QUANTO CONTA PER L'ITALIA IL SETTORE DELL'AUTO?

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Il crollo della produzione nazionale di auto Tra le difficoltà dell’industria italiana (-3,8% la produzione in volume a luglio 2024 rispetto a luglio 2023), svettano quelle del settore dell’auto, che sta subendo una flessione molto più marcata di quella aggregata (-26,1%; Grafico A). Il comparto degli autoveicoli propriamente detti (cioè l’Ateco 29.1) registra in Italia un calo ancora più profondo (-34,7%) e non va molto meglio alla componentistica per autoveicoli (-21,7%, settore Ateco 29.3); unica parte del settore a reggere bene è quella della fabbricazione di carrozzerie (+10,5%).

La crisi del settore auto, in Italia e altri paesi Occidentali, non è un fenomeno solo congiunturale, ma ha origini più lontane nel tempo. Il drastico calo del 2024 ha riportato il settore autoveicoli italiano su livelli produttivi molto più bassi rispetto a quelli del 2019 (-27,5%), temporaneamente recuperati solo nel 2023. Inoltre, i livelli del 2019 già scontavano due anni di flessione, rispetto al picco toccato nel 2017 (-12,4%). Dunque, nel 2024 il settore è crollato a circa il livello di produzione di inizio 2013.

Il crollo recente ha chiaramente radici nella debolezza della domanda, ma non solo. I dati mensili sulle immatricolazioni di autoveicoli in Italia, fino ad agosto 2024, mostrano che la domanda interna per il settore è debole e piuttosto volatile: dopo i primi due mesi positivi, si è arrivati a un crollo nell’ultimo mese (-13,3% tendenziale in agosto) e il timore è che il calo possa proseguire ulteriormente; se si guarda al totale immatricolato negli 8 mesi rispetto allo stesso periodo del 2023, l’andamento per ora resta di poco positivo (+4,0%). Anche la domanda estera è debole: l’export di autoveicoli dall’Italia sta andando male (-7,5% tendenziale a luglio), includendo sia i veicoli che la componentistica per auto (Ateco 29). Viceversa, però, è aumentato, sebbene di poco, l’import di autoveicoli in Italia (+2,0% tendenziale).

Un rischio al ribasso per lo scenario La crisi dell’auto italiana costituisce un importante rischio al ribasso nello scenario di previsione del PIL italiano per il 2025: che succederebbe se il crollo della produzione di autoveicoli si approfondisse ulteriormente? Sullo sfondo, ci sono le regole europee per il progressivo passaggio all’auto “a zero emissioni”, previsto al momento per il 2035 ma con vari step intermedi da affrontare, anche ravvicinati (il primo nel 2025). Perciò, è utile provare a tracciare una fotografia del settore in Italia (Grafico B), per quantificare l’entità di tale rischio per l’industria e per l’economia italiana.

Quanto pesa la parte core dell’automotive Per avere una misura dell’importanza del settore in Italia, si può guardare ai dati Istat di Contabilità Nazionale annuale (CN): la produzione del settore autoveicoli (Ateco 29) nel nostro Paese è pari a 63 miliardi di euro, il valore aggiunto (VA) creato è di 15 miliardi, l’occupazione di 170mila unità (dati 2021, ultimo anno disponibile).

Sia la produzione che il valore aggiunto del settore autoveicoli, pur registrando nelle passate fasi di crisi economica varie cadute, anche profonde (come nel 2009), complessivamente nel corso di quasi tre decenni dal 1995 al 2021 si sono dimostrate piuttosto resilienti (Grafico C). Negli ultimi dati annuali disponibili, erano su livelli significativamente più elevati di quelli storici (+12,9% il VA a prezzi costanti nel 2021 rispetto al 1995, pari al +0,5% medio annuo).

Una flessione importante era già stata registrata nei passati decenni, invece, in termini di occupazione (-0,7% medio annuo dal 1995 al 2021). Meno occupati a parità di produzione segnalano una lunga fase di automatizzazione del settore, con massiccio utilizzo di macchine e una produttività del lavoro più elevata.  

Inoltre, si può guardare all’andamento della quota dell’automotive sulla manifattura, in termini di produzione o di VA. Tale quota era rimasta quasi costante per il settore auto nell’ultimo trentennio, prima del recente crollo nel 2023-2024. In termini di produzione (in volume), fino al 2021 non si vedeva in effetti un declino dell’auto, ma alcune fasi di forte flessione con qualche timido recupero. Il settore autoveicoli “core” (Ateco 29) aveva, in termini di produzione, una quota del 6,3% della manifattura nel 2021, da un picco storico del 7,4% nel 2017. In termini di VA, gli autoveicoli contavano per il 5,8% della manifattura italiana nel 2021 (da un picco del 6,5%). Il settore auto, quindi, è chiaramente uno dei più importanti della manifattura italiana, anche senza contare l’indotto. Da notare che, tendenzialmente, l’automotive ha quote simili in termini di valore aggiunto generato e di produzione realizzata.

