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Cristina Pensa, Matteo Pignatti
Spinte protezionistiche americane… Nel biennio 2018-2019 è fortemente aumentato il ricorso a nuove barriere protezionistiche negli scambi mondiali, con un’accelerazione di una tendenza già in atto dal 2013. L’introduzione di nuovi dazi all’import degli Stati Uniti, in particolare, ha innescato una spirale di aumenti tariffari nelle compravendite con la Cina e ha riguardato anche i rapporti commerciali con altri paesi, compresa l’Unione Europea. In particolare, sono stati colpiti dai dazi USA alcuni beni europei, come acciaio e alluminio (da giugno 2018) e altri prodotti tra cui parmigiano e salumi italiani (da ottobre 2019), e resta in sospeso la minaccia di aggiungere a questo elenco anche gli autoveicoli.
Le tariffe, peraltro, rappresentano solo una piccola parte delle nuove barriere protezionistiche (13 per cento nell’ultimo biennio, secondo i dati Global Trade Alert), mentre la maggior parte è costituita da barriere non tariffarie, come sussidi, misure protettive provvisorie e altre misure relative all’export. Quasi un quinto di questi interventi protezionistici è stato introdotto dagli Stati Uniti.
Allo stesso tempo, l’autorità dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) è messa in discussione: dallo scorso 10 dicembre l’Appellate Body, l’organo di appello del meccanismo di risoluzione delle dispute commerciali, non è più in grado di svolgere la propria funzione, a causa del blocco da parte degli Stati Uniti all’elezione di nuovi membri.
… e ruolo strategico degli accordi preferenziali UE A fronte delle spinte protezionistiche USA e della crisi della governance multilaterale degli scambi, acquista una grande rilevanza strategica la negoziazione di accordi commerciali bilaterali o regionali, per liberalizzare gli scambi di beni, servizi e investimenti. Nel mondo sono attivi 302 accordi preferenziali (notificati presso il WTO). L’Unione europea è la maggiore promotrice di questi trattati: ne ha sottoscritti 42 (con 73 paesi), molti di più di USA (13) e Cina (15).
Recentemente sono entrati in vigore gli accordi UE con Canada (CETA, settembre 2017), Giappone (febbraio 2019) e Singapore (novembre 2019). Inoltre, la precedente Commissione europea ha firmato un trattato con il Vietnam, in attesa di approvazione dal Parlamento e adozione dal Consiglio, e ha concluso un’intesa politica per un nuovo accordo con i paesi Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela) e con il Messico (che rimpiazzerà un precedente accordo del 2000). Infine, la nuova Commissione ha il compito di completare le negoziazioni in corso con Australia e Nuova Zelanda (Tabella A).
Nel complesso, i paesi con cui è già in funzione un accordo commerciale sono destinazione del 36 per cento delle esportazioni europee verso i mercati extra-UE. Includendo i paesi con cui un trattato è in corso di negoziazione o in attesa di adozione, la percentuale sale al 41 per cento dell’export extra-UE (circa il doppio delle vendite negli Stati Uniti). Gli accordi preferenziali riguardano, quindi, una parte rilevante e crescente dei rapporti commerciali dell’Unione europea.
Tra questi rivestono particolare importanza gli accordi con Corea del Sud, Canada e Giappone. In primo luogo, perché rappresentano le tre più grandi economie avanzate extra-UE, dopo gli Stati Uniti (in termini di PIL a cambi di mercato; dati FMI). In secondo luogo, sono disponibili dati per analizzare, su diversi archi temporali, l’impatto degli accordi sull’export dei paesi europei e in particolare dell’Italia.
Il contenuto degli accordi di nuova generazione I recenti accordi UE sono chiamati di nuova generazione, perché disciplinano un ampio spettro di rapporti economici tra i paesi sottoscrittori. Oltre agli scambi di beni, capitoli specifici sono dedicati al settore dei servizi, agli investimenti diretti esteri, alla protezione della proprietà intellettuale delle imprese e all’accesso agli appalti pubblici.
