menu start: Fri Feb 14 00:17:41 CET 2025
menu end: Fri Feb 14 00:17:41 CET 2025
Fabrizio Balda, Daniele Emiliani e Ciro Rapacciuolo
Il Centro Studi Confindustria e il Cerved hanno ricostruito, sulla base di dati di bilancio, il cosiddetto “flusso dei fondi” per le imprese manifatturiere italiane a due date significative: il 2017, l’anno migliore per l’Italia all’uscita dalla seconda recessione e prima della frenata del 2018; la situazione pre-crisi, fotografata nei dati sul 20071.
Il flusso dei fondi è il risultato di una riclassificazione dei dati di bilancio che consente di illustrare la relazione tra gli investimenti produttivi realizzati dalle imprese e le risorse interne ed esterne disponibili per finanziarli. Ciò si ottiene rielaborando i flussi di conto economico e le variazioni degli stock di stato patrimoniale. I valori sono espressi in percentuale del fatturato (Tabella A).
La base di riferimento è la popolazione delle società di capitali italiane appartenenti alla manifattura (con esclusione delle imprese che godano della contabilità semplificata). Il campione utilizzato per l’analisi è di tipo “chiuso”, ossia è definito dall’intersezione tra gli universi relativi a due successive date nel tempo, il 2007 e il 2017.
Si tratta di quasi 30mila bilanci di impresa, pari a circa il 7 per cento del totale delle aziende industriali italiane. La composizione del campione per dimensione delle imprese incluse risulta relativamente sbilanciata verso le medio-grandi, rispetto all’universo delle imprese industriali.
Ciò avviene soprattutto a causa di una presenza più limitata di micro-imprese: per numerosità, sono pari al 13 per cento nel campione, rispetto all’82 per cento nel totale dell’industria; per addetti, si fermano all’1 per cento, rispetto al 23 per cento nell’intera popolazione di aziende.
Nel 2017 l’autofinanziamento lordo, cioè le risorse interne derivanti dai proventi della gestione operativa delle imprese, al netto dei costi (per lavoro, materie prime, servizi), è stato pari al 7,9 per cento del fatturato. Si tratta di un livello analogo a quello pre-crisi (8,0 per cento nel 2007). Dunque, il flusso della redditività, quindi le risorse interne generate, risulta tornato su livelli “normali”, di lungo periodo, dopo la fase di forte difficoltà affrontata a partire dal 2008.
Questo risultato è assottigliato da una serie di voci “non operative”: oneri e proventi finanziari (compresi gli accantonamenti netti a fondi finanziari), partite straordinarie, imposte2, distribuzione di dividendi ai soci. Queste voci hanno pesato per il 3,5 per cento del fatturato. Ma si tratta di un valore molto inferiore rispetto a quello registrato nel periodo pre-crisi (4,4 per cento).
I dati indicano, quindi, che le imprese sono state più attente nella gestione non operativa. In particolare, sono riuscite ad attutire il peso degli oneri finanziari (0,8 per cento, da 1,5 per cento) favorite dal calo dei tassi di interesse indotto dalla BCE. Grazie anche alle minori imposte, l’attenzione alla gestione non operativa ha creato pure lo spazio per una maggiore distribuzione di dividendi (2,4 per cento, da 1,9 per cento).
La variazione del capitale circolante, ovvero l’incremento del valore del magazzino di beni e la gestione netta di crediti e debiti commerciali, ha assorbito un altro 0,7 per cento di fatturato. Un valore inferiore all’1,0 per cento del 2007. Risultano in netta flessione sia la componente relativa alle rimanenze di magazzino, che la gestione del credito e debito di fornitura.
Emerge quindi che, all’uscita della crisi, le imprese italiane sono divenute più attente anche nel contenere le dilazioni e i ritardi nei pagamenti da e per fornitori e clienti. Voci di bilancio che in Italia hanno avuto, storicamente, un ruolo significativo. In particolare, la variazione dei crediti commerciali nel 2017 è stata pari solo allo 0,9 per cento del fatturato, da 2,0 per cento nel 2007.
Ne risulta che le risorse interne nette nel 2017 sono state pari al 3,7 per cento del fatturato, 1,2 punti in più rispetto a quelle a disposizione nel 2007 (2,5 per cento). Ciò è avvenuto sostanzialmente a parità di redditività operativa. Dunque, grazie alla maggiore attenzione alla gestione non operativa e al circolante, il livello del “saldo netto della gestione” è risultato addirittura in forte crescita rispetto alla situazione pre-crisi, dopo gli anni difficili della doppia recessione.
A fronte di questa significativa disponibilità di risorse interne, le imprese nel 2017 hanno realizzato investimenti fissi e immateriali, al netto dei disinvestimenti, per un ammontare analogo (3,8 per cento del fatturato). Un ammontare di investimenti che è risultato pari a poco meno di quanto effettuato nel 2007 (4,1 per cento). Va tuttavia sottolineato che, mentre nel 2017 le imprese sono state attente ad allineare gli investimenti produttivi con le risorse interne disponibili, prima della crisi non avvertivano questa esigenza. Gli investimenti risultavano allora, infatti, molto maggiori delle risorse interne nette.
