L’iperglobalizzazione dei primi anni Duemila ha lasciato il posto a una fase di globalizzazione lenta (slowbalization). Tuttavia, la globalizzazione resta profonda e complessa, con dinamiche eterogenee lungo le sue molteplici dimensioni.
L’intensità degli scambi mondiali di beni si è rafforzata, in rapporto alla produzione industriale. Rispetto al PIL, invece, è frenata dalla terziarizzazione dei paesi emergenti e dipende dalle fluttuazioni nei prezzi delle commodity. Nel complesso, il commercio di beni è risalito al 25% del PIL globale nel 2022, sugli stessi livelli pre-crisi finanziaria 2008.
Cresce l’importanza dei flussi internazionali di servizi, come quelli professionali alle imprese, anche grazie agli avanzamenti digitali e alle competenze disponibili nei paesi emergenti. Nel 2022 gli scambi mondiali di servizi hanno superato il 7% del PIL, il doppio rispetto a inizio anni Novanta.
Sono deboli, invece, gli investimenti diretti esteri (IDE), che risentono per primi delle spinte centrifughe e dell’elevata incertezza generate dalle tensioni geopolitiche e dai ripetuti shock globali. I flussi di IDE sono caduti complessivamente del 17% nell’ultimo triennio 2020-2022.
Per quanto riguarda la struttura geografica degli scambi di beni, l’esplosione della Cina e dell’Asia emergente è un forte fattore di globalizzazione: si è ridotta la barriera intercontinentale agli scambi. Il Centro Studi Confindustria ha costruito due indicatori di regionalizzazione degli scambi: entrambi segnalano una stabilizzazione della dimensione globale del commercio e non identificano una chiara tendenza alla regionalizzazione.
È forte l’eterogeneità tra macroaree. La Cina, pur consolidando il ruolo di primo esportatore mondiale, ha ridotto il peso del settore estero; allo stesso tempo, gli scambi asiatici sono sempre più globalizzati. Viceversa, l’industria europea rafforza la propria internazionalizzazione, ma puntando sulla componente regionale degli scambi.
Le catene globali del valore (GVC) si sono dimostrate molto robuste e persistenti. Gli scambi di beni intermedi (che entrano in nuovi processi di produzione all’estero) sono tornati ai livelli pre-crisi finanziaria 2008 (sopra nella maggioranza dei paesi avanzati e emergenti, esclusa la Cina).
La struttura geografica dei beni di investimento e degli intermedi specifici, più integrati nelle GVC (come parti e componenti), è globalizzata e stabile nel tempo. Tra le filiere sono più regionalizzate quelle agro-alimentare e delle costruzioni; globalizzate, invece, quelle della salute e del tessile.
Il ricorso ad accordi commerciali tra paesi distanti (specie da parte dell’UE) ha contribuito alla globalizzazione degli scambi. Ma negli ultimi anni sono aumentate le misure protezionistiche ed è entrata in crisi l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il cui ruolo non può essere svolto da fora intergovernativi, come il G7 e il G20, che non hanno organi stabili né sono in grado di rendere vincolanti le loro decisioni. Il futuro del sistema di regole mondiale necessita, quindi, di una profonda riforma del WTO.
La crisi russa ha ampliato le distanze politiche tra Stati Uniti e potenze asiatiche emergenti (Cina e India), spingendo verso una globalizzazione selettiva tra paesi amici. Si inseriscono in questo quadro le politiche per l’autonomia strategica dell’industria europea.
Esistono evidenti segnali di disaccoppiamento (decoupling) nelle traiettorie tecnologiche, legate alla transizione verde e digitale di Stati Uniti e Cina. Dal 2018 la quota di mercato cinese negli USA si è ridotta di quattro punti percentuali.
Tale diminuzione è il risultato di dinamiche profondamente diverse degli acquisti americani di specifici prodotti cinesi, per esempio una forte riduzione di supporti elettronici e un aumento altrettanto forte delle batterie a litio.
Si evidenzia che un decoupling USA-Cina si può realizzare solo nei casi in cui è presente almeno una di queste condizioni: una capacità produttiva domestica incrementabile nel breve periodo o fornitori alternativi “amici” specializzati nella stessa tipologia di prodotto.
Le politiche industriali delle principali economie mondiali sono influenzate da, e contribuiscono a definire, l’impatto degli shock esogeni e le transizioni tecnologiche in corso.