Tuttavia, i temi riguardanti gli investimenti all’estero ricadono nelle competenze condivise da Unione europea e stati membri. Perciò, a partire dal CETA, i trattati presentano la forma giuridica di accordo misto: la quasi totalità delle norme, che rientra nelle competenze esclusive europee, entra in vigore in modalità provvisoria, mentre l’attuazione definitiva dell’accordo, che include gli investimenti di portafoglio e la risoluzione delle dispute tra investitori e stati, attende la ratifica di tutti i parlamenti nazionali (e alcuni parlamenti regionali).
Tralasciando, quindi, il tema degli investimenti, i principali strumenti di questi accordi possono essere raggruppati in tre categorie.
Primo, sostanziale eliminazione delle barriere tariffarie Gli accordi con Corea del Sud, Canada e Giappone prevedono dazi zero sulla quasi totalità delle linee tariffarie (restano esclusi alcuni beni agroalimentari, specie in Giappone). Gran parte delle tariffe è eliminata immediatamente all’entrata in vigore dell’accordo, ma una percentuale significativa è annullata gradualmente nel corso di dieci o più anni.
L’entità delle barriere tariffarie per i prodotti europei, eliminate dagli accordi, è molto diversa nei tre casi considerati (Tabella B). In Corea del Sud prima dell’accordo era duty free solo il 16 per cento delle linee tariffarie, corrispondente a poco più di un quarto delle vendite europee nel paese. In Canada le categorie esenti da dazi erano già più del 70 per cento del totale e in Giappone il 40 per cento; in entrambi i casi, in esse rientravano circa tre quarti delle esportazioni europee.
Inoltre, al taglio dei dazi è associato un allentamento del sistema delle quote all’import di beni europei. In Giappone, per esempio, sono state eliminate le quote per le calzature e rese più ampie quelle per alcuni formaggi.
Secondo, riduzione delle barriere non tariffarie Gli accordi intendono ridurre anche le altre barriere alla frontiera, che rendono più difficile o costoso il passaggio di beni e servizi. Le principali sono le seguenti: le misure protezionistiche contingenti, come gli interventi antidumping e i sussidi compensativi; le barriere tecniche e normative al commercio, che comprendono gli standard di produzione, l’etichettatura dei prodotti, le valutazioni di conformità, le misure sanitarie e fitosanitarie; le procedure doganali, in un’ottica di semplificazione, cooperazione e trasparenza.
Particolare attenzione è posta su alcuni settori strategici, in cui queste barriere possono giocare un ruolo decisivo. È il caso degli autoveicoli, dei dispositivi medici e prodotti farmaceutici, dell’elettronica e di beni alimentari di alta qualità (si pensi al riconoscimento e alla protezione delle indicazioni geografiche).
Infine, una sezione è dedicata alla liberalizzazione dei servizi, che hanno un peso crescente negli scambi internazionali. Il CETA con il Canada, per esempio, si pone l’obiettivo del mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali, a cominciare da quella degli architetti.
Terzo, monitorare le politiche nazionali che possono condizionare l’accesso al mercato interno Vi rientrano le politiche che creano una disparità di trattamento tra imprese nazionali ed estere: aiuti di stato, gestione degli appalti pubblici, politiche della concorrenza. Particolarmente importante è la protezione dei diritti della proprietà intellettuale delle imprese estere, come le conoscenze proprietarie e i brevetti, per esempio nel design industriale.
Altre politiche, che possono avere effetti diretti e indiretti sull’accesso al mercato, riguardano la cooperazione regionale, industriale e agricola, l’assistenza finanziaria e le buone pratiche regolatorie, per esempio per quanto concerne l’accesso e la pubblicità degli atti.
Inoltre, acquistano sempre più spazio obiettivi ambiziosi, non solo di tipo economico, riguardo alla protezione dell’ambiente, alle condizioni dei lavoratori, alla salute e ai diritti umani.
Infine, negli accordi più recenti (in particolare con Canada e Giappone) una sezione è dedicata alle piccole e medie imprese, che sono quelle meno attrezzate per superare i costi fissi di accesso ai mercati più lontani e meno conosciuti.
Molto robusta la crescita dell’export La performance delle esportazioni europee verso questi tre paesi, dal momento dell’applicazione degli accordi, è stata molto positiva, registrando in tutti e tre i casi una crescita media annua di circa l’8 per cento, ben superiore ai ritmi precedenti.
Comunque, l’analisi dell’impatto degli accordi sulle vendite europee, e italiane in particolare, deve tenere in considerazione una serie di fattori.