La manifattura in generale è meno “labor intensive” rispetto a costruzioni e servizi. E l’auto, in particolare, è meno labor intensive di altri settori manifatturieri: 4,4% sul totale manifattura in termini di occupati, quasi 2 punti percentuali in meno rispetto alla quota del settore in termini di produzione.

Difficile definire il perimetro dell’indotto La doppia transizione della produzione automobilistica verso la digitalizzazione e la sostenibilità ambientale comporta un cambiamento profondo nella tecnologia utilizzata, nei processi produttivi, nella domanda di competenze e negli input necessari per i produttori di automobili. McKinsey stima che le componenti software ed elettroniche arriveranno a rappresentare fino alla metà del valore di un veicolo entro il 2030. Il passaggio all’elettrico, attualmente la tecnologia “dominante” per raggiungere gli obiettivi UE sulle emissioni, oltre a una sostanziale semplificazione della struttura del motore, implica un radicale mutamento nella struttura dell’automobile, creando nuove attività connesse allo sviluppo della mobilità elettrica (per esempio, la produzione delle batterie) ed eliminandone altre (per esempio, la produzione dei motori endotermici).

In questo contesto in evoluzione, i confini del settore automotive sono difficili da definire, così come il perimetro dell’intera filiera, che assume sempre più i contorni di un “ecosistema”. Gli osservatori che hanno fotografato il settore, includendo l’indotto, restituiscono il quadro di un comparto molto rilevante per l’economia italiana. E quindi di un rischio significativo per produzione e occupazione. Secondo stime di Prometeia e Unioncamere l’intera filiera dell’automotive, includendo la fase industriale e la fase distributiva, genera in Italia, direttamente e indirettamente, un ammontare di valore aggiunto che corrisponde a quasi il 5,0% del PIL (di cui 2,0% la fase industriale e 2,8% la fase distributiva). Un contributo simile (5,6% del PIL nazionale) è stimato da ANFIA (Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica). In termini di occupati la filiera industriale dell’automotive è stimata contare 272.000 addetti. Utilizzando le tavole input-ouput dell’Istat, è possibile ricavare quali sono i settori manifatturieri più importanti per l’auto (Ateco 29) in termini di input industriali domestici forniti (ad esclusione di quelli provenienti dal settore stesso) (Tabella A); al primo posto i prodotti in metallo (20,0% sui costi di produzione domestici del settore autoveicoli, cioè import escluso), seguiti dalla gomma-plastica (5,8%), dalle attività metallurgiche (4,8%), dalla fabbricazione di macchinari (3,3%) e dalle apparecchiature elettriche (3,1%).

Trasformazione in corso: digitale, servizi, tecnologia La profonda trasformazione del settore automotive è spinta da molteplici fattori, che agiscono in maniera combinata sul comparto. La transizione verde e quella digitale in primis, ma anche una più generale evoluzione dei sistemi di mobilità, stanno trainando il settore lontano dalla produzione dei soli veicoli “tradizionali” a combustione interna, e dalla pura fornitura di servizi di trasporto, verso una sempre maggiore integrazione con altri servizi, infrastrutture e catene del valore, una digitalizzazione sempre più pervasiva (le cosiddette “software- defined cars") e un’attenzione marcata verso una mobilità sostenibile, per rispondere ad una domanda di trasporto in mutamento.

Anche per soddisfare le nuove esigenze dei consumatori, si assiste da tempo ad una fase di diffusione delle nuove tecnologie digitali e di connettività, che consente ai veicoli di scambiare informazioni con altri veicoli e infrastrutture stradali, sia per migliorare l’esperienza di guida, sia per integrare le informazioni e i dati degli utenti tra produttori e canali commerciali. Il concetto di mobilità, in tutte le sue declinazioni, si sta rapidamente trasformando, lasciando spazio a nuovi modelli, basati su un utilizzo flessibile e integrato di diverse soluzioni e servizi di mobilità. Una delle trasformazioni che si notano negli ultimi anni è la progressiva riduzione della quota delle “utilitarie” e il corrispondente aumento della quota dei “Suv piccoli/compatti” (dati Anfia): questo contribuisce a un aumento del prezzo medio di un'auto nuova, a prescindere dall’alimentazione. Di recente negli USA è circolata anche qualche evidenza empirica secondo cui tra i giovani sarebbe più basso il desiderio di utilizzare un’automobile (di proprietà o meno), rispetto alle precedenti generazioni: si tratterebbe di una flessione della domanda di autoveicoli, a parità di prezzi, qualità, alimentazione.

