilupparsi soltanto esercitando attività di intermediazione commerciale e finanziaria, e, sul piano manifatturiero, attività di trasformazione. Essi divennero, cioè, mercanti e banchieri e impiantarono manifatture che lavoravano per l’estero, valendosi di materie prime a loro volta importate». Un modello confermato negli anni recenti, quando «questo paese di mercanti riuscì a vendere quanto necessitava per aumentare il reddito e raggiungere negli anni Novanta una delle posizioni più avanzate del mondo. Se si considera il tutto c’è da essere fieri per quanto l’Italia ha saputo fare. Ma come la storia ci insegna non possiamo sederci sugli allori».

2.2 Le interconnessioni lungo le catene globali del valore (GVC)

La frammentazione produttiva internazionale comporta una stretta integrazione tra paesi e settori, che trasmette e – in alcuni casi – amplifica l’impatto degli shock a monte e a valle delle supply chain. Ciò accade perché gli input intermedi (che costituiscono oltre metà degli scambi internazionali) sono complementari, e quindi difficilmente sostituibili, nella produzione di beni e servizi finali, soprattutto a breve termine. Per esempio, secondo uno studio per l’economia USA, agli shock settoriali, amplificati attraverso le connessioni intersettoriali, è attribuibile gran parte delle fluttuazioni del PIL statunitense negli ultimi cinquanta anni (83% del totale), e solo in misura molto minore a fattori aggregati, cioè comuni a tutta l’economia.

Recentemente, in ottica internazionale, il focus è stato sull’impatto dei colli di bottiglia a monte delle catene globali del valore, in particolare per i blocchi produttivi in Cina, lungo tutti i settori e territori a valle. Secondo un recente studio dell’OCSE, una maggiore dipendenza dalle filiere internazionali di fornitura è associata una peggiore performance di settori e paesi a seguito dei blocchi a monte delle GVC durante l’emergenza Covid; tale impatto raddoppia nel caso in cui le forniture siano concentrate in pochi mercati o poche imprese.

Quindi, in qualche modo, maggiori sono le interconnessioni produttive settoriali tra paesi e maggiore è la dipendenza della performance economica settoriale di un paese dalle dinamiche dei settori a monte o a valle di altri paesi.

Le diverse misure delle GVC

Come misurare queste dipendenze? L’esposizione dei settori economici ai mercati esteri si può dividere in due componenti: gli scambi tradizionali di beni e servizi, che attraversano una sola frontiera; e quelli connessi alle GVC, che attraversano almeno due volte una frontiera, anche sotto forma di input intermedi che entrano in nuovi processi produttivi in altri paesi (si veda anche il capitolo 1.4.1). Mentre l’analisi nel capitolo 1 è svolta dal punto di vista del settore esportatore, cioè riguarda la produzione attivata dall’import/export (perché si focalizza sulla dinamica degli scambi), consideriamo ora anche la partecipazione indiretta all’estero, dal punto di vista del settore produttore, cioè attraverso le connessioni con altri settori domestici attivi all’estero. Esempi di connessioni indirette sono i servizi professionali o finanziari offerti sul mercato domestico a imprese che vendono sui mercati esteri; o viceversa, l’acquisto di semilavorati prodotti internamente ma che incorporano anche materiali importati. Il primo è un caso di connessione forward, cioè a monte delle filiere internazionali di produzione; il secondo, invece, di connessione backward, a valle. Considerando anche la partecipazione indiretta, la produzione manifatturiera mondiale attivata dalle GVC cresce molto significativamente: è pari al 23,2% del totale, rispetto al 13,6% dovuto alla solo partecipazione diretta (dati 2021; fonte Banca mondiale; Grafico 2.1). Peraltro, si tratta di valori del tutto in linea con quelli stimati in precedenti lavori del Centro Studi Confindustria, con un approccio molto simile a quello proposto dalla Banca mondiale.

La partecipazione alle GVC può essere ulteriormente scomposta in tre componenti: solo backward, alla fine della filiera (produzione finale); solo forward, all’inizio della filiera (input intermedi domestici); doppia partecipazione, sia backward che forward (acquisti e vendite di semilavorati). Emergono due principali risultati.

In primo luogo, il manifatturiero mondiale è posizionato relativamente a valle, cioè la componente backward è maggiore di quella forward, perché è un settore trasformatore che utilizza materie prime e servizi; ciò può essere formalizzato calcolando un indice di posizione, definito come la differenza tra le partecipazioni forward e backward, in rapporto alla partecipazione totale (-8,4% nel 2021). In secondo luogo, le interconnessioni tra comparti domestici moltiplicano la componente doppia di partecipazione alle GVC, che riguarda anche attività non direttamente coinvolte con i mercati esteri, ma che di fatto risultano dipendenti, sia a monte che a valle, dalle filiere internazionali di fornitura. Alla doppia partecipazione del manifatturiero mondiale alle GVC, infatti, è attribuibile circa il 15,1% della sua produzione (ma solo il 2,3% considerando le sole connessioni dirette; si veda di nuovo il Grafico 2.1).

Grafico Le connessioni produttive domestiche amplificano le GVC - Rapporto Catene di fornitura 2023

Alta la partecipazione di Germania e Italia

Le economie europee, fortemente integrate tra loro, mostrano una partecipazione alle GVC molto maggiore dei grandi paesi come Stati Uniti e Cina. Ciò è dovuto, evidentemente, alle connessioni commerciali e soprattutto produttive tra i paesi europei, che gravitano intorno al polo tedesco. Alle filiere internazionali sono associati, infatti, oltre il 35% della produzione manifatturiera dell’Italia e addirittura oltre il 44% di quella della Germania, in confronto a meno del 14% sia negli Stati Uniti che in Cina (Grafico 2.2).

Grafico Paesi europei più integrati nelle GVC - Rapporto Catene di fornitura 2023

Nel confronto temporale, rispetto ai livelli pre-crisi finanziaria, la partecipazione e posizione del manifatturiero mondiale nelle GVC risulta all’incirca stazionaria, confermando il risultato emerso nel capitolo 1.4.1. Al contrario della dinamica mondiale, la partecipazione manifatturiera europea alle GVC è significativamente aumentata rispetto al livello pre-crisi finanziaria: (+11,4 punti percentuali, sul valore della produzione, in Italia dal 2007 al 2021; +9,3 punti in Germania). Per quanto riguarda la posizione, il manifatturiero europeo si è spostato più a valle, soprattutto perché si è spostato il manifatturiero tedesco; mentre il manifatturiero italiano rimane vicino alla media mondiale.

Le ragioni delle dinamiche europee sono da ricercare, innanzitutto, nella tenuta delle filiere all’interno del mercato unico e nel loro maggiore orientamento anche verso i mercati extra-UE, per intercettare la crescente domanda finale di beni di alta qualità in questi mercati. Pesa, allo stesso tempo, la dipendenza dei paesi europei dalle commodity importate, soprattutto quelle energetiche, e anche la maggiore integrazione dei servizi nel mercato unico, che comporta un peso maggiore dei servizi esteri (dal resto d’Europa) come input per la produzione manifatturiera. L’industria tedesca, inoltre, ha rafforzato la sua specializzazione a valle delle filiere manifatturiere, cioè come assemblatore di semilavorati esteri e produttore di beni finali (si pensi, per esempio, al settore degli autoveicoli).

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, l’industria manifatturiera ha consolidato, su bassi livelli, la sua partecipazione alle GVC tra il 2007 e il 2021, mentre si è riposizionata più a monte delle filiere internazionali. Ha giocato un ruolo, in questo senso, la forza dei settori domestici dell’energia e dei servizi, fornitori del manifatturiero, che ne riduce le dipendenze backward dall’estero.

La manifattura della Cina, infine, ha significativamente ridotto la partecipazione alle GVC (-6 punti percentuali di produzione dal 2007 al 2021) e spostato verso l’alto la sua posizione nelle filiere, che rimane comunque relativamente a valle. Ciò è stato favorito anche dall’upgrading tecnologico delle produzioni cinesi, che ha permesso di trasferire dentro i confini nazionali alcuni processi a monte delle filiere, con un maggiore contenuto di valore aggiunto, e di ridurre l’import di semilavorati. Ed è coerente con il cambio di paradigma del modello di sviluppo cinese a favore della domanda interna e dei servizi (si veda il par. 1.3).

Comparti manifatturieri diversamente integrati nelle GVC

È importante notare che la modalità di partecipazione alle GVC dei diversi comparti manifatturieri è molto eterogenea. Focalizzando l’attenzione sul manifatturiero italiano, la quota di produzione associata alle GVC passa dal 15% nel settore alimentare e bevande al 57% nella chimica (si veda il Grafico 2.3). E la posizione lungo le catene varia da un estremo di specializzazione a valle, occupato di nuovo dall’alimentare e bevande (-44% l’indice di posizione), a nodi relativamente a monte delle filiere, presidiati dai settori dei minerali non metalliferi, prodotti in legno e gomma e plastica (con valori dell’indice superiori a +10%). La maggior parte dei comparti manifatturieri italiani si colloca strutturalmente a valle delle GVC: tra questi compaiono settori centrali come mezzi di trasporto, macchinari e impianti e altri manifatturieri.

Grafico Comparti italiani variamente integrati nelle GVC - Rapporto Catene di fornitura 2023

La posizione dei settori lungo le filiere ha importanti implicazioni sul tipo di vulnerabilità a shock esterni. I comparti più a valle risentono a cascata dei colli di bottiglia e degli aumenti di prezzo che avvengono nei precedenti nodi produttivi, che possono essere fuori dal loro controllo. In caso di carenza di input, le attività rischiano di fermarsi. Con l’aumento dei prezzi delle commodity e di altri input intermedi, alcune attività più a valle rischiano di avere più convenienza a produrre o di non essere più competitivi sui mercati internazionali.

Viceversa, le attività a monte delle GVC sono più vulnerabili a cali delle quantità compravendute lungo tutte le filiere, interne ed estere. Per esempio, la maggiore penetrazione delle importazioni cinesi (di beni finali e semilavorati) nelle economie avanzate ha implicato la sostituzione di beni di produzione interna di questi paesi in diversi passaggi delle filiere, con lo spostamento all’estero di parti o intere catene di fornitura.

In generale, quindi, l’impatto complessivo lungo le catene di produzione degli shock esteri può risultare un multiplo di quello diretto, in funzione del grado di partecipazione complessiva alle GVC.

In conclusione, emergono due considerazioni. In primo luogo, la forte integrazione produttiva europea, che si riflette in un’elevata partecipazione alle GVC, rende queste economie, e in particolare Italia e Germania, più strettamente interdipendenti e soggette a medesime variazioni di contesto, a livello settoriale, che possono avvenire a monte (per esempio di prezzo o da avanzamenti tecnologici) e a valle (di domanda, anche nei paesi emergenti) delle filiere di produzione globali, con un effetto complessivo amplificato sull’attività manifatturiera in Europa. È necessaria, quindi, un’analisi a livello europeo, che distingua il ruolo centrale del mercato unico.

In secondo luogo, l’esposizione quantitativa dei settori alle GVC è una risposta parziale al tema delle dipendenze dall’estero. È necessaria un’ulteriore metrica, in grado di valutare il peso specifico dei singoli prodotti e input all’interno dei processi produttivi. Esistono componenti, di valore relativamente limitato, che sono cruciali e possono bloccare l’intero processo produttivo: si pensi alla carenza di chip per la fabbricazione di autoveicoli. Tali dipendenze, inoltre, possono acquisire un carattere strategico, quando riguardano settori centrali per la crescita manifatturiera italiana ed europea e, in particolare, la leadership nelle tecnologie che guidano la doppia transizione, green e digitale.

Nel resto del capitolo sviluppiamo degli strumenti analitici in grado di fare luce sulle vulnerabilità dall’estero in base a queste due dimensioni.


BOX — Le GVC nelle policy UE

L’accesso alle risorse costituisce dunque una questione di sicurezza strategica, così come definita dall’Europa, anche al fine di dar seguito all’ambizione di realizzare il Green Deal.

La rinnovata strategia industriale per l’Europa propone, infatti, di rafforzare l’autonomia strategica aperta (inserita nelle GVC ­­­– Global Value Chain), avvertendo inoltre che la neutralità climatica potrebbe spostare la dipendenza attuale dai combustibili fossili a una dipendenza su quelle materie prime fondamentali alla transizione energetica.

L’accesso alle risorse e la sostenibilità sono, quindi, centrali per la resilienza dell’UE, anche a seguito delle fragilità che la pandemia da Covid-19 ha fatto emergere. La crisi ha, infatti, acuito ancora di più l’urgenza per l’UE di rispondere alla necessità di garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile, in quanto alcune catene globali del valore hanno subìto gravi perturbazioni, derivanti da significative criticità emerse lungo le GVC.