La variabile tempo… In primo luogo, il periodo di applicazione dei tre accordi è molto differente. Per la Corea del Sud sono disponibili dati per più otto anni dall’entrata in vigore; per il Canada per i primi due anni; per il Giappone, invece, per meno di un anno.
In generale, occorre tempo perché gli accordi abbiano effetto. L’eliminazione dei dazi avviene gradualmente e, soprattutto, molte imprese non riescono a usufruire immediatamente delle preferenze daziarie, per mancanza di informazione o per le complessità burocratiche associate, per esempio, alle nuove regole di origine dei prodotti, che comportano costi in termini di tempi e risorse.
Ciò è confermato dal basso tasso di utilizzo delle preferenze tariffarie da parte delle imprese europee nel primo anno di applicazione degli accordi: il 50 per cento delle aventi diritto per quanto riguarda la Corea del Sud e appena il 37 per cento per il Canada. Per la Corea del Sud il tasso di utilizzo è cresciuto gradualmente fino all’81 per cento dopo sette anni di vigore dell’accordo.
Inoltre, la riduzione delle barriere non tariffarie è un processo ancora più lungo e complesso. Perciò sono predisposti comitati e gruppi di lavoro ad hoc, che si riuniscono regolarmente e monitorano l’applicazione delle nuove norme e gli eventuali colli di bottiglia. Per esempio, nel caso del Canada è stato riscontrato il perdurare di pratiche discriminatorie per quanto riguarda l’accesso di formaggi, vino e bevande alcoliche europee e di difficoltà nell’attuazione delle disposizioni sulle indicazioni geografiche.
Infine, ai nuovi esportatori, che entrano per la prima volta nel mercato, occorre tempo per costruire i legami distributivi e produttivi necessari per sfruttarne a pieno le potenzialità.
… e gli altri fattori degli scambi In secondo luogo, la dinamica degli scambi bilaterali è determinata da tante altre variabili, non connesse agli accordi preferenziali.
Schematicamente si possono ricondurre a quattro categorie: fattori che determinano l’andamento del commercio mondiale, come lo sviluppo delle catene globali del valore, le spinte protezionistiche, l’incertezza geoeconomica; caratteristiche degli esportatori, cioè riguardanti la competitività dei prodotti italiani ed europei, come fattori di cambio, costo, prezzo e qualità; variabili che influenzano la domanda di importazioni dei paesi di destinazione, in particolare la loro crescita economica e la competitività dei prodotti interni; altri fattori bilaterali riguardanti i rapporti commerciali tra le due aree, in particolare il tasso di cambio bilaterale (al netto dei movimenti complessivi delle due valute, cioè rispetto a tutte le principali valute mondiali).
Per tenere in conto molti di questi fattori, è utile analizzare la dinamica degli scambi bilaterali al netto di quella complessiva per i paesi oggetto dell’accordo. Si possono così costruire due indicatori complementari dell’impatto dell’accordo.
Due punti di vista: peso dei mercati sull’export europeo… L’indicatore dal lato dell’export misura la dinamica delle vendite italiane ed europee nei paesi oggetto degli accordi al netto di quella complessiva nei mercati extra-UE (cioè come differenza tra i due tassi di crescita), prima e dopo l’implementazione degli accordi. In questo modo si tiene conto di variazioni della competitività media dei prodotti italiani ed europei e dei fattori globali.
L’indicatore ha un’interpretazione intuitiva: un valore positivo significa che il peso del mercato di riferimento per il totale dell’export extra-UE italiano ed europeo è aumentato, e viceversa. I risultati evidenziano un forte impatto positivo degli accordi commerciali, soprattutto per le esportazioni italiane (Figura A).
Per quanto riguarda il complesso dell’Unione europea, l’impatto dei tre accordi risulta quantitativamente equivalente (nell’arco di tempo per cui sono disponibili i dati). Infatti, dopo una dinamica piatta prima della loro introduzione, la crescita delle vendite verso questi mercati supera quella complessiva di circa 5 punti percentuali dopo un anno, di 10 punti dopo due anni e di 20 dopo tre anni (variazioni cumulate). Nel caso della Corea del Sud, la crescita differenziale ha raggiunto un massimo di 25 punti percentuali dopo tre anni e mezzo e poi si è attestata su questi livelli, pur con significative oscillazioni (+25 punti anche dopo otto anni).