Ne è derivata nel 2017 una minore necessità di reperire risorse finanziarie esterne (-0,1 per cento del fatturato). Un decennio prima il “saldo finanziario lordo” negativo era invece molto più ampio (-1,6 per cento).
La necessità di fare ricorso al finanziamento esterno è stata alimentata dagli investimenti finanziari in partecipazioni e dalla variazione di altri crediti finanziari. Queste attività nel 2017 hanno richiesto risorse aggiuntive per l’1,0 per cento del fatturato, su valori analoghi a quelli pre-crisi (0,9 per cento). Questi valori sono molto inferiori a quelli relativi a periodi ancora precedenti, in particolare per gli anni Novanta: ciò indica che, da tempo, ben prima della crisi, le imprese hanno ridotto gli impieghi in attività finanziarie e che a questo ha corrisposto una maggiore concentrazione sulle attività core industriali.
Complessivamente, il saldo netto da finanziare con risorse esterne nel 2017 è stato pari all’1,0 per cento del fatturato delle imprese; meno della metà rispetto a un decennio prima (2,5 per cento).
Gli aumenti di capitale azionario hanno coperto una buona parte delle necessità finanziarie (0,8 per cento), fornendo un contributo analogo a quello pre-crisi.
L’emissione di obbligazioni ha apportato un altro 0,8 per cento, mentre nel 2007 il contributo era stato nullo. Questo indica un successo degli sforzi di diversificare le fonti finanziarie da parte delle aziende negli ultimi anni, che hanno consentito a un segmento più ampio di imprese di accedere al mercato obbligazionario.
I debiti delle imprese verso le banche, viceversa, sono cresciuti nel 2017 in misura molto ridotta rispetto a un decennio prima (0,5 per cento del fatturato, rispetto a 1,6 per cento), data la perdurante selettività dell’offerta.
Dalla metà del 2018, peraltro, le banche hanno ricominciato a stringere l’accesso al credito per le imprese italiane, in gran parte a riflesso delle tensioni sui rendimenti sovrani; le prospettive per i prestiti, quindi, sono peggiorate3.
I debiti finanziari verso altri soggetti sono addirittura diminuiti nel 2017 (-0,3 per cento di fatturato, rispetto a 0,5 per cento nel 2007), specie per l’assottigliarsi delle risorse a medio-lungo termine. Nel complesso, quindi, i debiti finanziari a lungo e a breve termine (bancari e non) hanno fornito risorse solo per uno 0,2 per cento di fatturato, rispetto al robusto 2,1 per cento registrato nel periodo precedente alla crisi finanziaria. Questo è il vincolo di bilancio principale con cui le imprese italiane hanno dovuto fare i conti.
Le scelte fatte dalle imprese industriali, a fronte delle diverse difficoltà e opportunità incontrate (una minore disponibilità di credito, una maggiore apertura dei mercati dei capitali), hanno condotto complessivamente a una maggiore accumulazione di liquidità rispetto al periodo pre-crisi (0,8 per cento, contro lo 0,3 del 2007).
La maggiore accumulazione di cassa e conti correnti riflette, verosimilmente, un atteggiamento più cauto che in passato, di fronte alla crescente incertezza:
Un’iniezione di fiducia per le imprese potrebbe condurre a trasformare, almeno in parte, la liquidità accumulata in ulteriori investimenti produttivi, cruciali per rafforzare la crescita in Italia.
Dalla primavera del 2018, tuttavia, è accaduto il contrario, con il clima di fiducia delle imprese manifatturiere italiane che ha registrato una progressiva e profonda caduta.
Ripetendo lo stesso esercizio sui bilanci tenendo separate, tra le imprese del campione, quelle micro-piccole, medie e grandi, si ricavano altre indicazioni utili.
Questa analisi evidenzia una notevole eterogeneità negli andamenti per dimensione di impresa (Tabella B). Le micro e le piccole imprese sono quelle più in difficoltà. I principali risultati sono:
1 Si veda Centro Studi Confindustria (2019), Dove va l’industria italiana, pp. 87-89, Roma.
2 Negli anni tra 2007 e 2017 sono state varate diverse modifiche dell’imposizione sulle imprese in Italia: riduzione dell’aliquota di imposta IRES; eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile IRAP; agevolazioni fiscali per investimenti (cosiddetto “super ammortamento”). Sono stati, inoltre, introdotti degli sgravi contributivi per i neo-assunti a tempo indeterminato.
3 Si veda: Centro Studi Confindustria (2019), Dove va l’economia italiana e gli scenari geoeconomici , pp. 43-44, Roma; Centro Studi Confindustria (2019), Dove va l’industria italiana, pp. 83-86, Roma.
La manifattura mondiale è entrata in una fase di rallentamento, dopo anni di intenso sviluppo. Per l’Italia il ridimensionamento produttivo appare particolarmente pronunciato, e pone interrogativi rilevanti dal punto di vista delle policy necessarie per contrastarlo.
Alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo e il successivo rinnovo della Commissione, qual è il sentimento degli italiani verso le istituzioni europee?
La manifattura italiana occupa la settima posizione al mondo per valore aggiunto. Eppure è diffusa, l’idea che essa sia da tempo affetta da un forte deficit di competitività.