In questo senso, promuovere l'estrazione, la lavorazione e il riciclo di materie e prodotti critici e rafforzare le relazioni commerciali e di investimento con paesi che condividono gli stessi principi è essenziale per dare alle imprese l'opportunità di rendere le loro catene del valore più resilienti.


2.3  Le dipendenze critiche europee a livello prodotto

2.3.1 Le dipendenze critiche e strategiche secondo la Commissione europea

Il tema delle dipendenze critiche ha acquistato centralità nella strategia delle principali potenze economiche mondiali. In particolare, l’Unione europea ha avviato diverse iniziative per identificare e affrontare le criticità presenti e quelle prospettate per il futuro. Infatti, oltre ad aver accompagnato ognuna delle recenti strategie industriali europee con un elenco, di volta in volta aggiornato, delle materie prime ritenute essenziali, nel 2020 la Commissione europea ha iniziato ad evidenziare esplicitamente i limiti delle soluzioni di mercato alla necessità di approvvigionamento e il conseguente bisogno di politiche industriali attive per ridurre le criticità, avviando una nuova analisi delle proprie dipendenze critiche. In tale occasione, rispetto a quanto realizzato fino a quel momento sulle materie prime, il concetto di “criticità” si è evoluto in quello di “dipendenza”, acquisendo diverse sfumature di significato: una dipendenza può essere strategica, ovvero fondamentale per le ricadute sul sistema economico di un paese, e può essere reciproca, cioè in comune con i propri partner verso paesi terzi.

In particolare, l’aggiornamento della Nuova Strategia Industriale ha previsto una mappatura bottom-up delle dipendenze e delle capacità strategiche da parte della Commissione europea, sfruttando un elevato dettaglio merceologico e con un esame approfondito per una serie di settori strategici tecnologici e industriali.

L’analisi della Commissione europea approfondisce, in particolare, specifiche filiere, che riguardano materie prime (terre rare e magnesio), semilavorati (prodotti chimici), prodotti finiti (pannelli solari) e prodotti e servizi immateriali (cybersicurezza e software informatici), in cui l'Europa dipende da paesi terzi e che sono determinanti per la duplice transizione green e digitale. L’approccio bottom-up della Commissione ripercorre inoltre il processo di creazione del valore, considerando tanto le catene di approvvigionamento di beni – a partire dalle materie prime – quanto gli elementi intangibili. Una visione che permette di ricostruire le dipendenze strategiche anche di natura tecnologica. Le conclusioni sono robuste: nelle filiere analizzate la dipendenza dell’Europa da paesi terzi è rilevante, in particolare a causa di una forte concentrazione della produzione in alcuni paesi e della difficoltà di diversificare, anche per i ritardi accumulati dal punto di vista tecnologico.

Le dipendenze strategiche incidono sugli interessi fondamentali dell'UE, in particolare per quanto riguarda la salute, la sicurezza e l'accesso ai principali fattori di produzione e alle tecnologie necessarie per la transizione verde e digitale. L’Europa, oggi, contribuisce in minima parte alla disponibilità di materie prime critiche correlate alla transizione energetica ed è dipendente da 137 prodotti e materie prime in ecosistemi industriali sensibili. L’accesso alle risorse costituisce, quindi, una questione di sicurezza strategica.

Il processo di analisi ed elaborazione di policy e strategie è ancora in corso e parziale, come evidenzia la risposta tardiva alle criticità sull’approvvigionamento di gas russo, una dipendenza de facto che è stata presa in esame solo a emergenza iniziata. Inoltre, l’Unione europea si trova ad agire in uno stretto percorso, in cui il superamento di una dipendenza – nel breve termine – potrebbe implicare il rafforzarsi di un’altra. Gli ambiziosi obiettivi di RePowerEU, ad esempio, se da un lato mirano a superare la dipendenza europea dal gas russo, dall’altra – se il processo non sarà adeguatamente governato – rischiano di esacerbarla per materiali, semilavorati e tecnologie legati all’elettrificazione che sono ad oggi prodotti soprattutto in Cina.

2.3.2 Come identificare le dipendenze critiche e strategiche?

Nel corso dell’evoluzione normativa, dal 2011 al 2020, abbiamo assistito a un netto incremento delle materie prime potenzialmente critiche, passando dalle 14 del 2011 alle 30 del 2020.

Lo scoppio del conflitto Russia-Ucraina ha mostrato il limite dell’attuale modello di identificazione delle criticità per il sistema produttivo nazionale.

Se, infatti, le potenziali criticità di approvvigionamento dalla Russia fossero state espresse in termini di materie prime critiche e terre rare connesse alla realizzazione di prodotti utili alla duplice transizione, si sarebbe compresa la dimensione dello shortage di prodotti per il sistema industriale europeo che, seppur non direttamente, ha messo in difficoltà la tenuta di intere filiere industriali, unitamente al rincaro dei prezzi energetici.

La Commissione europea individua in una prima fase i prodotti scambiati in cui l'Unione europea risulta più dipendente dai paesi terzi sulla base di tre indicatori economici:

  • la concentrazione delle importazioni da fonti extra europee, come misura di diversificazione degli acquisti;
  • la quota dei mercati non europei sul totale dell’import, cioè l’importanza dei fornitori extra-UE;
  • il peso delle importazioni extra-UE rispetto al totale delle esportazioni europee, considerate una buona approssimazione della sua capacità produttiva e, quindi, della capacità di supplire il fabbisogno di importazioni in caso di interruzioni nella catena di fornitura.

Partendo da una base di oltre 5mila tipologie di prodotti scambiati ogni anno tra tutti i paesi, vengono identificati circa 390 merci importate dall’Unione europea che rispondono ai requisiti sopraelencati. In un secondo step, vengono individuati tra questi 137 prodotti, che afferiscono agli ecosistemi considerati più sensibili, nel senso che rappresentano settori e ambiti tecnologici di particolare interesse per lo sviluppo industriale europeo. Si tratta prevalentemente di dipendenze nell'ecosistema delle industrie ad alta intensità energetica (compresi i materiali grezzi/lavorati e i prodotti chimici), nell'ecosistema della salute (compresi gli ingredienti farmaceutici attivi e altri prodotti relativi alla salute), e input e prodotti necessari alla trasformazione verde e digitale. Complessivamente, queste dipendenze corrispondono al 6% del valore complessivo delle importazioni UE, proveniente prevalentemente dalla Cina (52%), dal Vietnam (11%) e dal Brasile (5%). In termini di fasi di lavorazione, circa il 16% dei prodotti più dipendenti dall'estero sono materie prime, circa il 57% sono beni intermedi e circa il 27% beni finali.

Infine, l’analisi si concentra sui prodotti che possono rappresentare una vera e propria dipendenza strategica, ovvero quei prodotti per cui non solo la fornitura attuale è molto concentrata e dipendente dall’estero, ma che sono anche caratterizzati da un basso potenziale di diversificazione e di sostituzione con la produzione interna dell’Unione europea. Si identificano così 34 prodotti, che rappresentano nel complesso lo 0,6% del valore di tutti i prodotti importati in Europa.

Prendendo come riferimento l’approccio della Commissione europea, il Centro Studi Confindustria ha riconsiderato e ampliato il set di criteri utilizzati, per raggiungere un duplice obiettivo.

In primo luogo, è stata semplificata la metodologia, per permettere una comparazione delle dipendenze critiche dell’Unione europea con quelle degli Stati Uniti e della Cina, lungo diverse dimensioni: numerosità e peso dei prodotti selezionati, paesi di provenienza, tipologia di beni, filiere produttive.

In secondo luogo, sono stati costruiti dei criteri aggiuntivi, specifici per l’Unione europea e per i suoi paesi membri, per qualificare più precisamente i prodotti critici, sfruttando l’informazione fornita dagli scambi europei intra-area. In questo modo è possibile identificare sia le connessioni critiche extra-UE dei diversi paesi membri sia le possibili produzioni alternative presenti all’interno della stessa Unione europea.

Il CSC, quindi, utilizza come la Commissione un approccio bottom-up, con una metodologia progressivamente selettiva, che punta cioè a individuare le dipendenze come un insieme di prodotti che rispondono progressivamente a criteri sempre più stringenti. Inoltre, alcuni criteri sono alternativi, e perseguono l’obiettivo di garantire allo stesso tempo la massima comparabilità e il massimo livello di dettaglio possibile.

In particolare, in un primo step vengono applicati due criteri base per selezionare e confrontare le dipendenze critiche al livello di macroarea (o paese; si veda il BOX n. 2.1 “I Criteri di dipendenza critica per macroarea”). In un secondo step si includono anche gli scambi intra-area, per qualificare meglio dipendenze europee e dei singoli paesi membri. In una terza fase, per poter meglio caratterizzare i prodotti critici per l’industria dei paesi membri, si escludono i beni per il consumo finale e quelli non presenti nella maggior parte degli ultimi anni e si valuta quali prodotti critici sono anche strategici e quali ad elevato rischio geopolitico o climatico (Grafico 2.4). Così facendo, si può selezionare un ristretto insieme di prodotti critici che necessitano di specifiche misure di policy, perché contemporaneamente di grande importanza per gli interessi nazionali e relativamente più a rischio.

Grafico L’approccio del CSC - Rapporto Catene di fornitura 2023


BOX n. 2.1 - I criteri di dipendenza critica per macroarea

I primi due criteri, che possono essere applicati a qualunque paese o macroarea, e in particolare all’Unione europea, consistono in una misura di diversificazione delle importazioni e una di sostituibilità delle stesse con le esportazioni. Per quanto simili ai criteri già individuati dalla Commissione, è bene notare che una volta applicati in riferimento all’Unione europea essi includono esclusivamente gli scambi extra europei, in modo da garantire la maggiore confrontabilità possibile con le altre macroaree.

Il primo criterio misura la concentrazione delle importazioni – esclusivamente extra-UE per l’Unione europea – tramite l’indice di Herfindahl-Hirschman, un indice di concentrazione comune utilizzato dalla letteratura per misurare la concentrazione di mercato di un settore. Più le importazioni sono concentrate, più può risultare difficile cambiare fornitore qualora la fornitura dovesse venire meno. In questa sede vengono considerati come “a rischio” tutti i prodotti per cui le importazioni sono concentrate in pochi paesi, ovvero tutte quelle merci per cui l’indice supera la soglia di 0,35, pari al livello del 75° percentile della distribuzione dell’indice di concentrazione a livello mondiale degli scambi per prodotto. In altre parole, le importazioni di quel dato prodotto di quel dato paese sono concentrate all’incirca in tre paesi, che rappresentano un terzo delle esportazioni ciascuno.

Il secondo criterio invece considera la sostituibilità con l’export, ovvero si selezionano le tipologie di prodotto che presentano un ampio deficit commerciale, misurato dal saldo (o equivalentemente dal saldo normalizzato). In particolare, con questo criterio vengono selezionati i prodotti per cui l’import supera l’export di circa quattro volte, sempre prendendo come riferimento la soglia calcolata sul 75° della distribuzione mondiale.

è possibile poi aggiungere un terzo criterio, che è approfondito nel paragrafo 2.4, specifico per l’Unione europea, che tiene in considerazione la possibilità di sostituzione delle importazioni extra-UE con i prodotti scambiati tra i paesi UE.

Questi tre criteri selezionati possono essere anche applicati ai singoli paesi membri dell’Unione europea. In questo caso, il terzo criterio si sdoppia, perché le due formulazioni, rispetto all’export intra-area e all’import intra-area, non sono equivalenti. L’analisi a livello dei singoli paesi UE, illustrata nel paragrafo 2.4, permette di studiare, a livello territoriale, sia l’ubicazione dei nodi critici di dipendenza dal resto del mondo, caratterizzandoli anche per strategicità ed entrando nel merito della rischiosità del singolo paese fornitore, sia l’origine di possibili forniture alternative all’interno del mercato unico.

L’analisi che segue tratta il problema delle dipendenze dal lato delle importazioni. Tuttavia, criticità importanti possono emergere anche dal lato delle esportazioni, per motivazioni simili: mercati di destinazione concentrati in poche aree geografiche, potenzialmente soggette a conflitti di tipo commerciale o geoeconomico, o con la capacità di utilizzare il loro peso di acquirenti come strumento negoziale. Questo tipo di vulnerabilità “a valle” sono tanto più importanti quanto più significativo è il ruolo delle esportazioni per la crescita economica del paese di origine, com’è il caso per esempio di Italia e Germania in Europa.

I risultati dell’analisi sono illustrati seguendo due traiettorie principali: le importazioni critiche in valore dei prodotti oppure come numero di prodotti importati. In quest’ultimo caso ci si riferisce alla varietà dei prodotti importati, ovvero a quanti prodotti di diversa tipologia vengono scambiati.