Tra questi nuovi servizi, è risultato in forte crescita negli ultimi anni il settore del vehicle-sharing; secondo il 7° rapporto annuale dell’Osservatorio Nazionale Sharing Mobility, il fatturato complessivo generato dal settore in Italia ha superato i 178 milioni di euro nel 2022 (+38% rispetto al 2021), grazie alla crescita nel numero di noleggi totali (+41% nel 2022 rispetto all’anno precedente), e alla maggiore diffusione del servizio. Complessivamente, secondo stime del Politecnico di Milano, nel 2022 il mercato italiano della mobilità Connected ha raggiunto un valore di 2,5 miliardi di euro (+16% rispetto al 2021), di cui circa il 13% generato da soluzioni di Smart Mobility nelle città, in primis per la gestione dei parcheggi e la sharing mobility.

La digitalizzazione e le trasformazioni tecnologiche toccano anche il processo produttivo vero e proprio, automatizzando i processi con la robotica, particolarmente diffusa nella produzione di veicoli a motore, ma anche con l’uso della stampa 3D e dell’intelligenza artificiale. Secondo i dati Istat sull’uso dell’ICT nelle imprese con almeno 10 addetti, nel settore della fabbricazione dei mezzi di trasporto oltre un quarto delle imprese utilizzavano la stampa 3D già nel 2018 – ultimo anno disponibile – contro una media nel manifatturiero pari al 9%; oltre il 40% delle imprese automotive utilizzavano robot industriali nel 2022, contro il 16% nella manifattura in media. Il settore è, infatti, tra quelli con la più elevata quota di investimenti in ricerca e sviluppo.

La complicata sfida ambientale A fianco della trasformazione digitale, c’è l’altro grande fattore di trasformazione, che ha avuto un’ulteriore accelerazione lo scorso anno, con l’approvazione della risoluzione del Parlamento Europeo che, di fatto (attraverso il requisito sulle emissioni), vieta la vendita di veicoli alimentati a benzina e diesel a partire dal 203510, nel quadro degli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti definito nel Green Deal Europeo.

Per l’Italia, secondo i dati ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), al 2022 il settore dei trasporti complessivamente contribuiva per il 26% del totale delle emissioni di gas serra; di queste, circa il 90% è attribuibile al trasporto su strada, di cui il 65% proviene dalle autovetture, responsabili quindi per il 16% delle emissioni totali (e il 30% dai veicoli commerciali).

Globalmente, i mercati dei veicoli a motore a combustione interna (ICE) si stanno già riducendo negli ultimi anni a favore dei veicoli elettrici (EV, a batteria e ibridi plug-in), che hanno raggiunto, nel 2023, una quota di mercato pari al 18% delle vendite di nuove auto passeggeri (dal 14% del 2022). Con una forte concentrazione nel mercato cinese (poco meno del 60% delle nuove immatricolazioni del 2023), europeo (poco meno del 25%) e statunitense (10%), secondo i dati del Global EV Outlook 2024 dell’International Energy Agency (IEA).

Guardando al solo mercato europeo, grazie ai dati messi a disposizione dall’osservatorio European Alternative Fuels, sappiamo che i veicoli elettrici hanno rappresentato nel 2023 il 22,3% delle nuove immatricolazioni (di cui 14,6% elettrici a batteria, BEV, e 7,7% ibridi plug-in, PHEV), raggiungendo il 3% del parco circolante (1,7% BEV, 1,3% PHEV) per l’Unione Europea a 27 paesi. Paesi come la Germania, la Francia, la Norvegia, sono più avanti di altri.

In Italia, secondo i dati del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT), elaborati dall’Anfia (Grafico D), le auto elettriche pesavano nel 2023 solo l’8,6% del totale delle immatricolazioni (4,2% BEV, 4,4% PHEV). Una quota di gran lunga maggiore è stata invece assorbita dalle autovetture ibride (HEV) che l’anno scorso hanno toccato il 36,1% delle nuove immatricolazioni.

Per quest’anno, i dati dei primi 8 mesi del 2024 confermano il primato delle ibride sul totale delle immatricolazioni (39,0%), che aumentano la loro quota di mercato (+2,8 p.p. rispetto al 2023), così come le auto a benzina (+1,6 p.p.) a fronte di una quota delle elettriche “pure” e delle plug-in in lieve flessione (rispettivamente -1,0 p.p. e -0,5 p.p.). Anche come quota sul parco circolante la penetrazione dell’auto elettrica in Italia al 2023 è minore rispetto al dato europeo; 0,5% del parco come elettrico “puro” (BEV), contro un 5,4% per le auto alimentate in maniera ibrida (PHEV, HEV), secondo i dati ACI (Automobile Club d’Italia). Per confronto, in Germania le quote del BEV al 2023 erano 18,3% sulle nuove immatricolazioni e 2,8% sulla flotta circolante totale. In Norvegia, il paese europeo con la maggiore adozione, in proporzione, di auto “propriamente” elettriche, le quote salivano addirittura, rispettivamente, all’81,8% e al 22,0%.