Per quanto riguarda l’Italia, l’impatto degli accordi risulta ancora più forte per le vendite in Corea del Sud e, nel breve periodo a disposizione, per quelle in Giappone. Verso la Corea del Sud, in particolare, si osserva una maggiore crescita dell’export (rispetto al totale extra-UE) di ben 15 punti percentuali nel primo anno, probabilmente anche perché alcune vendite erano state posticipate per beneficiare dei vantaggi preferenziali (come segnalato dal calo dell’indicatore nei mesi appena precedenti l’inizio dell’accordo). La crescita differenziale dell’export ha raggiunto un massimo di 45 punti percentuali (cumulati) dopo tre anni, mantenendo questo livello, con delle fluttuazioni, fino ai dati più recenti (otto anni dopo). Per quanto riguarda l’accordo con il Canada, invece, l’effetto appare nullo nel primo anno e diventa positivo nel secondo (+7 punti percentuali).
Tuttavia, le importazioni totali dei tre paesi considerati hanno registrato una crescita debole, e inferiore a quella del commercio mondiale, nel periodo successivo all’entrata in vigore degli accordi (in particolare, per quanto riguarda la Corea del Sud, nel triennio 2012-2015). Ciò ha costituito un freno, a parità di altre condizioni, alle vendite italiane ed europee in questi paesi. Di conseguenza, è verosimile che l’indicatore basato sull’export sottostimi l’impatto degli accordi.
… e quota europea sull’import dei paesi L’indicatore dal lato dell’import, invece, tiene conto dei fattori specifici che influenzano la dinamica delle importazioni di questi paesi. È costruito come la differenza tra la crescita degli acquisti dei paesi di prodotti italiani ed europei e quella delle loro importazioni dal resto del mondo (esclusa l’Unione europea).
Un valore positivo, quindi, indica che la quota dei beni italiani ed europei sulle importazioni dei paesi di riferimento è aumentata, e viceversa.
Anche in base a questo indicatore la discontinuità introdotta dagli accordi commerciali nella dinamica delle vendite italiane ed europee risulta netta (Figura B). In particolare, l’impatto dell’accordo con la Corea del Sud sulle vendite europee sale a quasi 40 punti percentuali dopo tre anni e mezzo e nel lungo periodo. Per i prodotti italiani l’effetto raggiunge quasi 55 punti percentuali di maggiore crescita, nello stesso periodo di tempo.
Per quanto riguarda l’accordo con il Canada, la stima dell’effetto coincide sostanzialmente con quella derivante dalla performance dell’export: +10 punti percentuali per le vendite europee e poco meno (+8 punti) per l’Italia.
Infine, l’impatto dell’accordo con il Giappone è confermato per i beni europei (circa 4 punti percentuali di maggiore crescita nei primi 8 mesi di validità dell’accordo). È, invece, minore per i beni italiani, che scontano una dinamica negativa, cioè una perdita di quote sul mercato giapponese, prima dell’introduzione dell’accordo; dinamica che si è invertita ed è tornato positiva negli ultimi mesi.
Un’altra ragione per preferire l’indicatore dal lato dell’import per stimare l’effetto degli accordi sulle vendite italiane ed europee è che, per i due casi in cui i risultati differiscono con quello dal lato dell’export (Corea del Sud e Giappone), le variabili specifiche dei paesi importatori appaiono in grado di spiegare anche i movimenti del cambio bilaterale con l’euro. Infatti, l’apprezzamento complessivo dello won coreano e dello yen giapponese (rispetto a un paniere di valute internazionali), nei periodi considerati, è in linea con la rivalutazione di queste valute nei confronti dell’euro.
Stime a confronto La stima CSC è comparabile con quelle ottenute da altri studi, specie per quanto riguarda l’accordo con la Corea del Sud (l’unico per cui è possibile una valutazione di lungo periodo). Uno studio pubblicato dalla Commissione europea trova un effetto causale di +54 per cento per l’export europeo in Corea del Sud dopo tre anni di applicazione. Un valore maggiore delle stime CSC per l’intera Unione europea, ma in linea per quanto riguarda l’Italia.