Le due dimensioni offrono informazioni complementari. Per esempio, l’importanza di prodotti dal valore medio unitario molto basso o importati in piccole quantità, che però entrano in processi produttivi strategici (per esempio alcune materie prime) può essere colta solo in termini di numerosità; al contrario, singole varietà di prodotti importati in gran quantità o con prezzi variabili (come l’oil&gas) acquistano grande rilevanza in termini di valore.


 

2.3.3 Dipendenze critiche europee nell’ultimo ventennio: da quali paesi, in quali settori

Secondo le analisi del CSC, se si escludono gli scambi tra i paesi membri, i prodotti critici importati dall’Unione europea tra il 2002 e il 2021 la cui fornitura proviene in larga parte da paesi extra-UE ed è allo stesso tempo molto concentrata, oscillano tra il 6-9% del totale dei prodotti scambiati e il 5-10% del totale del valore importato negli ultimi venti anni.

Questa quota è cresciuta leggermente nel tempo: nel 2002, i prodotti critici rappresentavano il 6,2% di tutti i prodotti importati e il 7,2% in valore (valori molto vicini a quelli della Commissione, 2021). Tra il 2010-2011 questa quota raggiunge un massimo, all’8,4% (10,2% in valore), per poi attestarsi dal 2018 su una quota molto vicina al 7%, con una risalita nel 2020 e nel 2021 (Grafico 2.5). Nel complesso, quindi, i prodotti critici rappresentano una porzione relativamente stabile di tutti i prodotti importati nel periodo osservato, anche prima dello scoppio della pandemia e dell’invasione dell’Ucraina.

Grafico Dipendenze europee relativamente contenute e stabili nel tempo - Rapporto Catene di fornitura 2023

Questa stabilità è coerente con quella delle due variabili sottostanti la selezione dei prodotti critici: la concentrazione delle importazioni e il saldo commerciale normalizzato dell’Unione europea sono rimasti piuttosto stabili, anche negli ultimi 2-3 anni.

Oltre a rappresentare una quota piuttosto costante delle importazioni dell’Unione, i prodotti critici tendono a rimanere tali a lungo: oltre la metà dei prodotti critici è presente nel set delle dipendenze almeno la metà del tempo (il 25,5% è presente per 11-16 anni, il 30% oltre 17 anni), mentre solo il 44% compare meno di 10 anni su 19.

Le dipendenze, quindi, da un punto di vista quantitativo non sono un fenomeno emerso negli ultimi anni, in conseguenza di una progressiva concentrazione nelle mani di pochi produttori leader sui mercati mondiali di alcuni beni, ma piuttosto un fenomeno strutturale di lunga durata, indice di una specializzazione geografica in alcuni settori o prodotti.

Cina principale origine dell’import critico

Tuttavia, emergono importanti differenze nel tempo per quello che riguarda la composizione geografica e merceologica dei prodotti critici.

Innanzitutto, analizzando le dipendenze critiche in numero e in valore provenienti dai tre maggiori partner commerciali dell’Unione europea (paesi europei non UE, Cina e Stati Uniti) si evidenzia come, a partire dal 2008, sia cresciuta la quota in valore di prodotti critici importati dalla Cina, da un valore quasi nullo a circa il 5%, a fronte di quote piuttosto stabili dalle altre aree (Grafico 2.6). Ciò segnala un aumento quantitativo delle dipendenze dalla Cina, piuttosto che in termini di differenti varietà di prodotto.

Grafico Crescita del valore delle dipendenze europee dalla Cina - Rapporto Catene di fornitura 2023

Fin dalla metà degli anni 2000 la Cina è nettamente l’area da cui proviene, in valore, la quota maggiore di prodotti critici, e che ha visto crescere progressivamente la sua importanza nel tempo: nel 2005 circa il 30% del totale, nel 2010 oltre il 40% e quasi il 50% nel 2019; nel 2020-2021 la Cina ha rappresentato circa il 55% delle importazioni critiche, presumibilmente anche grazie all’export di prodotti sanitari legati alla pandemia (Grafico 2.7).

Grafico Dal 2008 impetuosa crescita della Cina nell’import critico europeo - Rapporto Catene di fornitura 2023

Subito dopo la quota cinese, la percentuale maggiore di import critici dell’Unione europea proveniva dall’America Latina e dagli altri paesi europei non UE, fino a circa 10 anni fa, e da allora dai paesi emergenti dell’Asia. È utile un confronto con il totale dell’import (non solo critico). La quota maggiore proviene fino al 2019 dai paesi europei extra-UE, anche se si riduce nel tempo di circa 10 p.p. per far spazio ad altre aree di origine. In primis aumenta la quota della Cina, che pur raddoppiando il proprio peso – da meno del 10% nel 2002 a circa il 20% nel 2019-2021, diventando la prima area di origine dal 2019 – non segue la stessa crescita che si osserva per l’import critico.

Prevalente l’import critico di beni di consumo

Un’altra caratterizzazione è per categoria merceologica, ovvero tipologia di prodotto scambiato: bene di consumo, bene intermedio o bene capitale. I beni intermedi si suddividono ulteriormente in prodotti primari e semilavorati manifatturieri, che a loro volta possono essere generici o specifici; questi ultimi sono prodotti differenziati e complessi destinati a specifiche imprese o industrie, cioè quelli più rappresentativi delle catene globali del valore.

Tra il 2012 e il 2021 il numero totale dei prodotti critici importati si ripartisce in maniera quasi uguale tra beni di consumo e beni intermedi, tra i quali prevalgono gli intermedi specifici negli anni più recenti. Al contrario, se si analizza la ripartizione per numerosità del totale dell’import europeo, i prodotti intermedi coprono, in maniera costante nel tempo, all’incirca il 60% delle importazioni, seguiti dai prodotti di consumo che contano per solo il 30% circa del totale.

Per quanto riguarda la quota in valore, invece, la grande maggioranza dell’import critico, negli ultimi 10 anni, fa parte dei beni di consumo (quasi il 60%) anche se in diminuzione nel 2021, a fronte di una composizione del totale delle importazioni (critiche e non critiche) molto più sbilanciata verso i beni intermedi (oltre il 50%).

Anche se l’Unione europea importa in prevalenza beni intermedi, quindi, le importazioni critiche (molto dipendenti dall’extra-UE e concentrate in pochi paesi) sono quasi equidistribuite come varietà tra beni intermedi e di consumo. Inoltre, i primi sono mediamente di minore valore unitario o sono importati in minore quantità rispetto ai secondi. Il valore dei semilavorati critici, quindi, può sottostimare la loro importanza, in termini di differenti varietà, come input produttivi, potenzialmente difficilmente sostituibili, per l’industria europea. Sia in valore sia per varietà, infine, la ripartizione dell’import critico per categoria risulta relativamente stabile nel tempo.

Infine, possiamo suddividere i prodotti scambiati in filiere, ovvero in raggruppamenti di merci che afferiscono ad una stessa catena di approvvigionamento e/o produttiva.

L’Unione europea storicamente mostra una maggiore criticità, come numero di prodotti importati, nell’ambito agro-alimentare (che rappresenta circa il 30% della varietà dell’import critico), seguito dal tessile (circa il 20%), a fronte di una composizione del totale dell’import molto più equiripartita, che vede tra le prime voci i prodotti delle filiere delle costruzioni, dell’agro-alimentare, del tessile e delle commodity (tutti vicini al 20%).

I prodotti dell’agro-alimentare sono relativamente di minore valore (o vengono importati in quantità ridotte) rispetto ad altri prodotti critici, in particolar modo quelli dell’ICT. Infatti, anche se si tratta di relativamente pochi articoli, i prodotti ICT coprono per almeno metà del periodo osservato ben il 60% dell’import critico, se calcolato in valore, mentre quelli dell’agro-alimentare e del tessile, più numerosi, coprono da dieci anni a oggi, tra il 10% e il 20%. Anche in questo caso, la composizione dell’import critico resta relativamente costante nel tempo.

L’unico trend riguarda l’aumento dell’import critico in valore dalla Cina, soprattutto come varietà di prodotti della filiera delle costruzioni, legno e metalli di base (22% in media su 2018-2021), seguita dall’agro-alimentare (20%), dal tessile (18%) e dalle commodity (17%).

In valore, invece, il 60% è composto da prodotti della filiera ICT (numerosi soprattutto i prodotti per la produzione di elettronica di consumo) e solo il 16% da prodotti tessili, il 13% da prodotti della filiera dei metalli di base (i più numerosi sono i metalli non ferrosi) e l’1% da commodity (soprattutto prodotti per la produzione chimica di base). Inoltre, i prodotti critici cinesi importati si dividono, come numerosità, quasi equamente tra prodotti intermedi (50%) e prodotti di consumo (48%), anche se questi ultimi sono nettamente prevalenti se misuriamo le importazioni in valore (58%).

2.3.4  Confronto con Usa e Cina

Secondo l’analisi CSC, i prodotti critici per gli Stati Uniti rappresentano tra il 12% e il 17% del totale dei prodotti importati dal 2002 in poi, quota che sale al 15-25% se considerati in valore. Per la Cina, la stessa quota oscilla intorno all’8-11%, e tra il 15% e oltre il 20% in valore (Grafico 2.8).

Rispetto all’Unione europea, quindi, sia Stati Uniti sia Cina mostrano, in proporzione, delle dipendenze molto più elevate, circa doppie. Inoltre, le dipendenze statunitensi sono cresciute di oltre 5 punti percentuali durante il periodo osservato se le osserviamo in valore (escludendo il balzo registrato nel 2020). Per la Cina, invece, si osserva un numero di prodotti critici relativamente costante dal 2007 in poi, ma un andamento delle dipendenze in valore oscillante e in aumento, con un sostanziale disaccoppiamento rispetto alle dipendenze in numero. In altre parole, ad aumentare non è la varietà delle importazioni cinesi vulnerabili, ma il loro ammontare sul totale degli acquisti all’estero. Rispetto a Stati Uniti e Unione europea, quindi, la Cina mostra dipendenze concentrate in una varietà non elevatissima di prodotti, ma relativamente di maggior valore.

Grafico Dipendenze rilevanti e in crescita per USA e Cina - Rapporto Catene di fornitura 2023

Il diverso andamento delle dipendenze riscontrate per questi due paesi rispetto a quello dell’Unione europea, piuttosto stabile, può essere interpretato in base all’andamento dei due indicatori utilizzati per identificare le dipendenze, ovvero l’indice di concentrazione e il saldo normalizzato. A fronte di un indice di concentrazione costante per tutte le aree, il saldo normalizzato mostra dinamiche differenti: un netto miglioramento in Cina dal 2002 al 2008 e un netto peggioramento negli Stati Uniti dal 2009 in poi (Grafico 2.9).

Grafico Saldo commerciale cinese in surplus, quello statunitense in deficit - Rapporto Catene di fornitura 2023

Nel caso degli Stati Uniti, vuol dire che dal 2009 progressivamente sempre più prodotti vengono selezionati come critici (a parità di soglia). Poiché le dipendenze statunitensi crescono nel periodo considerato sia in valore sia come numerosità, ciò suggerisce, quindi, che non ci sono grosse ricomposizioni nell’insieme dei prodotti critici quanto piuttosto l’ingresso di nuovi prodotti. Infatti, in quasi tutti gli anni dal 2002 al 2021 c’è un ingresso netto di nuove varietà tra i prodotti critici. Nel caso cinese invece, il miglioramento del saldo potrebbe spiegare la flessione nel numero e nel valore delle dipendenze fino al 2007, mentre l’incremento successivo, unicamente in valore, è probabilmente attribuibile, visto la stabilità del saldo, a una crescita del valore dei prodotti critici importati, che restano all’incirca gli stessi. L’incremento monetario può essere dovuto in questo caso sia a un aumento del valore medio unitario dei prodotti critici importati sia ad una crescita delle quantità importate.

Anche per gli USA la Cina è il primo fornitore critico

Inoltre, analizzando la composizione per macroarea delle importazioni critiche (Grafico 2.10), si nota che per gli Stati Uniti, così come per l’Unione europea, la Cina assume un ruolo sempre più importante nel tempo, toccando nel 2019-2021 il 40%, una quota molto rilevante anche se inferiore a quella che rappresenta nelle importazioni europee.

Per gli Stati Uniti così come per l’Unione europea, il ruolo della Cina è più importante per l’import critico che per il totale delle importazioni.

Le quote più rilevanti dell’import critico degli Stati Uniti proveniente dalla Cina negli ultimi 3 anni sono rappresentate da prodotti della filiera delle costruzioni e del tessile (25%) che sono i più numerosi, mentre in valore prevalgono nettamente la filiera dell’ICT, che pur contando poco come numero di prodotti importati (4%) pesa molto in termini monetari (44%), e i prodotti della filiera delle costruzioni e metalli di base (28% in valore).

