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Il PIL mondiale si manterrà in moderata espansione, decelerando di poco nel 2025 Nello scenario di crescita globale preso a riferimento in questo rapporto di previsione si sconta un rallentamento negli USA, quasi del tutto bilanciato dalla migliore dinamica nell’Eurozona e dalla crescita negli emergenti (Tabella A). Per gli USA si ipotizza, infatti, un soft landing, con la crescita che, dal +2,5% del 2023, rallenta al +2,3% nel 2024 e al +1,5% nel 2025. La dinamica degli emergenti è rivista poco al rialzo nel 2024 rispetto alle attese di aprile, grazie a migliori andamenti per alcune economie, tra cui Argentina, Turchia, Polonia e Russia. Se però si guarda alle prime cinque economie emergenti, in primis Cina e India, la dinamica è in leggero rallentamento dal 2023.
È
ampio il gap di crescita dell’Eurozona rispetto agli altri due grandi player mondiali: dal pre-pandemia (fine 2019) alla metà del 2024 il PIL dell’Area Euro è aumentato del +3,9% rispetto al +10,7% degli Stati Uniti e al +22,8% della Cina. Anche nell’anno in corso il ritmo di crescita europeo (+0,2% nel 2° trimestre sul 1°) resta nettamente inferiore a quello di USA e Cina (+0,7% entrambi). L’Europa, infatti, è alle prese con il forte calo degli investimenti e il rallentamento dei consumi delle famiglie, entrambi legati agli alti tassi di interesse. L’indice di fiducia delle imprese industriali è recessivo da 19 mesi e ha toccato il punto più basso da agosto 2020. Solo nella seconda metà dell’anno prossimo l’allentamento della politica monetaria, che tornerà neutrale a fine 2025 (-200 punti base da giugno scorso a fine 2025), esplicherà in modo incisivo i suoi effetti, insieme al recupero del potere d’acquisto delle famiglie.
Il commercio mondiale di beni è tornato in espansione nei primi sette mesi del 2024, dopo la battuta d’arresto nel 2023 ed è atteso consolidarsi, tornando ai ritmi pre-pandemia. Ciò grazie a una domanda più robusta alimentata dal rientro dell’inflazione, che sostiene il potere d’acquisto e la fiducia delle famiglie, e dalla discesa dei tassi di interesse nelle principali aree, che permetterà una graduale risalita del credito e una migliore dinamica degli investimenti. L’andamento della domanda globale è trainato dagli acquisti all’estero degli Stati Uniti (primo paese importatore mondiale) e dalle vendite della Cina (primo esportatore mondiale).
Continuano i segnali di decoupling In Cina è in atto un progressivo calo dell’import che contrasta con la robusta crescita dell’export e dell‘attività industriale. Si tratta di segnali da un lato di una domanda interna debole, dall’altro dello spostamento all’interno dei confini nazionali di processi produttivi a monte delle supply chain e, quindi, di minore dipendenza dagli input esteri. Aumentano, inoltre, i segnali di decoupling tra Cina e Stati Uniti (minor peso degli acquisti incrociati) e, più recentemente, tra Cina e Unione Europea; contemporaneamente, si rafforzano le connessioni commerciali UE-USA.
Persistono vari fattori che alimentano le tensioni globali e hanno effetti negativi su prezzi delle commodity e scambi: tassi ancora elevati, prezzi ener- getici superiori al pre-2022, guerre in Ucraina e Medio Oriente (costo dei noli per le rotte Asia-Europa e Asia-USA molto al di sopra dei livelli del 2023, più che raddoppiato nel caso di quelle atlantiche), crescenti misure protezionistiche (a ritmo più del doppio rispetto a quelle varate prima del 2020), elevata incertezza nei rapporti multilaterali, alimentata anche dalle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti. All’energia e alle guerre, in Europa si aggiunge la crisi dell’automotive che sta indebolendo l’attività industriale, soprattutto in Germania.