Più in generale, secondo una ricerca recente che considera un ampio insieme di accordi commerciali di nuova generazione nel periodo 2002-2014, l’impatto diventa visibile dopo circa due anni dall’introduzione dell’accordo ed è pari a un incremento del 44 per cento degli scambi bilaterali.
L’effetto dell’eliminazione dei dazi Al fine di quantificare l’impatto della riduzione delle tariffe sui prodotti italiani esportati nei paesi firmatari di un accordo si è effettuata un’analisi settoriale a due digit (secondo il sistema armonizzato internazionale HS). La crescita settoriale così ottenuta è depurata dal confronto con quella realizzata negli altri mercati extra europei, in modo da ottenere la crescita cumulata al netto di possibili effetti settoriali globali. Tale indicatore della perfomance settoriale dell’export italiano nei paesi considerati è confrontato con i guadagni di competitività di prezzo ottenuti attraverso le eventuali riduzioni tariffarie (nell’ultimo anno disponibile rispetto all’anno precedente all’entrata in vigore degli accordi).
Per quanto riguarda l’accordo con la Corea del Sud, per cui si hanno a disposizione otto anni di dati, con una base tariffaria precedente molto più elevata di quella di Canada e Giappone, è stata rilevata una significativa relazione diretta tra la riduzione tariffaria e l’aumento relativo dell’export settoriale, dal secondo anno successivo all’entrata in vigore dell’accordo.
Secondo l’analisi econometrica, infatti, nel 2013 una riduzione tariffaria dell’1 per cento è stata associata a una crescita delle vendite italiane in Corea del Sud pari al 4,1 per cento (cioè l’elasticità delle importazioni coreane alla riduzione dei dazi è stata pari a 4,1). Negli anni successivi si stima una maggiore elasticità, che ha toccato un massimo di 5,4 nel 2017 (Figura C).
Aggregando i risultati in base alle riduzioni tariffarie osservate, l’effetto complessivo risulta essere pari a una crescita del 28 per cento dell’export italiano in Corea del Sud dal 2011 al 2018. Ciò corrisponde a circa metà dell’impatto cumulato dell’accordo, stimato in precedenza (+55 per cento).
Al contrario, dall’analisi econometrica non si rileva alcun effetto statisticamente significativo della riduzione delle tariffe sulla performance delle esportazioni italiane in Canada e in Giappone dopo l’entrata in vigore degli accordi. Il breve periodo a disposizione, meno di un anno per il Giappone e quasi due anni per il Canada, e il minore grado di copertura tariffaria di partenza possono contribuire a spiegare questa assenza di significatività (a fronte di una performance comunque positiva delle vendite italiane verso queste due destinazioni).
Le stime CSC dell’elasticità delle importazioni al prezzo rientrano nel range delle stime che si trovano in letteratura. Nonostante una grande variabilità tra categorie di beni e paesi, infatti, i valori medi per il totale dell’import sono generalmente compresi tra 3 e 7. Una recente stima dell’elasticità aggregata delle importazioni di vari paesi registra per la Corea del Sud un valore mediano pari a 5,4, uguale alla stima CSC nel lungo periodo.
Differenze settoriali In generale, nei settori in cui si è registrata una forte riduzione dei dazi si rileva anche un aumento del livello esportato da parte delle imprese italiane. Ma le variazioni tariffarie, da sole, non sono in grado di spiegare le forti differenze nelle performance settoriali.
In particolare, in tutti e tre i paesi considerati il maggior contributo alla crescita nel periodo intercorso tra l’entrata in vigore dell’accordo e l’ultimo anno disponibile è venuto dai settori tradizionali del made in Italy (sistema moda, abbigliamento-calzature-tessile, alimentari e bevande) e dai primi due comparti per peso sul totale esportato dall’Italia nel mondo (macchinari e prodotti in metallo).
Per esempio, nel settore delle bevande una robusta crescita delle esportazioni è stata registrata nei primi nove mesi del 2019 in Giappone, grazie alla sensibile riduzione sia delle barriere tariffarie che di quelle non tariffarie (per quanto riguarda la denominazione dei prodotti).