Grafico Cresce l’import critico USA dalla Cina, diminuisce la quota dall’Occidente - Rapporto Catene di fornitura 2023

Dall’Oceania più di un quarto dell’import critico cinese

I partner più importanti in termini di import totale per la Cina sono i paesi asiatici avanzati, anche se nel tempo la quota da loro detenuta è stata progressivamente erosa a favore di una più equa ripartizione tra le diverse aree di provenienza delle importazioni e a favore di un avanzamento degli altri paesi asiatici emergenti. Nell’import critico, tuttavia, mentre fino a circa il 2010 le quote per area di provenienza rispecchiavano il totale dell’import, dalla fine dello scorso decennio prevale l’Oceania, che ha superato nel 2019-2021 la quota del 25%, seguita negli ultimi due anni dai paesi dell’America Centrale e del Sud (Grafico 2.11). L’import critico dall’Oceania negli ultimi 4 anni riguarda per la maggior parte prodotti agro-alimentari (60% circa) e in seconda battuta commodity e prodotti energetici (15% circa). In valore, anche se proporzionalmente minori come numero, le commodity e i prodotti energetici contano per ben l’83% dei prodotti critici che la Cina ha importato dall’Oceania nel periodo 2017-2021.

Analizzando la tipologia di prodotto, gli Stati Uniti mostrano una composizione del totale dell’import molto simile a quella europea, in cui in genere prevalgono i beni intermedi (come numero di prodotti importati) ma che vede quasi un’equiripartizione tra beni di consumo e intermedi se ci focalizziamo sull’import critico, con una leggera prevalenza dei beni intermedi negli ultimi anni. Per la Cina, invece, la composizione dell’import critico è quasi perfettamente sovrapponibile a quella dell’import totale, con una netta prevalenza di beni intermedi (quasi il 70%).

Grafico Cresce l’import critico cinese da Oceania, America Centromeridionale ed emergenti asiatici, diminuisce dal resto dell’Occidente - Rapporto Catene di fornitura 2023

Se analizziamo l’import in valore, però, il quadro per gli Stati Uniti cambia radicalmente: a fronte di una composizione dell’import totale comunque sbilanciata verso i beni intermedi, nell’import critico risultano prevalenti i beni di consumo (con quote maggiori del 50% per tutto il periodo), che pesano quindi molto di più in termini di quantità e/o valore medio unitario. Come già riscontrato per l’Unione europea, quindi, anche se gli Stati Uniti importano un numero quasi uguale di beni intermedi e finali per cui potenzialmente potrebbero riscontrate problemi di fornitura, i beni intermedi che importano sono relativamente di scarso valore o vengono importati in quantità ridotte rispetto a quelli di consumo.

Per quanto riguarda la Cina, invece, anche considerando i prodotti in termini di valore, la quota di gran lunga maggioritaria è rappresentata sempre dai beni intermedi, che si tratti di tutti i beni importati o solamente di quelli critici.

Infine, analizzando l’import per filiera, l’import totale è ripartito in quote molto simili tra l’agro-alimentare, le costruzioni, il tessile e le commodity per entrambi i paesi: l’import critico, invece, è prevalentemente, come varietà, composto da beni agro-alimentari e delle costruzioni per gli Stati Uniti e di beni agro-alimentari per la Cina. Anche se numericamente più consistenti, tuttavia, gli acquisti dei diversi beni alimentari sono relativamente limitati, per cui in valore le importazioni critiche tendono invece a concentrarsi nell’ICT nel caso degli Stati Uniti (così com’era il caso UE) e nelle commodity e nei prodotti energetici nel caso cinese. In quest’ultimo caso, l’import critico rispecchia uno sbilanciamento del totale degli scambi cinesi, poiché strutturalmente si tratta di beni che la Cina importa, a prescindere che si tratti di prodotti per cui potenzialmente potrebbe riscontrare problemi di fornitura.

Anche per Stati Uniti e Cina, in ogni caso, la composizione dell’import critico è rimasta piuttosto stabile nel tempo in termini di filiere e categorie merceologiche, mentre ha riscontrato dei cambiamenti consistenti in termini di aree di provenienza.

In termini di vulnerabilità degli acquisti all’estero, quindi, non si osservano profonde trasformazioni nella specializzazione produttiva dei tre grandi player globali negli ultimi 20 anni, quanto piuttosto dei cambiamenti nella geografia delle proprie catene di fornitura.

2.4 Dipendenze critiche europee e dei paesi membri: le connessioni intra - UE

L’analisi delle dipendenze critiche tra economie mondiali, a un livello molto dettagliato di prodotto, astrae necessariamente, per mancanza di dati comparabili, dalla possibilità di sostituire le forniture estere con maggiori produzioni domestiche, a parte quelle già destinate ai mercati esteri (che entrano nella misura del saldo commerciale). Per i paesi dell’Unione europea, tuttavia, disponiamo di un’informazione aggiuntiva molto importante, costituita dagli scambi tra i paesi membri, che possono essere interpretati come una proxy (seppure imperfetta) della produzione interna europea.

Operativamente, si aggiunge ai due criteri della concentrazione dell’import e della sostituibilità con l’export (extra-area) un terzo requisito, ovvero la possibilità di sostituire gli acquisti da paesi extra-area con flussi commerciali tra paesi dell’Unione europea. Questo ulteriore vincolo consente di valutare se esiste una capacità produttiva domestica “aggiuntiva”, che si genera da scambi all’interno dell’area europea, sufficiente per eventualmente sostituire alcune importazioni extra-UE; cioè di misurare la possibilità di far fronte all’interno del mercato unico a colli di bottiglia nelle supply chain globali. Questo approccio permette Il confronto sia tra i paesi europei sia tra i paesi europei e la media dell’Unione.

Includendo gli scambi intra-area, è possibile escludere dalla lista delle forniture critiche per ciascun anno in media circa il 23% della varietà dei prodotti e circa l’11% in valore (Tabella 2.1), con quote variabili ma in netta crescita nel 2020-2021, presumibilmente anche per le difficoltà di approvvigionamento legate alla crisi pandemica che hanno portato a un inevitabile aumento degli scambi tra paesi membri. Soprattutto, influiscono nel boom in valore degli ultimi due anni i prodotti critici della filiera ICT, media e computer.

Tabella Gli scambi intra-UE riducono le dipendenze critiche europee - Rapporto Catene di fornitura 2023

Analizzando i prodotti sostituibili per filiera (Tabella 2.2), quella per cui gli scambi tra i paesi membri sono più rilevanti, in valore, è sicuramente l’agro-alimentare: l’import critico si riduce del 22% rispetto a quello precedentemente rilevato. Seguono la filiera delle commodity, quella della salute e quella dei trasporti con valori critici in calo tra il 10% e il 16%, anche se la prima e l’ultima mostrano percentuali molto più alte in termini di varietà (rispettivamente 28% e 32%).

Tabella Le connessioni intra-UE riducono le criticità nelle filiere dell’agroalimentare e delle commodity-chimica-energia - Rapporto Catene di fornitura 2023

Come tipologie di beni (Tabella 2.3), si tratta soprattutto, in valore, di beni di consumo critici (ne sono esclusi il 16%) e intermedi generici (15%), mentre misurati in varietà, quote importanti di prodotti sostituibili provengono anche dai beni capitali e dalle altre tipologie di intermedi (tutti intorno a 20%). Ciò significa che le varietà di semilavorati specifici e, soprattutto, di beni capitali che sono potenzialmente sostituibili con scambi europei, seppur rilevanti numericamente, pesano poco come valore delle importazioni.

Tabella Beni capitali come numerosità e beni di consumo in valore maggiormente sostituibili nei mercati UE - Rapporto Catene di fornitura 2023

Infine, gli scambi tra paesi membri riescono a supplire, in valore, all’import critico proveniente da alcuni specifici paesi extra-UE, che però sono marginali come paesi fornitori dell’Unione europea (per esempio la Groenlandia). Le quote sostituibili dei prodotti vulnerabili provenienti da paesi importanti come gli Stati Uniti (5%), la Cina e l’India (8%-9%) sono invece più piccole; maggiori le quote rimpiazzate dell’import critico proveniente da alcuni paesi africani (Libia, Egitto) e dall’Ucraina (50% circa).

In conclusione, il criterio degli scambi intra-area permette di restringere l’insieme di prodotti critici dell’Unione, anche se non può essere utilizzato per confrontarli con quelli statunitensi e cinesi.

2.5Le dipendenze critiche italiane

2.5.1 L’Italia a confronto con l’Europa

Per confrontare le dipendenze italiane con quelle europee e degli altri paesi membri, il criterio di sostituibilità con i flussi intra-area si sdoppia, dal lato dell’import e da quello dell’export (che a livello paese differiscono). Le dipendenze critiche dell’Italia si aggirano intorno al 16% del totale del valore delle importazioni (29 miliardi di euro circa su 187 in media) nel periodo 2012-2021 e intorno al 7% come varietà di prodotti rispetto a tutte le tipologie importate (370 prodotti su 5.042)

Le dipendenze dell’Italia sono piuttosto stabili e vicine, in termini relativi, a quelle dell’UE se misurate come varietà di prodotti coinvolti, mentre sono molto più variabili in valore, oltre a pesare relativamente di più sul totale delle importazioni italiane (50-100% in più di quelle europee tra il 2014 e il 2020; Grafico 2.12).

Grafico Dipendenze italiane simili a quelle UE per numerosità ma maggiori in valore - Rapporto Catene di fornitura 2023

Più eterogenea l’origine delle dipendenze critiche italiane

Rispetto all’UE, che mostra una chiara e netta prevalenza della Cina come principale area di provenienza dei prodotti critici (50-60% circa del totale del valore dell’import vulnerabile), per l’Italia l’import critico ha storicamente un’origine molto più variegata (Grafico 2.13), con una componente molto forte per buona parte del periodo anche dell’area della Russia e degli altri paesi della Comunità degli Stati Indipendenti (CIS) e dell’Africa (nel periodo 2012-2021 importiamo principalmente gas, per una quota pari al 71%-83% di tutto l’import critico rispettivamente dall’Africa o dalla Russia in valore). In particolare, dal 2013 l’area della Russia e degli altri paesi del CIS comincia a pesare in maniera preponderante nel valore complessivo delle importazioni critiche italiane (20-30% fino al 2019; nel 2012 valeva il 6% circa), così come i prodotti afferenti alla filiera delle commodity, della chimica e dell’energia (50-60% fino al 2019; nel 2012 valevano il 30% circa).

Negli ultimi tre anni si nota una crescita della quota della Cina anche nelle dipendenze italiane. Nel 2020 infatti la quota maggiore proviene dalla Cina (circa 24%, +10 p.p. rispetto al 2019), così come si riduce l’import critico che ricade nella filiera delle commodity a favore soprattutto del tessile (circa 17% del valore dei prodotti critici, +10 p.p. rispetto all’anno precedente). Infine, il picco del 2021 dell’area del Medio Oriente è rappresentato per oltre il 35% da gas e per il 37% circa da petrolio.

Grafico Cresce l’import critico italiano da Cina e Medio Oriente - Rapporto Catene di fornitura 2023

Inoltre, mentre per l’Unione europea la filiera dell’ICT, media e computer è sempre quella che assorbe la quota nettamente maggiore dell’import critico (30-50% a seconda dell’anno considerato), in Italia la filiera più rilevante in termini di valore è quella delle commodity, della chimica e dell’energia (30-55% a seconda dell’anno): si tratta principalmente di gas e altri combustibili fossili in valore (e di prodotti chimici in gomma e plastica come varietà). Come varietà per filiera, invece, la composizione delle dipendenze critiche italiane e di quelle europee è piuttosto simile, con le filiere dell’agro-alimentare e del tessile che si contendono alternativamente le quote maggiori (20-30% di tutte le tipologie di prodotti critici).

In generale, quindi, spicca l’importanza del gas, in valore, per le criticità italiane, anche rispetto alla media europea. La dipendenza dalla Russia è diminuita nel biennio 2020-2021, anche grazie alla disponibilità di fornitori alternativi. Un trend di sostituzione che si è senz’altro rafforzato nel 2022 e nel 2023.

Come categorie di prodotti, infine, sia per l’Italia sia per l’Europa la componente più rilevante in valore sono i beni di consumo (che rappresentano anche la categoria prevalente per l’UE come varietà di prodotti critici, mentre per l’Italia pesano all’incirca in egual misura beni di consumo e intermedi specifici), seguiti per l’UE da beni capitali e per l’Italia da beni intermedi generici, coerentemente con la forte vocazione italiana per la manifattura, settore trasformatore di input provenienti dall’estero.

