Il grande equivoco del salario minimo - L’editoriale di Marcella Panucci su Huffington Post

27 giugno 2019 | Direttore Generale

Dopo il reddito di cittadinanza, prosegue attorno al salario minimo il dibattito su come restituire al nostro sistema sociale quell’equità perduta dopo dieci anni di profonda crisi economica. Ancora una volta, però, il rischio è mancare il tiro e rispondere a problemi reali con strumenti illusori.

Nel suo editoriale per Huffington Post Marcella Panucci, Direttore Generale di Confindustria, analizza l’attuale proposta di salario minimo e presenta 4 proposte per aumentare davvero le retribuzioni dei lavoratori.

Perché è vero che esistono in Italia lavoratori poveri, con retribuzioni al di sotto dei minimi contrattuali o oggetto di dumping contrattuale e, quindi, non adeguate a garantire loro un salario “giusto”. Ma siamo sicuri che l’introduzione per legge di un salario minimo sia la via migliore per risolvere il problema?

Nei paesi OCSE dove è stato introdotto, il salario minimo legale è pari a circa il 51% del salario mediano, che per l’Italia significa circa 6 euro l’ora. Esattamente il minimale INPS. Fissare a 9 euro il salario minimo orario, cioè all’80% del salario mediano, non significa perciò fissare un pavimento, ma sollevarlo arbitrariamente.

Per le imprese questa operazione è doppiamente penalizzante perché, direttamente o indirettamente, aumenta il costo del lavoro e incide negativamente sulla loro competitività.

È vero che anche altri paesi prevedono un salario minimo legale, ma in nessun caso con queste proporzioni. Inoltre, in questi paesi i livelli di copertura della contrattazione collettiva sono più bassi rispetto all’Italia, dove semmai il problema non sono i minimi, ma i controlli sul rispetto dei minimi. Questo però è un problema che si ripropone anche con il salario minimo legale.

Allora qual è la soluzione?

1. Implementare i controlli per assicurare che i minimi contrattuali siano rispettati da tutti i datori di lavoro

2. Combattere il dumping contrattuale, misurando la rappresentanza di chi firma i contratti collettivi e prevedendo che i contratti di riferimento siano quelli stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative di imprese e lavoratori. In questo modo si eviterebbero i fenomeni di associazioni datoriali e sindacati nati solo per fare contratti a danno dei lavoratori e in concorrenza sleale con le imprese che applicano quelli più strutturati.

3. Limitare la previsione di un salario minimo legale ai soli lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva, facendo però attenzione al fatto che già oggi alcuni contratti collettivi regolano anche rapporti di lavoro non subordinato come le collaborazioni.

4. Ridurre il carico fiscale e contributivo sul lavoro. Oggi, per un lavoratore single senza figli, fatta 100 la retribuzione netta ci sono 61 euro di contributi a carico del datore di lavoro e 46 tra contributi e tasse a carico del lavoratore. Se si vuole veramente aumentare il reddito disponibile dei lavoratori e rafforzare la competitività delle imprese, bisogna, già a partire dalla prossima legge di bilancio, puntare su un grande piano per il lavoro.

Insomma, per concludere, sarebbe meglio mettere da parte ricette facili e di impatto mediatico e pensare a piani seri e ben articolati per creare lavoro e aumentare per davvero le retribuzioni dei lavoratori.


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