Le barriere non tariffarie, comunque, sono di difficile quantificazione e l’impatto delle misure di liberalizzazione appare molto variabile. Un caso importante riguarda il settore degli autoveicoli. Si è registrata una performance molto positiva delle vendite in Corea del Sud, anche grazie alla semplificazione di alcune procedure alla dogana. Viceversa, nonostante le semplificazioni normative concordate nei recenti trattati, la crescita in Giappone è risultata quasi nulla e addirittura negativa in Canada, pur registrando una dinamica migliore rispetto a quella verso il resto dei paesi extra-europei (Tabella C).
L’effetto della riduzione delle barriere non tariffarie nei servizi Gli accordi di nuova generazione facilitano anche lo scambio di servizi. In Canada e Corea del Sud (per il Giappone non sono ancora disponibili i dati per il 2019) si registra una crescita delle esportazioni italiane in tutte le principali categorie di servizi, superiore a quella registrata negli altri paesi extra-europei, già nell’anno successivo all’entrata in vigore dell’accordo.
Tra i servizi che hanno avuto la performance relativa migliore ci sono anche quelli che contribuiscono di più alla crescita complessiva del comparto (pesando per più del 60 per cento nel caso della Corea del Sud e per quasi il 40 per cento per il Canada). In particolare, i viaggi sono la voce che contribuisce di più alla crescita dell’export di servizi, con una quota superiore a un terzo del totale (Tabella D). Ciò indica che l’introduzione degli accordi è stata associata a un aumento dei turisti coreani e canadesi in Italia, con un rilevante impatto sull’indotto economico nazionale.
Inoltre, gli altri settori terziari italiani più dinamici in questi paesi, in base al contributo all’export, sono quelli a elevato contenuto tecnologico. Particolarmente forte è stata la performance dei servizi professionali e tecnici in Corea del Sud e, in misura minore, delle tecnologie dell’informazione e comunicazione in Canada.
Il nodo della dimensione di impresa Le barriere agli scambi, soprattutto non tariffarie, sono particolarmente stringenti per le piccole imprese, che hanno conoscenze manageriali e risorse finanziarie limitate e incontrano maggiori difficoltà a reperire informazioni e identificare i partner internazionali.
Si tratta di un tema molto importante, perché le imprese di piccole dimensioni, cioè inferiori ai 50 addetti, rappresentano la grande maggioranza delle imprese esportatrici nei mercati extra-UE e, nel caso dell’Italia, generano una quota rilevante delle vendite. Per quanto riguarda l’export italiano extra-UE, infatti, rappresentano il 91 per cento delle aziende (per cui l’informazione è disponibile; dati 2017) e il 23 per cento del fatturato. Nel caso dell’export tedesco extra-UE, invece, sono l’80 per cento delle aziende ma generano appena l’8 per cento delle vendite.
Queste aziende, quindi, possono beneficiare fortemente della riduzione delle barriere non tariffarie introdotta dagli accordi preferenziali. Allo stesso tempo, però, possono trovare particolarmente gravoso il peso amministrativo delle nuove normative, per esempio riguardo alle regole di origine. Per questi motivi, i più recenti accordi commerciali, entrati in funzione con Canada e Giappone, hanno un capitolo dedicato alle piccole e medie imprese.
L’evidenza riguardo agli effetti degli accordi su questa categorie di imprese è ancora molto limitata e, in gran parte, aneddotica. Storie di successo, per esempio, riguardano esportatori europei di beni alimentari (vino, formaggi, frutta) in Canada.
Per alcuni paesi europei, comunque, sono disponibili dati statistici per valutare l’impatto dell’accordo con la Corea del Sud. In Belgio, in particolare, risulta che i maggiori beneficiari sono stati gli esportatori di minore dimensione. In Spagna, le imprese che sono entrate nel mercato coreano dopo l’accordo risultano avere una dimensione minore, in media, di quelle che erano già presenti.
Tuttavia, Canada, Giappone e Corea del Sud rappresentano ancora destinazioni difficili da raggiungere per le imprese di minori dimensioni. Infatti, secondo i dati disponibili per 15 paesi europei (Italia esclusa), meno di un terzo degli esportatori verso questi paesi sono micro-imprese (con meno di dieci addetti), rispetto a una media del 56 per cento per il totale delle destinazioni extra-UE. Vicerversa, circa il 15 per cento degli esportatori in questi paesi sono grandi imprese (250 e più addetti), più del triplo rispetto alla media (Figura D).