2.5.2 L’Italia a confronto con Francia e Germania

Come si confrontano le criticità italiane rispetto a quelle di Germania e Francia, le altre due principali economie europee?

Innanzitutto, misurate in valore le dipendenze francesi e tedesche si attestano su valori relativamente simili a quelli dell’Italia: tutti e tre i paesi oscillano su quote del 15% rispetto al totale del valore delle proprie importazioni (Grafico 2.14). Tuttavia, esistono importanti differenze nelle rispettive dinamiche. Mentre le dipendenze italiane sono salite negli ultimi anni (fino intorno al 17% nel 2020), per poi diminuire nel 2021 (al di sotto del 15%), le dipendenze francesi mostrano una decisa tendenza discendente già a partire dal 2018, che ha comportato una diminuzione di circa 5 p.p., confermata l’anno successivo anche nella varietà di prodotti critici importati. Le dipendenze tedesche, sostanzialmente stabili come tipologia, inferiori alle francesi e poco sopra quelle italiane, dopo un percorso virtuoso nel 2015-2019 di diminuzione, sono risalite in maniera decisa a partire dal 2019, riportandosi a livelli simili a quelli del 2015.

Analizzando l’andamento nel tempo della composizione dell’import critico, in termini di valore nel 2020 per la Francia quasi scompare la filiera dell’ICT, che invece rappresentava fino all’anno prima circa il 30% dei prodotti vulnerabili, e diminuiscono molto le importazioni critiche di beni capitali, mentre per la Germania nell’anno della pandemia e in quello seguente aumenta la quota rappresentata dal tessile e delle commodity (incluso il gas che, da solo, pesa sul totale dell’import critico 2020-2021 circa il 18% in valore).

Nel complesso, quindi, per le dipendenze francesi e tedesche l’area cinese prevale quasi sempre come paese fornitore così come la filiera dell’ICT ha un ruolo predominante sull’import critico in valore.

Per l’Italia invece l’origine geografica delle dipendenze critiche risulta molto più frammentata, mentre come filiere sembra in parte rispecchiare, almeno in valore, la forte dipendenza energetica dall’estero, soprattutto per il consumo di gas.

Grafico Variabili ma simili in media a quelle italiane le dipendenze francesi e tedesche - Rapporto Catene di fornitura 2023

2.6 Caratterizzare le dipendenze critiche dell’industria italiana

2.6.1 I 333 prodotti critici

Per meglio mettere a fuoco e caratterizzare le dipendenze dell’industria italiana, e quindi dare indicazioni anche ai fini di policy, l’analisi che segue si concentra sui beni capitali, cioè di investimento, e i beni intermedi, cioè materie prime e semilavorati utilizzati nei processi produttivi. Si escludono quindi i beni di consumo, per privilegiare appunto una lettura industriale delle dipendenze critiche. Inoltre, molti beni di consumo sono facilmente sostituibili con altri dalle caratteristiche merceologiche simili tramite cambiamenti marginali nelle abitudini di consumo. Viceversa, la sostituibilità tra input intermedi è mediamente più difficile, soprattutto nel breve periodo, e può comportare un effetto moltiplicativo degli shock lungo tutta la catena di produzione (si veda il capitolo 2.2). Alcuni prodotti energetici, compreso il gas naturale, sono esclusi tramite questa selezione, in quanto classificati come prodotti principalmente di consumo .

Per dare maggior robustezza ai risultati ed evitare di cogliere l’effetto di dipendenze saltuarie o superate negli ultimi anni, l’analisi che segue esclude i prodotti critici che non risultano più tali dopo il 2017. Sono fatti salvi, comunque, tutti i prodotti che rientrano tra le dipendenze strategiche pubblicate nel 2021 dalla Commissione europea.

Il totale dei prodotti critici così definiti rappresenta in media circa il 9% del valore del totale delle importazioni italiane (circa 17 miliardi di euro) e circa il 7% (333) come numero di diverse tipologie di prodotti importati tra il 2018 e il 2021 (Grafico 2.15).

Grafico Processo di selezione dei prodotti critici per l’industria italiana - Rapporto Catene di fornitura 2023

Questi prodotti si concentrano, in valore, nella filiera dei trasporti (che rappresenta il 23% del totale dei prodotti critici, principalmente per quanto riguarda la produzione di ferro e acciaio; Grafico 2.16), di cui però sono relativamente poche le varietà di prodotto (solo il 9% del numero totale), e nella filiera commodity, chimica ed energia (22% dei prodotti critici, che rientrano in grande maggioranza nella fabbricazione di prodotti chimici di base). Seguono la filiera dell’agro-alimentare (soprattutto produzione di oli e grassi vegetali e animali) e dell’ICT (principalmente attinenti alla fabbricazione di computer e periferiche e alla produzione di componenti e schede elettroniche; anche qui sono poche le varietà di prodotti), con quote intorno al 15-18%, e quella delle costruzioni e metalli di base (come metalli di base preziosi, e altri prodotti in metallo) e del tessile (in particolare prodotti per la preparazione e filatura delle fibre tessili e la tessitura), con quote in valore intorno al 10%; nell’ambito del tessile, in particolare, sono numerose le tipologie di prodotti critici, 23%, ma in quantità ridotte o mediamente poco costosi. La filiera della salute, infine, rappresenta il 5% del totale del valore dell’import critico.

Grafico Commodity, chimica ed energia la filiera che assorbe più import critico italiano - Rapporto Catene di fornitura 2023

I prodotti intermedi specifici (differenziati per le singole imprese o con tecnologie proprietarie, non facilmente sostituibili) rappresentano la tipologia prevalente, come numerosità, delle vulnerabilità dell’industria italiana dall’estero (46% del totale). Perdono però quota in valore, perché si tratta di acquisti relativamente ridotti, o di nicchia. Nel complesso, comunque, anche in valore il totale degli input intermedi costituisce la gran parte delle vulnerabilità italiane (81%), con una preponderanza di intermedi generici (omogenei per imprese di diversi settori, solitamente con un prezzo di riferimento di mercato, 41% del totale); i beni capitali rappresentano la quota residuale del 19%.

L’industria italiana dipende dalle forniture cinesi

Tra i paesi di provenienza dell’import critico dell’industria (Grafico 2.17), spicca la centralità della Cina, che rappresenta il primo fornitore per circa il 23% dei prodotti, come numero di diverse tipologie, che valgono oltre il 25% del valore dell’import critico, quasi 3,4 miliardi di euro all’anno in media. Seguono a distanza gli Stati Uniti, primo fornitore del 10% del totale delle varietà dei prodotti critici, che valgono però solo il 6% del totale (circa 800 milioni in valore), la Turchia (10% del totale delle varietà dei prodotti critici, circa 600 milioni in valore), l’India (l’8% circa dei prodotti, circa 307 milioni in valore), la Svizzera (circa il 4,5% delle varietà, per un valore complessivo di quasi 1,5 miliardi, oltre l’11% del totale in valore), il Brasile (meno del 2% delle varietà, circa 600 milioni in valore), l’Ucraina (intorno all’1% come varietà, ma quasi 1,2 miliardi di euro in valore, il 9% del totale). La Svizzera e l’Ucraina quindi rappresentano quote piccole come varietà, ma molto rilevanti in valore, per la tipologia di prodotti importati. I principali prodotti critici per valore importati dalla Svizzera rientrano nella manifattura dei prodotti chimici di base all’interno della filiera commodity, chimica ed energia (composti eterociclici con azoto, acidi nucleici e loro sali) e nella manifattura di farmaci e chimica per la farmaceutica, nella filiera della salute (ormoni peptidici, proteici e glicoproteici). Quelli importati dall’Ucraina spaziano invece tra varie filiere, tra cui i trasporti (semilavorati di ferro o di acciaio), agro-alimentare (olio di semi di girasole) e costruzioni (vari tipi di argille).

Grafico L’import critico italiano proviene soprattutto dalla Cina - Rapporto Catene di fornitura 2023

Quali dipendenze da Cina e Stati Uniti?

La vulnerabilità dell’industria italiana dalla Cina è concentrata, in valore, nei prodotti dell’ICT, per circa il 47% del valore dell’import critico per cui la Cina è il primo fornitore; si tratta di pochi prodotti (solo il 2% come varietà totale), che consistono in particolare in prodotti utilizzati nella fabbricazione di computer e periferiche (macchine per l'elaborazione e trascrizione di dati; lettori magnetici od ottici) e prodotti chimici utilizzati in ambito fotografico. In termini di numerosità, invece, primeggiano i prodotti del tessile (31% sul totale delle tipologie, 18% in valore), che invece sono molto differenziati. Le altre filiere rilevanti riguardano i trasporti (16% in valore, 11% come varietà) e le costruzioni, legno e metalli di base (circa il 14% in valore).

Circa la metà delle vulnerabilità dalla Cina, in valore, riguarda beni capitali (50,6%), mentre come numero sono principalmente input intermedi specifici (51%). Si tratta quindi di connessioni complesse, sia produttive che di investimento, non facilmente sostituibili.

Del totale del valore dell’import critico per cui gli USA sono il primo fornitore, invece, il 44% sono prodotti della salute (che però pesano solo il 6% come numero di prodotti; si tratta soprattutto di ormoni, in particolare insulina), e circa il 31% nella filiera delle commodity (che sono primi per varietà, 47% del totale) e della filiera delle costruzioni. Come tipologia, gli input intermedi specifici costituiscono la grande maggioranza delle vulnerabilità dagli Stati Uniti (86% in valore, 59% come numerosità).

I principali fornitori nelle filiere più critiche

Nelle due filiere i cui prodotti critici valgono di più, cioè quella delle commodity, chimica ed energia e quella dei trasporti, Cina e Stati Uniti non sono i principali fornitori. Nella prima filiera gli Stati Uniti si posizionano al terzo posto superati in valore da Svizzera (che esporta principalmente farmaci e principi attivi e prodotti della chimica) e Brasile (i prodotti di maggior valore sono di vario genere, dalla pasta di legno chimica al coke petrolifero e minerali non ferrosi; Tabella 2.4); la Cina è terza nella graduatoria dei fornitori per la seconda filiera, dopo Ucraina (i primi prodotti per valore sono tutti semilavorati di ferro o acciaio) e Emirati Arabi Uniti (in valore principalmente beni capitali come navi, veicoli a motore per il trasporto merci, apparecchi per gli aeromobili; Tabella 2.4). Per entrambe le filiere i primi fornitori mostrano quote estremamente diverse in termini di valore e varietà: infatti, sia per le commodity che per i trasporti l’industria italiana acquista pochi prodotti rispettivamente da Svizzera e Brasile o da Ucraina ed Emirati, ma di grande valore unitario o in grandi quantità. Per gli altri fornitori le differenze non sono così accentuate. Tra i principali fornitori della filiera delle commodity, della chimica e dell’energia manca la Russia, che risulta come primo fornitore solo per una tipologia di prodotto (il carbone di antracite); occorre però ricordare che alcuni prodotti energetici, compreso gas naturale e carbone, sono esclusi dall’analisi perché classificati come beni principalmente di consumo.

Tabella Primi 5 principali fornitori per la filiera delle commodity, della chimica e dell’energia e per quella dei trasporti - Rapporto Catene di fornitura 2023



BOX n. 2.2 - I fornitori potenzialmente sostituibili per i prodotti critici

L‘analisi delle vulnerabilità delle forniture all’industria italiana si basa su una fotografia delle dipendenze critiche in base al peso dei mercati extra-UE e alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento in questi mercati: quei prodotti per cui l’import risulta molto concentrato in pochi fornitori di provenienza extra-europea e che difficilmente possono essere reperiti alternativamente sul mercato interno europeo.

Ciò non esclude, tuttavia, che a livello mondiale possano esistere altri rilevanti fornitori, per quegli stessi prodotti, da cui l’Italia importa nulla o molto poco. Mettendo a confronto, per uno stesso prodotto, la distribuzione della fornitura italiana con quella mondiale è possibile verificare se, invece, esiste la possibilità di diversificare maggiormente l’import di questi prodotti critici, diminuendo la quota detenuta dai maggiori esportatori in Italia a favore di quelli meno rilevanti o assenti, in modo da aumentare la platea dei possibili paesi fornitori e diminuire il rischio di interruzione della catena di fornitura.

Possiamo confrontare, quindi, due diverse distribuzioni dei paesi esportatori in Italia: una effettiva, che osserviamo nei dati, e l’altra ipotetica, il più equidistribuita possibile in base alle quote degli esportatori mondiali.