Uno dei fattori che limita la transizione all’elettrico è sicuramente il prezzo di acquisto e in particolare il differenziale di prezzo tra un veicolo elettrico e uno a combustione interna. Secondo alcuni osservatori in Europa al 2023 l’automobile elettrica più economica sul mercato era del 92% più costosa del corrispettivo più economico a combustione interna (escludendo qualsiasi tipo di incentivo), soprattutto a causa delle batterie, che incidono circa per il 40% sul totale dei costi dei materiali. Altre stime riportano una media), con un prezzo delle auto elettriche superiore rispettivamente del 30% (circa 10.000€) a quello di un’ibrida e fino al 50% rispetto alle auto “tradizionali". E le differenze aumentano man mano che si riduce la dimensione del veicolo, perché il costo della batteria incide di più sulle autovetture più piccole. Secondo stime del Centro Studi Confindustria, realizzate prendendo a riferimento due motorizzazioni alternative di una stessa automobile di piccola taglia (C3), su un arco di tempo pari a 10 anni, includendo non solo il prezzo di acquisto iniziale ma anche i costi per il bollo, per l’assicurazione, per le ricariche o il pieno, passare all’auto elettrica comporta un aggravio di spesa per un automobilista italiano pari a circa 5.700 euro (+14,5% rispetto allo stesso modello con motore endotermico). Questi differenziali di prezzo rischiano di penalizzare, nel passaggio all’elettrico, la quota della popolazione con i redditi più bassi18.

Un altro fattore che risulta determinante nell’adozione dell’auto elettrica è anche la disponibilità delle infrastrutture per la ricarica (Grafico E), la cui costruzione deve seguire di pari passo la diffusione dell’elettrico. Secondo l’IEA, è diffuso il timore che questa tipologia di auto non offra un’autonomia sufficiente per coprire lunghe distanze.

La Commissione Europea, all’interno della valutazione per il raggiungimento dei target climatici al 2040, quantifica l’investimento necessario per le infrastrutture di ricarica in circa 15 miliardi l’anno per tutto il periodo 2031- 2050, assumendo che entro il 2030 i veicoli a zero o basse emissioni conteranno per circa il 20% della flotta circolante. Secondo il MIT, risulta urgente sviluppare l’offerta sia di colonnine “urbane” a media e bassa potenza (per esempio garage, luoghi di lavoro, centri commerciali), sia di quelle ad elevata potenza sulla rete autostradale, che fungano da stazioni di servizio. Ad oggi, per il territorio italiano, la distribuzione dei punti di ricarica risulta ancora estremante eterogenea; nel Nord Italia si colloca oltre la metà delle infrastrutture di ricarica pubbliche (58%); il resto si divide tra il centro (19%) e il Sud e le Isole in cui si colloca meno di un quarto delle stazioni (23%)20. Come sottolineato anche nel recente rapporto “Draghi" sulla competitività europea, non esiste un chiaro quadro regolatorio che obblighi le utility dell’energia elettrica a fornire una diffusa e potente rete di stazioni di ricarica, così come invece esistono stringenti regolamenti in capo ai costruttori di automobili. Secondo calcoli del Centro Studi Confindustria basati sulle stime del RSE, il costo per l’elettrificazione del Paese secondo gli obietti del PNIEC 2024, che include l’aumento della generazione elettrica, la costruzione di nuove reti e di nuovi sistemi di accumulo, è pari a 47,6 miliardi di euro nel periodo 2024- 2030; una cifra enorme, che corrisponde a 1.270 euro in 7 anni per persona in età lavorativa in Italia.
Conclusioni È chiaro quindi che la filiera dell’automotive sta vivendo una fase di radicali cambiamenti, alcuni più consolidati altri ancora in atto, tali per cui è piuttosto difficile prevederne l’evoluzione nel prossimo futuro. Da un lato, il perimetro dell’intera filiera si sta modificando e allargando, includendo attività proprie di altre catene del valore. Dall’altro, il settore, in Italia, rischia di perdere parti importanti della filiera, che mostra segni di sofferenza in termini di produzione, già da alcuni anni. L’associazione recente tra questi due sviluppi, cioè la trasformazione in corso e il crollo della produzione, non sembra essere casuale. Si intreccia, in modo arduo da districare, anche con le analoghe trasformazioni che stanno avvenendo dal lato della domanda. Certo è che, se la flessione del comparto “core” dovesse proseguire in maniera così acuta anche nei prossimi anni, questo avrebbe un effetto negativo sensibile sul PIL italiano, data l’importanza del settore e del suo indotto economico nel nostro Paese.

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