La UE si è concentrata sull’analisi e sulla riduzione delle dipendenze nei settori tecnologici e industriali ritenuti strategici, con il fine di rafforzare la resilienza del mercato unico, presupposto fondamentale per il Green Deal e la Strategia Digitale. L’approccio regolatorio, definito dalla Strategia Industriale del 2020, manca, però, di un adeguato sostegno di risorse e strumenti comunitari, indispensabili per attivare gli ingenti investimenti pubblici e privati necessari alla doppia transizione dell’industria europea.
I tre provvedimenti sinergici con stanziamenti eccezionali attuati tra il 2021 e il 2022 dagli Stati Uniti rappresentano un passo in avanti rispetto all’approccio europeo. Potenziano la capacità produttiva americana direttamente e attraverso il rafforzamento di quella macroregionale e spingono verso una ricomposizione della catena di fornitori in base all’affinità politica.
L’affermazione globale dell’industria cinese è stata favorita anche dal piano Made in China 2025, che mira ad affermare la Cina come potenza tecnologica globale entro il 2049.
Accanto agli avanzamenti cinesi, tecnologici e industriali, emergono però dei limiti, messi in evidenza in due importanti iniziative: la Belt & Road Initiative ha reso la Cina il principale creditore internazionale di molti paesi emergenti, non sempre in grado di ripagare i debiti; il Regional Comprehensive Economic Partnership è il più grande patto commerciale del mondo ma appare poco “profondo”, limitandosi al taglio dei dazi.
Dipendenze
critiche europee e italiane
La tensione tra apertura commerciale e autonomia nazionale accompagna la storia delle relazioni economiche tra stati. L’Unione europea è nata per assicurare libero accesso a prodotti strategici (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio). Il modello di sviluppo italiano si è sempre fondato sull’attività manifatturiera, cioè di trasformazione di materie prime e semilavorati anche importati.
Le catene globali del valore (GVC) amplificano gli effetti degli shock tra nodi produttivi, anche non connessi direttamente ai mercati esteri. Più di un terzo del manifatturiero italiano partecipa alle GVC.
In un mondo policrisi e politicamente frammentato, emerge la necessità di rafforzare le catene di fornitura, specie in produzioni strategiche, come quelle che guidano la transizione green e digitale.
La Commissione europea, nell’ambito dell’obiettivo di Autonomia Strategica Aperta, ha avviato uno studio delle vulnerabilità delle catene di approvvigionamento, per elaborare politiche industriali mirate.
Il Centro Studi Confindustria, espandendo l’analisi della Commissione, ha identificato con un elevato livello di dettaglio merceologico le dipendenze critiche, o vulnerabilità, dei paesi UE dall’estero, anche in confronto con quelle di Stati Uniti e Cina. I criteri di selezione dei prodotti critici riguardano: la diversificazione geografica dell’import, la sostituibilità con l’export e, per i paesi europei, la sostituibilità con gli scambi intra-area.
Nell’ultimo decennio circa l’8% delle importazioni europee (dai mercati extra-UE), in valore, risulta critico. Riguardano 380 prodotti circa, poco meno dell’8% di tutti quelli acquistati all’estero. In particolare, l’Unione europea è vulnerabile soprattutto nelle filiere dell’ICT (Information and communication technology) e, in misura minore, dell’agro-alimentare e tessile.
Tuttavia, le dipendenze europee risultano minori, in numero e valore dei prodotti (sul totale), di quelle degli Stati Uniti e della Cina. Inoltre, l’import critico UE è piuttosto stabile nell’ultimo ventennio, a fronte di una crescita di quello di Cina e USA. Rilevanti, invece, sono i cambiamenti per quanto riguarda i paesi di fornitura prevalenti. La Cina è sempre più la fonte principale delle vulnerabilità degli Stati Uniti e, soprattutto, dell’Unione europea.
Nel complesso, quindi, le dipendenze critiche europee sono il risultato di scelte di lungo periodo di specializzazione e riallocazione delle filiere produttive internazionali, connesse alla crescita dei paesi emergenti, Cina in testa.
Per quanto riguarda l’economia italiana, le vulnerabilità nelle forniture riguardano il 16% dell’import in valore e il 7% delle varietà di prodotto. Sono percentuali in linea con quelle registrate per la Germania e per la Francia.
L’import critico italiano è piuttosto diversificato in termini di origine dei prodotti, al contrario di quello tedesco e francese (e della UE nel suo complesso), che invece vede una netta prevalenza della Cina come principale fornitore. Le vulnerabilità italiane si concentrano, in valore, nella filiera delle commodity, della chimica e dell’energia. Quelle di Germania e Francia (e della UE) riguardano soprattutto la filiera dell’ICT, media e computer.