Analizzando le due distribuzioni per filiera (Grafico A), si nota che potenzialmente i paesi di origine fornitori dei prodotti definiti come critici potrebbero essere molto più diversificati; sfruttando tutti i fornitori mondiali, la concentrazione delle catene di fornitura italiane potrebbe essere ridotta di quasi il 60%. Questo è vero soprattutto per la filiera dei trasporti (-66%), così come per la filiera agro-alimentare, delle costruzioni e delle commodity (tutte con diminuzioni sopra il 60%), mentre per la filiera della salute, probabilmente per la concentrazione dei principi attivi e anche perché coinvolge prodotti scambiati su mercati molto regolamentati e quindi con una platea di fornitori potenzialmente ridotta, si potrebbe ridurre la concentrazione della fornitura del solo 30% circa.

Tuttavia, non è detto che qualsiasi fornitore possa essere un potenziale sostituto dei paesi che attualmente esportano in Italia, soprattutto considerandone le caratteristiche ambientali e geopolitiche. Per maggiori approfondimenti su questo punto, si veda il BOX n. 2.5.

Grafico Sfruttando i “fornitori potenziali” potrebbe diminuire del 60% la concentrazione dell’import critico industriale - Rapporto Catene di fornitura 2023



2.6.2 I prodotti strategici

L‘ultimo step per la definizione di un ristretto gruppo di prodotti, per i quali è necessario pianificare politiche e strategie in grado di assicurare certezza e sicurezza delle forniture riguarda due dimensioni, tra loro complementari: la strategicità di determinati settori produttivi per l’economia nazionale ed europea, da una parte, e i fattori di rischio, geopolitico ed ambientale, associati a specifici paesi di origine, dall’altra.

La stessa Presidente Von der Leyen, nell’annuale discorso sullo stato dell’Unione di settembre 2022, ha affermato che per avere un contesto imprenditoriale favorevole serve un accesso alle materie prime necessarie per la nostra industria. È un’esigenza talmente importante, per cui da essa dipende la futura competitività di tutto il sistema produttivo europeo, non solo nazionale. Che si parli di semiconduttori per la realtà virtuale o di celle fotovoltaiche, saranno le materie prime ad alimentare la duplice transizione verde e digitale.

L’epidemia di Covid prima e la guerra poi, infatti, hanno messo in evidenza i limiti delle soluzioni di mercato nell’approvvigionamento di alcuni prodotti, che non possono essere soggetti a rischi di interruzione della fornitura. In quest’ottica, tra i prodotti vulnerabili si possono ulteriormente isolare quelli strategici, ovvero quell’insieme di prodotti che sono ritenuti indispensabili per garantire la sicurezza nazionale e la tutela della salute, oppure sono fondamentali per le ricadute sul sistema economico del paese e per assicurare un ruolo centrale nelle catene globali del valore in quei settori individuati come i principali driver della crescita economica e industriale del prossimo futuro, anche in base alle previsioni di domanda a medio-lungo termine di materie prime e tecnologie. In particolare, sono inclusi quei beni intermedi o capitali determinanti per la realizzazione della transizione energetica e di quella digitale, che a loro volta rafforzano la capacità competitiva (che deve essere eco-sostenibile) dell’industria e dei servizi.

Viceversa, la dimensione strategica permette di classificare come relativamente meno centrali alcune forniture critiche industriali, per esempio nel settore agro-alimentare e del tessile (sono già esclusi i prodotti di consumo), che possono essere rilevanti ma difficilmente rappresentano un rischio strategico per il potenziale di crescita dell’industria italiana o che comunque non sono in grado di mettere a rischio la salute e la sicurezza.

Per includere nell’analisi il maggior numero possibile di potenziali prodotti strategici e di considerare non solo le materie prime ma anche semi-lavorati e beni di investimento (ma sempre escludendo i beni di consumo), e quindi tutta la catena del valore, in una visione olistica che permetta di individuare dipendenze strategiche anche di natura tecnologica, sfruttiamo diverse fonti istituzionali che hanno compilato una lista di prodotti strategici, ovvero la Commissione europea, l'International Trade Administration (ITA, un'agenzia del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti che promuove le esportazioni di servizi e beni statunitensi non agricoli) e l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).

Dall’unione dei prodotti individuati da queste tre fonti, individuiamo per l’Italia 148 prodotti strategici dei 333 critici, cioè il 44% circa delle varietà e il 61% circa del valore di tutti i prodotti critici, così classificabili:

  1. Minerali, metalli e altre materie prime critiche
  2. Farmaci e principi attivi
  3. Prodotti della chimica
  4. Combustibili fossili
  5. Legno
  6. Altro (non classificabili nelle categorie precedenti)

Strategiche le materie prime per l’industria italiana

Analizzando la distribuzione dei prodotti strategici per tipologia (Grafico 2.18), la categoria più numerosa e di maggior valore aggregato è quella dei minerali, metalli e altre materie prime critiche (45% come numerosità, il 32% in valore) principalmente utilizzati nella produzione di ferro e acciaio, seguiti dai prodotti farmaceutici e dai principi attivi (20%, pari al 25% in valore) e da altri prodotti strategici (che sono il 18% delle varietà ma valgono il 40%), in prevalenza coinvolti nella produzione di computer e apparecchiature periferiche, nella costruzione di navi e strutture galleggianti e nella fabbricazione di carta e cartone. Minore invece la quota rappresentata dai prodotti della chimica, che comunque rappresenta il 14% di tutte le tipologie di prodotti critici (2% in valore), e di combustibili fossili e legno (che oscillano tra lo 0 e il 2%).

Grafico I prodotti strategici industriali sono soprattutto minerali, metalli e altre materie prime - Rapporto Catene di fornitura 2023

Come filiere, quelle maggiormente interessate dalla presenza di prodotti strategici rispetto al totale dell’import di prodotti critici sono, in ordine di importanza, quelle della salute, dell’ICT (oltre il 90% in valore ma intorno al 50% come varietà; Tabella 2.5), delle commodity e dei trasporti (circa l’85% in valore e tra il 60-80% come varietà) e delle costruzioni (oltre il 60% sia in valore sia in varietà). Al contrario, la filiera del tessile e della difesa non sono coinvolte. Tuttavia, la filiera della salute che conta relativamente poco sul totale dell’import critico, conta anche poco per il totale dell’import strategico (5%-6% in varietà e valore); ICT, commodity, costruzioni e trasporti restano invece le filiere che assorbono più prodotti o maggiore valore strategico.

Tabella Salute, ICT e chimica-energia le filiere con le dipendenze industriali più strategiche - Rapporto Catene di fornitura 2023

Prendendo in esame i principali fornitori di tutti i prodotti critici, del valore dell’import proveniente da Russia, Svizzera e Brasile sono considerabili strategici quote superiori al 90% (Tabella 2.6). Come varietà, però, solo Svizzera e Russia mantengono una prevalenza strategica. Molto alte le quote in valore anche per Giappone, Ucraina, Cina e Stati Uniti, che superano tutti il 60%, mantenendosi su circa la metà in valore, mentre dai restanti paesi sono strategiche quote tra il 15% e il 45% in valore e intorno al 30% come varietà, ad eccezione del Canada.

Tabella L’import da Russia, Svizzera e Brasile è quasi esclusivamente di tipo strategico in valore - Rapporto Catene di fornitura 2023

In termini di quote sul totale dell’import strategico altre due nazioni meritano di essere menzionate: gli Emirati Arabi Uniti, da cui tutto l’import critico si può considerare strategico e rappresenta l’8% del valore totale dell’import strategico e il Regno Unito, del cui import critico ben l’85% in varietà si può considerare strategico, che rappresenta, per numero di prodotti, il 6% di tutto l’import strategico.


BOX - Indicazioni di policy

Dal punto di vista delle politiche europee, il ragionamento si potrebbe estendere non solo ai materiali inseriti nei prodotti per i quali l’Europa è dipendente, che spesso non esprimono le reali dipendenze degli impianti produttivi nazionali, ma, in modo più ampio, considerare anche le esposizioni critiche dell’autonomia strategica aperta per la resilienza dell’intero comparto produttivo europeo. Tutto questo deve avvenire in un clima di forte cambiamento. Il tema, infatti, assume sempre maggiore rilevanza soprattutto se ricondotto alla piena realizzazione del Green Deal europeo.

Le dipendenze strategiche incidono sugli interessi fondamentali dell'UE, in particolare per quanto riguarda la salute, la sicurezza e l'accesso ai principali fattori di produzione e alle tecnologie necessarie per la transizione verde e digitale. L’Europa, oggi, contribuisce in minima parte alla disponibilità di materie prime critiche correlate alla transizione energetica ed è dipendente da 137 prodotti e materie prime in ecosistemi industriali sensibili. L’accesso alle risorse costituisce, quindi, una questione di sicurezza strategica.

Si dovrebbe tenere conto dei seguenti aspetti cruciali:

  1. Una distinzione chiara tra materie prime e prodotti critici e una valutazione sulle reali necessità del sistema industriale europeo, anche finalizzate alla promozione di scelte strategiche (estrazione, circolarità).
  2. Promozione della specializzazione delle industrie nei segmenti di mercato già coperti (estrazione, prima e seconda trasformazione, realizzazione dei prodotti finiti) favorendo l’integrazione del mercato europeo e non competizioni intra-comunitarie.
  3. Definizione di obiettivi chiari e “tecnologicamente” raggiungibili, con lo stanziamento di risorse europee adeguate a raggiungerli, direttamente erogabili ai sistemi industriali.
  1. Individuazione di filiere prioritarie sul quale costruire catene del valore forti e rafforzare l’autonomia strategica aperta, strutturando accordi di collaborazione industriale con paesi terzi.

Per quanto riguarda il tema degli iter burocratici, la fissazione di termini massimi per l'autorizzazione e l'accelerazione delle valutazioni di impatto ambientale hanno il potenziale di accelerare la diffusione dei progetti in Europa, non solo per i progetti strategici e critici sulle materie prime, ma per le attività industriali in generale; allo stesso tempo, l'attenzione dovrebbe essere rivolta anche agli atti giuridici che attualmente costituiscono un ostacolo nelle procedure di autorizzazione e per i quali è necessario raggiungere un maggiore equilibrio. Inoltre, è essenziale sviluppare il sostegno finanziario pubblico per rendere attraenti i progetti strategici quando gli investimenti privati non sono disponibili.

Sebbene l'impulso dell'atto sui Critical Raw Material (CRM) sia giustamente fissato, per renderlo operativo è necessaria in generale una maggiore coerenza normativa, in particolare tra la legislazione ambientale e l'ambizione di estrarre, trasformare e riciclare materie prime più critiche nell'UE. Gli ostacoli all'accelerazione dei processi di autorizzazione e delle operazioni industriali dovrebbero essere rimossi.

L'attuazione degli obiettivi richiede tempo per il cambiamento. Ciò rende ancora più importante non sovraccaricare le imprese ed evitare il più possibile gli oneri amministrativi, è pertanto necessario ridurre al minimo i nuovi obblighi di informazione e divulgazione da parte delle imprese, razionalizzandoli con quelli esistenti e proteggendo pienamente i segreti commerciali.


BOX n. 2.3 - I prodotti strategici per la transizione energetica

Sfruttando sia la classificazione dell’ITA sia quella dell’OCSE, è possibile individuare tra gli strategici quei prodotti maggiormente coinvolti nella transizione energetica, suddividendoli in prodotti utilizzati nella produzione di batterie, di celle a combustibile, di energia rinnovabile o per la cattura del carbonio. Alcuni prodotti risultano avere un impiego esclusivo nelle categorie sovra citate, altri invece possono essere utilizzati in più produzioni. In totale, tra i prodotti strategici individuati, 37 prodotti ricadono tra quelli per la transizione verde.

In particolare, le categorie più numerose risultano essere quelle dei prodotti che si usano alternativamente nella produzione di batterie, celle a combustibile o rinnovabili (24% del totale dei prodotti strategici necessari per la transizione verde; Tabella A), anche se in valore i prodotti che contano di più sono quelli dedicati esclusivamente alla produzione delle celle a combustibile (36% del valore).

Tabella I prodotti strategici per la transizione energetica sono impiegati soprattutto in celle a combustibile, batterie e tecnologie rinnovabili - Rapporto Catene di fornitura 2023

Come fornitori, la maggior parte dei prodotti strategici impiegabili nella transizione verde proviene dalla Cina, e in piccola parte dall’Egitto, dal Regno Unito, dagli Stati Uniti e dalla Turchia (Tabella B).

Dalla Cina, in particolare, l’industria italiana per la transizione energetica dipende, in modo critico, soprattutto per la fornitura di circuiti stampati per le celle a combustibile, ma anche per l’import di magneti per la produzione di energia rinnovabile, metalli (rame e manganese) per la produzione di batterie, celle a combustibile e tecnologie rinnovabili, magnesio per la produzione alternativamente di batterie o energia rinnovabile, metalli delle terre rare, scandio e ittrio per le tecnologie rinnovabili.

Tabella L’import strategico per la transizione verde proviene soprattutto dalla Cina - Rapporto Catene di fornitura 2023


BOX n. 2.4 - Le materie prime strategiche

Tra le diverse classificazioni dei prodotti strategici merita particolare attenzione quella dei Minerali, metalli o e altre materie prime critiche, poiché diversi sforzi di policy vanno nella direzione di alleviare le dipendenze proprio in quest’area.

In particolare, il Critical Raw Materials Act presentato a metà marzo 2023 dalla Commissione europea prevede una serie di azioni «per garantire l’accesso dell’UE a un approvvigionamento sicuro, diversificato, accessibile e sostenibile di materie prime essenziali», indispensabili per raggiungere gli obiettivi prefissati in ambito climatico e digitale attenuando i rischi per le catene di approvvigionamento legati a tali dipendenze strategiche e migliorando la resilienza economica dell’UE. A oggi, infatti, l’Europa è dipendente in misura elevata – se non completa – dalle importazioni di questi prodotti, spesso da fornitori di paesi terzi quasi monopolistici, ed è quindi vulnerabile a potenziali interruzioni negli approvvigionamenti.

Tra i 148 prodotti strategici, 67 sono materie prime (45%), e valgono ben il 32% dell’import strategico. Si tratta, in base alla classificazione delle attività economiche definita dalla Divisione Statistica delle Nazioni Unite, di minerali (20 prodotti), metalli (18), prodotti chimici (16) e metalli ferrosi (13). In valore, i prodotti che contano di più sono prodotti afferenti alla produzione di ferro e acciaio (quasi l’80%) mentre come varietà contano circa il 20%, molto vicini comunque alle due categorie più numerose dei prodotti chimici di base e dei metalli di base preziosi e altri metalli non ferrosi (Grafico A).

Grafico Tra le materie prime strategiche soprattutto ferro e acciaio e minerali non metalliferi - Rapporto Catene di fornitura

Di questi 67 prodotti, inoltre, 28 sono prodotti potenzialmente coinvolti nella transizione verde; in particolare 9 prodotti, che rappresentano il 37% circa del valore totale delle materie prime strategiche coinvolte nella transizione green possono essere utilizzati alternativamente nella produzione di batterie, celle a combustibile o nella produzione di energie rinnovabili.

Come filiere, questi prodotti afferiscono principalmente a quella dei trasporti se considerati in valore (79% circa; Grafico B) anche se si tratta di pochi prodotti (19% circa), mentre in maniera residuale fanno riferimento alla filiera delle costruzioni (15%) e delle commodity (6%). Tuttavia, in particolar modo trattandosi di prodotti che potrebbero avere un basso valore unitario, è importante sottolineare che proprio in quest’ultima filiera importiamo la maggiore varietà di prodotti (39%), seguita da quella delle costruzioni (42%).

Grafico Trasporti e chimica-energia le filiere più rappresentate tra le materie prime strategiche - Rapporto Catene di fornitura 2023

Come paesi fornitori, l’import critico di materie prime proviene principalmente dall’Ucraina (si tratta di un solo prodotto, che appartiene ai prodotti semilavorati di ferro o acciaio, che vale ben il 37% in valore totale dell’import strategico di materie prime; Grafico C), dalla Russia (3 tipi di prodotti, prodotti ferrosi, nichel e ghisa, che corrispondono al 18% in valore) e dalla Cina (da cui proviene la quota maggiore in termini di varietà, 22%, ovvero 15 prodotti, che però valgono complessivamente poco più del 12% dell’import strategico di materie prime in valore). Importanti come numerosità sono anche la Turchia (13%) e gli Stati Uniti (10%) da cui importiamo prodotti chimici in gomma e plastica (4 tipi di prodotti per la Turchia e 2 per gli USA), minerali (3 tipologie per la Turchia e 1 per gli USA), metalli ferrosi (2 tipologie per la Turchia) e metalli (4 tipologie per gli USA).

Grafico Le materie prime strategiche provengono soprattutto da Ucraina, Russia e Cina - Rapporto Catene di fornitura 2023

La posizione Confindustria sui Critical Raw Material

Come già detto, Confindustria ha accolto con favore l’iniziativa della Commissione europea sul Critical Raw Materials Act per garantire un accesso sostenibile alle materie prime critiche. Questo aspetto, infatti, è fondamentale e necessario per sostenere l’ambizione dell’UE di essere il primo continente a neutralità climatica e di assicurarsi che il futuro dell’industria sia made in Europe.

Inoltre, la transizione verso un’economia a basso tenore di carbonio e circolare renderà sempre più importanti le materie prime secondarie.

In questo contesto, si evidenzia che la Commissione europea riconosce l’industria siderurgica come un settore prioritario per la transizione verso un’economia circolare e neutrale dal punto di vista climatico: il riciclo dei rottami ferrosi nell’UE svolge e svolgerà in futuro un ruolo fondamentale non solo per la decarbonizzazione, ma quando vengono riciclati durante la produzione dell’acciaio servono anche a fornire ferro e alcuni CRM (Critical Raw Material), come ad esempio vanadio, tungsteno, ittrio, niobio, per numerosi tipi di acciaio utilizzati in settori industriali chiave che forniscono prodotti ad alta tecnologia e innovazioni emergenti.

Per tale ragione, per sostenere il riciclo e il riutilizzo dei suddetti CRM all’interno dell’UE e sfruttare pienamente la circolarità dei rottami come preziosa materia prima secondaria, riteniamo sia necessario includere tali rottami nell’elenco dei CRM. Aumentare l’utilizzo delle risorse secondarie generate internamente all’UE, infatti, è uno dei fattori chiave non solo per preservare risorse naturali, ma anche per conseguire gli obiettivi UE di riduzione delle emissioni di CO2 e traguardare la neutralità climatica al 2050.

Il rottame, infatti, è la materia prima essenziale per la siderurgia a forno elettrico (processo produttivo per cui l’Italia vanta il primato in Europa) che sfrutta la completa riciclabilità dell’acciaio, materiale “permanente” che può essere rifuso per cicli multipli senza perdita di proprietà. Stessi ragionamenti valgono anche per l’alluminio. Con specifico riferimento al contesto nazionale, la produzione siderurgica è caratterizzata da un elevato utilizzo della tecnologia a forno elettrico, che copre circa l’85% della produzione nazionale e di conseguenza il nostro Paese occupa il primo posto in UE per il riciclo del rottame. Attualmente, la siderurgia italiana non riesce a soddisfare il proprio fabbisogno di rottame con la sola raccolta nazionale: il rottame è generato sul territorio nazionale per un quantitativo di circa 15 milioni di tonnellate (mt), inclusi i recuperi interni delle stesse aziende siderurgiche, e il resto del fabbisogno pari a circa 5 mt è soddisfatto attraverso le importazioni, principalmente da paesi UE, ma parzialmente anche da extra-UE.

L’Unione europea nel suo complesso è invece un esportatore netto di rottame, con esportazioni in forte aumento negli ultimi anni: i rottami ferrosi, ad esempio, sono oggi il rifiuto di gran lunga maggiormente esportato dall’UE (quasi il 50% del totale dei rifiuti esportati) passando da 9 mt esportate nel 2015 a oltre 19 mt nel 2021, con un aumento di oltre il 110%.

Il riciclo virtuoso del rottame ferroso è uno degli esempi più chiari della possibilità di combinare i principali obiettivi che l’UE si è posta per i prossimi decenni: autonomia strategica, economia circolare, decarbonizzazione, risparmio energetico. Per ogni tonnellata di rottami di acciaio al carbonio riciclati, si ottiene un risparmio di 1,5 tonnellate di CO2 e del consumo di 1,4 tonnellate di minerale di ferro, 740 kg di carbone e 120 kg di calcare. Nel caso di rottame di acciaio inossidabile si possono risparmiare circa 5 tonnellate di CO2 per tonnellata di acciaio inossidabile.

Pertanto, sia in considerazione della scarsa dotazione di risorse primarie di origine estrattiva in Europa, sia, soprattutto, alla luce dei nuovi obiettivi strategici dell’Unione, il rottame dovrebbe essere considerato una risorsa critica da preservare, aumentandone la disponibilità e la qualità per gli impianti europei.

Inoltre, l’elenco delle materie prime critiche deve essere esteso ad altre materie prime primarie, al fine di evitare probabili carenze future che potrebbero avere un impatto significativo sulle industrie europee e, di conseguenza, sull’economia dell’UE e sui suoi settori prioritari.

Tra i materiali che dovrebbero essere aggiunti all’elenco dei CRM, data la loro criticità per l’industria siderurgia europea, vi sono, oltre i rottami ferrosi, anche nichel e manganese.

Tra l’altro, sempre con riferimento al settore siderurgico, si fa notare altresì che questo importa buona parte delle materie prime come ghise, minerale preridotto, ferroleghe e rottame ferroso da paesi europei ed extra europei.

La revisione dell’atto CRM rappresenterà un’opportunità unica per la Commissione europea di ridurre la dipendenza dalle materie prime critiche, attraverso l’inclusione di altre materie prime primarie fondamentali nell’elenco dei CRM, come il nichel (componente primario delle batterie agli ioni di litio, tecnologia per le applicazioni principali del settore automobilistico e dei sistemi di stoccaggio dell’energia) e il manganese (anch’esso sempre più utilizzato nel settore delle batterie), e il riconoscimento della criticità delle materie prime secondarie così come i rottami ferrosi.


BOX n. 2.5 - I prodotti a rischio geopolitico e climatico

Il rischio politico delle forniture extra-UE attraverso l’analisi SACE Nello sforzo di individuare per l'Italia i prodotti più vulnerabili lungo tutte le catene di fornitura, diventa sempre più cruciale, nell’attuale quadro di tensioni geopolitiche, monitorare le vulnerabilità associate alle importazioni di questi prodotti critici, analizzando i rischi intrinseci ai paesi fornitori, soprattutto in termini di fragilità politico-istituzionali e regolatorie. Il rischio di disruption o di completa interruzione nell’approvvigionamento di prodotti critici da fornitori esteri può essere influenzato da dinamiche di natura “politica” o “geoeconomica” registrate in quei paesi. Tali eventi possono afferire ad esempio a instabilità politico-istituzionale o atti di violenza politica, oppure a fragilità nel quadro giudiziario-regolatorio, tali da compromettere la normale fornitura di determinati prodotti da quelle geografie verso l’estero o verso alcuni specifici paesi.

Appare quindi importante analizzare tali rischi, di seguito richiamati sotto la comune accezione di “rischi politici”, con l’obiettivo di evidenziare le principali vulnerabilità sotto questi aspetti, in particolare riferiti ai fornitori extra-UE dei prodotti critici evidenziati dal Centro Studi Confindustria.

Per “misurare” i rischi politici sono stati utilizzati alcuni degli indicatori SACE, elaborati nell’ambito delle diverse attività di analisi del rischio paese. In particolare, sono stati utilizzati l’indicatore di rischio violenza politica, guerra e disordini civili e l’indicatore di rischio esproprio, confisca e nazionalizzazione.

Per ognuno dei 333 prodotti critici precedentemente individuati sono stati quindi calcolati due indicatori: la quota di fornitura da paesi extra-UE (calcolata sul totale dell’import italiano) e il rischio politico medio dei fornitori extra-UE (“pesati” in base alla propria quota di fornitura). Questi due aspetti sono stati messi in relazione tra di loro sulla base della rispettiva distribuzione in quartili (Tabella A).

Tabella Distribuzione dei prodotti critici in base a peso dell’import extra-UE e rischio politico dei fornitori extra-UE - Rapporto Catene di fornitura 2023

Rispetto ai prodotti critici individuati, per circa un centinaio di essi si rileva un rischio di approvvigionamento particolarmente elevato, in quanto riconducibile per oltre l’84% a paesi al di fuori del mercato unico e caratterizzati da un rischio politico classificato come alto o medio-alto (quadranti evidenziati in rosso in Tabella A).

Concentrandoci sul quadrante che incrocia il quarto quartile di entrambe le dimensioni, troviamo, ad esempio, prodotti forniti prevalentemente da paesi come la Russia (rischio politico medio pari a 96), primo fornitore di antracite con un peso del 79% sull’import proveniente dai paesi extra-UE e di alcuni prodotti in ferro e acciaio; l’Ucraina (90) anch’essa rilevante per la fornitura di vari prodotti in ferro, ma anche Turchia (79) primo fornitore di prodotti quali l’antimonio – utilizzato ad esempio nella produzione di smalti, vernici e ceramica – e il dicromato di sodio – usato in vari processi industriali, specie nella chimica – ed Egitto (72), particolarmente rilevante per l’import di polveri di alluminio. Tra gli altri prodotti di questo stesso quadrante possiamo citare anche i filati di cotone e di altri materiali importati da paesi con fragilità politiche quali Pakistan (80) e Bangladesh (63), oppure legno iroko utilizzato nell’industria dell’arredamento, acquisito per la maggior parte da Camerun (74) e Gabon (66). Non bisogna tuttavia trascurare quei prodotti – circa settanta – per i quali la quota importata dall’extra-UE è relativamente più contenuta ma per cui il rischio politico rimane in una fascia alta (quadranti evidenziati in arancione nella Tabella A). È il caso, ad esempio, di alcuni prodotti chimici come l’ammoniaca e l’urea importati, tra gli altri, dall’Algeria (67), ma anche di prodotti chimici per la farmaceutica e ossidi di stronzio o bario acquistati dalla Cina (52), oppure di minerali come la vermiculite e la perlite utilizzati in agricoltura, industria ed edilizia importati dal Sudafrica (56).