Restringendo l’analisi alle forniture industriali (di input intermedi e beni di investimento), sono stati selezionati 333 prodotti critici, per i quali l’industria italiana risulta stabilmente vulnerabile negli ultimi anni. Essi rappresentano circa il 9% del valore dell’import italiano (circa 17 miliardi di euro).
La filiera industriale italiana maggiormente interessata si conferma quella delle commodity, chimica ed energia, seguita dai trasporti; come varietà di prodotti si aggiungono anche il tessile e i metalli. La Cina è di gran lunga il maggiore fornitore di prodotti critici per l’industria: 25% in valore (principalmente ICT) e 22,5% in varietà (soprattutto nel tessile). A seguire, come numerosità di prodotti, compaiono Stati Uniti, Turchia e India; in valore, invece, è seconda la Svizzera, che spicca nella farmaceutica e nella chimica.
Infine, sono stati considerati due ulteriori criteri di selezione: la strategicità dei prodotti (in base a diverse fonti istituzionali) e i rischi geopolitico e climatico nei paesi di fornitura (secondo gli indicatori SACE).
Dei prodotti critici per l’industria italiana, poco meno della metà si può definire strategica: 148 prodotti, per oltre 10 miliardi di euro di acquisti all’estero (61% dell’import critico in valore). Si tratta principalmente di minerali, metalli o altre materie prime e di prodotti farmaceutici e principi attivi, che riguardano soprattutto le filiere delle commodity-chimica-energia, della salute e dell’ICT.
In particolare, sono strategici 28 minerali, metalli o altre materie prime (su 67 che risultano critici), perché coinvolti nella transizione verde: sono utilizzati principalmente nella produzione di ferro e acciaio e valgono il 32% di tutto l’import strategico.
Quasi la metà delle forniture critiche dell’industria italiana si può definire ad alto rischio geopolitico o climatico (il 49% in valore e il 46% come varietà). In particolare, per un centinaio di prodotti si rileva un approvvigionamento elevato da paesi extra-UE con un rischio politico medio-alto. Si tratta soprattutto di minerali e prodotti in metallo; tra le filiere, spiccano quelle dei trasporti, del tessile e dell’agroalimentare. Aggiungendo la dimensione del rischio climatico, la filiera tessile continua a presentare forti criticità insieme a quella dell’ICT, media e computer.
Intersecando i criteri di selezione per strategicità e per rischio, otteniamo una lista finale di 62 prodotti fortemente critici per l’industria italiana. Nonostante siano relativamente pochi prodotti, attivano circa 5 miliardi di acquisti italiani dall’estero (ben il 38,5% dell’import critico). Riguardano soprattutto le filiere dell’ICT e dei trasporti.
Nella definizione delle politiche europee è necessario individuare le criticità del sistema industriale, distinguendo tra materie prime e semilavorati, per promuovere scelte strategiche (anche in tema di estrazione e circolarità).
In particolare, occorre: favorire l’integrazione europea nei segmenti di mercato già coperti (estrazione, prima e seconda trasformazione, prodotti finiti); definire obiettivi “tecnologicamente” raggiungibili, con lo stanziamento di risorse europee adeguate; individuare e rafforzare le filiere prioritarie, anche grazie ad accordi di collaborazione industriale con paesi terzi.
Le
strategie internazionali delle imprese italiane
Le imprese più attive nei mercati internazionali hanno reagito ai diversi episodi di crisi (in particolare nel 2008-2009 e nel 2011-2013) muovendosi verso forme complesse di partecipazione ai mercati esteri, all’interno delle catene globali del valore (GVC), e hanno registrato, in media, una performance positiva in termini di occupazione, produttività e valore aggiunto.
Per l’impresa essere inserita nelle GVC comporta diversi vantaggi: maggiore specializzazione nelle attività core, sfruttando il vantaggio comparato derivante dalla divisione internazionale del lavoro; aumento della quota di mercato, grazie alle economie di scala; spillover di produttività dai legami di fornitura con le imprese multinazionali più innovative e produttive; riduzione dei costi di transazione (minori comportamenti opportunistici tra imprese, maggiore selezione dei partner commerciali e sviluppo dell’innovazione tecnologica).
Nell’ultimo triennio governare le interdipendenze globali produttive e di fornitura si è rivelato problematico soprattutto per quelle tipologie di imprese che hanno una filiera internazionale “tight”, con scarsa diversificazione dei fornitori. È diventato più importante tenere in considerazione il trade-off tra lo sfruttamento dei vantaggi competitivi di costo e la vulnerabilità, perché la catena di fornitura non è più forte del suo nodo produttivo più debole.