Uno sguardo alle filiere con prodotti critici a rischio più elevato Altrettanto interessante è analizzare i prodotti critici ricondotti alle rispettive filiere di principale impiego individuate in precedenza. In questo senso sono soprattutto le filiere dei trasporti, del tessile e dell’agroalimentare a denotare maggiori criticità, registrando al contempo sia un’elevata quota delle forniture dai paesi extra-UE sia un rischio politico medio-alto (Tabella B).

Tabella I prodotti critici per filiera - Rapporto Catene di fornitura 2023

Dei 78 prodotti inclusi nella filiera del tessile, ad esempio, quasi il 40% riporta un rischio politico alto (superiore a 58 punti), cui si aggiunge un ulteriore 42% di prodotti a rischio medio-alto (superiore a 51 punti). Tra i principali fornitori per questa filiera figurano svariati partner asiatici, tra cui Cina, India (con rischio politico pari a 48) e Pakistan, ma anche mercati geograficamente più vicini quali Turchia, Egitto e Tunisia (69). La filiera agroalimentare vede oltre il 70% dei suoi 46 prodotti caratterizzato da un rischio politico tra medio-alto e alto, mentre dei 29 prodotti di quella dei trasporti lo sono circa il 50%. La prima registra quote di import rilevanti da Ucraina (principalmente olio di semi di girasole), Indonesia (con un rischio politico 57, da cui importiamo in particolare olio di palma), Brasile (52; es. olio di arachide, cere vegetali) e Cina (es. ginseng, bambù e grassi e oli animali), in parte bilanciati da fornitori con fragilità politiche meno rilevanti come Stati Uniti (rischio politico 25; fornitore in particolare di semi di soia e grano duro) e Regno Unito (21, es. tacchini, copra e oli di fegato di pesce). Nella filiera dei trasporti, Cina e Turchia detengono quote importanti di fornitura di prodotti critici in vari comparti: mentre il Paese del Dragone è il primo fornitore di tubi di gomma, alcuni prodotti in metallo, alcune tipologie di nave e orologi da navigazione, la seconda è particolarmente rilevante per l’approvvigionamento di ferrocromo, autoveicoli per il trasporto merci e alcune tipologie di nave; dall’India provengono inoltre diversi prodotti in metallo a vari stadi di lavorazione. Il profilo di rischio di questa filiera beneficia anche in questo caso della presenza di partner quali Stati Uniti e Regno Unito, il cui import è particolarmente rilevante in un comparto di specializzazione, rispettivamente, apparecchi e dispositivi per il lancio o l’appontaggio di veicoli aerei e accumulatori elettrici al nichel-ferro.

L’import della filiera PA, difesa e altro, invece, pur mostrando un peso particolarmente elevato dai paesi extra-UE, registra al contempo un rischio politico molto contenuto: i due prodotti identificati come critici in tale filiera sono infatti importati per la maggior parte da geografie con rischio politico limitato, come Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti (questi ultimi con rischio pari a 31).

I potenziali impatti dei rischi di cambiamento climatico sull’approvvigionamento di prodotti critici Oltre ai sopracitati rischi politici, la decisione di interrompere o sospendere la fornitura a clienti esteri di un determinato prodotto critico può altresì scaturire da fattori in qualche misura “esogeni”, ovvero non dipendenti dalla volontà del paese fornitore. Questo può essere ad esempio il caso di eventi naturali estremi, in grado di impattare sulla capacità nazionale di produzione e/o di esportazione di tali prodotti.

In questo senso, può quindi essere interessante affiancare alle considerazioni riguardanti il rischio politico dei paesi fornitori anche una analoga analisi dei possibili rischi di eventi climatici estremi in queste geografie. Per fare questo, possono essere utilizzati gli indicatori di climate change risk, sviluppati da SACE – in collaborazione con Fondazione Enel – tesi a misurare gli impatti in termini di pericolosità, vulnerabilità ed esposizione di eventi come le alte temperature (es. siccità, ondate di calore), le fragilità idrogeologiche (alluvioni, inondazioni) e le tempeste (cicloni, uragani) sui contesti ambientali e socioeconomici di riferimento. Alcune aree del mondo risultano infatti maggiormente esposte a tali rischi rispetto ad altre (Grafico A).

Grafico rischi del cambiamento climatico sul mappamondo - Rapporto Catene di fornitura 2023

Affiancando dunque la dimensione del rischio climatico all’analisi, si nota come nella filiera del tessile si aggiungano anche criticità da questo punto di vista (Tabella C): diversi prodotti critici per questa filiera provengono infatti da geografie suscettibili di rischi climatologici come ad esempio la Cina, che registra un rischio climatico pari a 99, il Bangladesh (96), l’India (94), l’Australia (88) o il Sudafrica (84). Per quanto riguarda la filiera dell’ICT, media e computer – che sotto le altre due dimensioni di analisi figurava tra le meno rischiose – si evidenzia un’elevata vulnerabilità ai rischi legati al cambiamento climatico, trovando tra i principali fornitori, oltre alla Cina, paesi asiatici ad alto rischio quali Taiwan (99), Thailandia (95) e Vietnam (87), solo in parte compensati da fornitori relativamente meno rischiosi come Stati Uniti (42) e Svizzera (37).

Tabella Come varia l’analisi dei prodotti critici per filiera considerando anche il rischio climatico - Rapporto Catene di fornitura 2023

Come migliorare il profilo dei rischi: i “fornitori potenziali”

Le rappresentazioni esposte fanno riferimento ai fornitori dell’UE attuali (dati riferiti al periodo 2018-2021). Il ventaglio dei fornitori attuali può essere tuttavia riformulato, soprattutto nella misura in cui si rileva una eccessiva concentrazione su un solo paese fornitore o un eccessivo livello di rischio per alcuni prodotti critici importati. Proprio in quest’ottica, il Centro Studi Confindustria ha individuato nuovi fornitori potenziali che possano sostituire in parte quelli attuali, ampliando il numero delle fonti di approvvigionamento (si veda il BOX n. 2.5). Grazie a tale maggiore diversificazione, si potrebbe difatti ottenere un relativo miglioramento del profilo di rischio politico medio associato ai prodotti (Tabella D).

Tabella L’impatto di diversificare i fornitori di prodotti critici - Rapporto Catene di fornitura 2023

Difatti, il numero dei prodotti ora presente nei quattro quadranti rossi – ovvero caratterizzati da un peso dell’import dai paesi extra-UE e da un profilo di rischio politico alto – è pari a 81 (con gli attuali fornitori è pari a 96; Grafico A), così come nei quattro quadranti verdi ne figurano 116 (aumentati rispetto agli attuali 97). In particolare, a prescindere dal peso extra-UE, una strategia di diversificazione dei fornitori permetterebbe le riduzioni maggiori rispetto allo stato attuale dei prodotti inclusi nel quartile a rischio politico alto (-27) e gli incrementi più elevati per i prodotti del quartile a rischio politico medio-basso (+59).

A livello di prodotti, il rischio politico associato ad alcuni tipi di minerali a oggi importati per la quasi totalità da uno o due fornitori extra-UE beneficerebbe dell’introduzione di nuove fonti di approvvigionamento a minor rischio. È il caso, ad esempio, dei minerali di manganese e loro concentrati, riconducibili alla filiera di commodity, chimica ed energia e a oggi importati prevalentemente da Sudafrica e Gabon, il cui rischio si ridurrebbe di 11 punti diminuendo le quote di import dai due paesi africani in favore dell’Australia. Analogamente, il rischio associato ai minerali di molibdeno passerebbe da 55 a 42 se ai fornitori odierni – Perù e Cina – si aggiungessero Stati Uniti, Cile, Messico e Canada. All’interno della filiera di costruzioni, legno e metalli di base, gli acquisti di polveri e pagliette di nichel potrebbero registrare una diminuzione significativa di rischio (-48 punti) per effetto di una riduzione delle forniture dalla Russia in favore di quelle provenienti da Canada, Giappone e Australia. Parimenti, il rischio associato all’import di mezzi quali navi pompa e pontoni-gru nella filiera dei trasporti vedrebbe un miglioramento (-32 punti) grazie alla riduzione delle forniture dalla Turchia – ad oggi la fonte di approvvigionamento di gran lunga maggiore al di fuori del mercato unico – in favore di Corea del Sud, Cina e India.



2.6.3 I prodotti strategici più a rischio

Utilizzando contemporaneamente l’indice di rischio geo-politico e quello di rischio climatico (si veda il BOX n. 2.5) selezioniamo, infine, i prodotti strategici e ad alto rischio, politico o ambientale. Senza la pretesa di identificare un unico indice sintetico di entrambe le tipologie di rischio, quindi, incrociamo le dimensioni della strategicità e del rischio, in modo da ottenere una lista di prodotti su cui indirizzare più urgentemente l’attenzione del decisore pubblico.

I prodotti ad alto rischio rappresentano poco meno della metà dei prodotti critici, il 46% come numerosità e il 49% in valore. Includendo la dimensione strategica, si ottiene un insieme di 62 prodotti estremamente critici, perché allo stesso tempo strategici e quindi appartenenti a categorie di particolare interesse per lo sviluppo industriale italiano e provenienti da un set di paesi che complessivamente determinano un elevato profilo di rischio, geopolitico e/o climatico.

I prodotti strategici a maggior rischio rappresentano, nonostante siano in numero ridotto, ben il 38,5% del totale del valore dei prodotti critici, mentre sono solo il 18,6% come varietà.

Inoltre, 27 di questi prodotti sono materie prime. Essi costituiscono la maggior parte, in valore, delle dipendenze strategiche nelle materie prime (circa il 70%; si veda il BOX n. 2.4). Sono soprattutto prodotti per cui l’Ucraina o la Russia sono il primo fornitore, mentre come numerosità sono principalmente prodotti il cui fornitore più rilevante è la Cina, la Turchia o gli Stati Uniti.

Se misurati in valore, la filiera per cui la quota di gran lunga maggiore di importazioni critiche è sia strategica sia ad alto rischio è quella dell’ICT (93%, Grafico 2.19), seguita da quella dei trasporti e delle costruzioni (rispettivamente 56% e 44%). Quasi trascurabili invece le quote della filiera delle commodity-chimica-energia (7%), dell’agro-alimentare (1%) e della salute (0,1%). Come varietà di prodotti invece, le quote si agirano intorno al 25-30% per tutte le filiere tranne per quella della salute (8%) e dell’agro-alimentare (4%). Nessuno di questi prodotti estremamente critici rientra nella filiera del tessile o in quella della Pubblica Amministrazione e della difesa.

Grafico L’ICT è la filiera in cui l’import strategico ad alto rischio pesa di più - Rapporto Catene di fornitura 2023

Di conseguenza, possiamo dedurre che i prodotti più critici tra i critici e a maggior rischio di interruzione di fornitura sono principalmente prodotti ICT (prodotti chimici per la gomma-plastica ed elettronici) e nei trasporti (soprattutto nella produzione di ferro e acciaio).

Tra i principali fornitori di import critico, risultano naturalmente assenti in quest’ultima selezione i paesi a medio-basso rischio (politico o climatico), come Stati Uniti, Canada, Giappone e Svizzera, ma anche Brasile e Indonesia. Da Russia e Ucraina, si tratta invece in prevalenza di import sia strategico sia ad alto rischio; sono quindi prodotti per cui non solo questi due paesi risultano i fornitori principali, ma per cui gli altri fornitori o ricoprono quote molto piccole o sono comunque paesi “rischiosi”. Dell’import che proviene dalla Cina, oltre la metà in valore è sia strategico sia a rischio geopolitico o climatico, ma la quota scende molto come varietà di prodotti. Da Egitto e Turchia l’import estremamente critico si aggira tra il 30-40%, mentre per l’India le quote sono molto più basse, sotto il 15% (Grafico 2.20).

Grafico Da Russia e Ucraina la maggior quota di import critico sia strategico sia ad alto rischio - Rapporto Catene di fornitura 2023

Dove siamo
Complementary Content
${loading}