Diventa, quindi, sempre più rilevante per le imprese aumentare il grado di resilienza delle catene globali del valore, cioè la capacità di reagire a eventi imprevisti e imprevedibili, preservando la loro efficienza.
Diverse le strategie che possono essere attuate: dalla rilocalizzazione delle attività (di produzione e/o di fornitura) in un paese diverso, all’ampliamento (redundancy) o alla diversificazione dei fornitori.
Il reshoring di produzione è, in genere, una strategia più complessa rispetto a quello di fornitura, a causa di elevati costi irrecuperabili legati agli investimenti effettuati nel paese di destinazione. Una delle condizioni necessarie è la presenza di reti di fornitura già strutturate e dunque in grado di avvalersi di forti esternalità positive nel paese in cui si rilocalizza l’attività produttiva.
Il rientro di attività produttive nei paesi dell’Unione europea favorirebbe una reindustrializzazione, che però necessità di risorse umane e soprattutto di competenze specifiche che non sempre sono immediatamente disponibili. Il backshoring di produzione potrebbe comportare anche un aumento dei prezzi, laddove l’innovazione tecnologica non abbia reso più competitiva la produzione in-house rispetto all’offshoring; appare quindi auspicabile solo nei settori strategici.
I dati raccolti nella survey del Centro Studi Confindustria e Re4It (Reshoring for Italy) sulle strategie di offshoring e reshoring delle imprese manifatturiere nel 2021 confermano un uso limitato delle scelte di backshoring di produzione (totale o parziale). Le principali motivazioni che hanno spinto le imprese a riportare a casa le attività produttive attengono all’aumento dei costi (connessi anche alla crescita dei paesi di offshoring) e dei tempi nella gestione della catena globale di produzione.
Il reshoring di fornitura è una scelta meno costosa sotto il profilo economico, in quanto non presenta costi difficilmente recuperabili; è attuabile solo in presenza di fornitori idonei nel paese in cui l’impresa vuole rilocalizzare. Secondo un’indagine dell’Economist, nel 2022 è aumentata la quota di imprese che adottano, come strategia primaria, il nearshoring, rilocalizzazione delle proprie forniture in paesi geograficamente più vicini, o il backshoring, nel paese di origine.
I risultati della survey CSC&Re4It e di quella recente del Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere (aprile 2023) confermano la presenza del backshoring di fornitura tra le imprese manifatturiere italiane, individuando nella maggiore resilienza, nella riduzione della distanza e nel miglioramento della qualità dei prodotti i principali fattori che influiscono su questa scelta.
Circa il 75% del totale dei rispondenti all’indagine CSC&Re4It ha acquistato forniture totalmente o parzialmente da imprese estere e il 21% di queste ha effettuato un backshoring totale o parziale di fornitura. La quota di imprese intervistate dal Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere dichiara un aumento dei fornitori italiani che oscilla tra il 15% (se si tratta di locali, cioè presenti nella stessa regione) e il 20% (fornitori italiani al di fuori della regione).
La scelta del backshoring di fornitura è del tutto compatibile con l’offshoring di produzione, poiché rilocalizzare la catena di fornitura non comporta necessariamente spostare eventuali attività produttive svolte all’estero e in certi casi costituisce una modalità di rafforzamento della catena globale del valore.
La ricostruzione di una filiera strategica del farmaceutico ha evidenziato specifiche dipendenze critiche dall’estero. Tali dipendenze sono state in parte attenuate sia da un backshoring calibrato, volto a potenziare la capacità produttiva interna, sia da una duplicazione di fornitori, prevalentemente nazionali. Resta comunque essenziale mantenere legami commerciali e produttivi con l’estero e in particolare con Cina e India, principali fornitori mondiali di principi attivi, valutando, ove possibile, rientri selettivi nell’Unione europea.
Il back/nearshoring dovrebbe essere incentivato non da politiche ad hoc, ma da politiche per l’attrattività del territorio e la competitività delle imprese, sfruttando le sinergie con le politiche già esistenti a favore del “Green New Deal”, della digitalizzazione e dello skill upgrading. Con riferimento al “Green New Deal”, l’accorciamento e la regionalizzazione delle catene del valore rappresenta una delle vie principali per favorire la sostenibilità, in quanto consente la riduzione delle emissioni e un maggior controllo etico-sociale delle produzioni.
L’accorciamento delle filiere globali potrebbe accompagnare l’adozione di paradigmi alternativi a quello lineare della produzione, come ad esempio l’economia circolare; ciò risulta più attuabile in un contesto nazionale o europeo, con normative comuni e minori costi di transazione.