Diversi fattori influiranno positivamente sulla dinamica dell’economia italia-na nel biennio: la ripresa del commercio internazionale, tra la seconda parte del 2024 e, in particolare, il 2025; l’allentamento della politica monetaria che avrà effetti positivi sulle scelte di investimento delle imprese e di consumo delle famiglie progressivamente e soprattutto nel 2025; un moderato rafforzamento della crescita dell’Area euro, sostanzialmente in linea con quello previsto per l’economia italiana; un miglioramento del reddito disponibile reale delle famiglie per via dell’ulteriore espansione occupazionale, del rientro dell’inflazione e del progressivo recupero dei salari reali; l’implementazione del PNRR (9,5 i miliardi spesi finora quest’anno sui 42,2 programmati) che, sebbene si assuma una spesa solo parziale delle risorse pianificate (metà quest’anno e due terzi il prossimo, per un totale di circa 60 miliardi su oltre 100 programmati), darà un contributo importante alla crescita. Agiranno in senso contrario, la persistente fragilità dell’economia tedesca, primo mercato di sbocco dell’export italiano (-5,4% l’export italiano nei primi sette mesi del 2024); le tensioni globali e il venir meno, soprattutto il prossimo anno, della spinta degli incentivi all’edilizia.
Rallenta la crescita in Italia a seguito della revisione Istat Le previsioni CSC per l’economia italiana sono riviste al ribasso, rispettivamente di 1 e 2 decimi di punto all’anno, rispetto a quelle incluse nel rapporto dello scorso aprile: il PIL è previsto crescere del +0,8% nel 2024 e del +0,9% nel 2025 (Tabella B). Un ritmo di crescita, comunque, più alto di quello registrato dall’Italia, in media, nei decenni pre-pandemia.
In base alla recente ampia revisione Istat dei dati di contabilità nazionale, l’Italia nel 2023 è cresciuta di +0,7%, non di +0,9% come stimato in precedenza. Inoltre, sebbene la dinamica del PIL nei primi due trimestri del 2024 sia rimasta invariata, la peggior chiusura del 2023 determina l’azzeramento dell’eredità statistica nel 2024 (in precedenza pari a +0,2).
La crescita del PIL dal lato dell’offerta quest’anno viene dai servizi (+0,6% nel 2° trimestre dopo un forte aumento anche nel 1° di +0,8%), in calo tutti gli altri settori. Nel 3° trimestre 2024, l’attività nei servizi è in rallentamento ma dovrebbe rafforzarsi nella parte finale dell’anno e poi nel 2025 grazie alla moderata inflazione, all’aumento del reddito disponibile reale delle famiglie e al miglioramento delle condizioni di accesso al credito al consumo. Le costruzioni dal lato abitativo stanno risentendo fortemente della riduzione degli incentivi nel 2024 e ne risentiranno in misura ancora maggiore nel 2025 quando verranno meno altre agevolazioni fiscali. Quelle di tipo non abitativo, invece, dovrebbero beneficiare delle risorse del PNRR e di impieghi bancari meno onerosi. Nel biennio prevarrà comunque l’effetto del calo delle abitazioni.
La produzione industriale nel 2023 è diminuita del 2,4% e, nei primi otto mesi del 2024, di un’ulteriore 3,2% (rispetto ai mesi corrispondenti del 2023). Nel 3° trimestre rimane negativa, con una riduzione dello 0,5% acquisita ad agosto. A livello settoriale, emergono performance molto differenti con una crescita di altri mezzi di trasporto, riparazioni e installazioni (con un incremento del +8,0% e del +5,3% nei primi otto mesi dell’anno rispetto ai primi otto mesi del 2023), alimentari e carta (+2,7% e +1,9%), mentre pesa la contrazione dell’automotive (-17,9%), degli articoli in pelle (-15%) e dell’abbigliamento. Il valore aggiunto dell’industria in senso stretto è previsto recuperare il prossimo anno (-0,8% nel 2024, in linea con l’acquisito, +1,0% nel 2025), grazie alla ripresa della domanda, interna ed estera, comunque modesta, tra fine anno e inizio 2025.
Si fermano quest’anno (+0,5%) e scenderanno l’anno prossimo (-1,3%) gli investimenti, dopo la robusta crescita degli anni scorsi (+21,5% nel 2021, +7,5% nel 2022 e +8,5% nel 2023). Nella prima metà del 2024 hanno frenato a causa dell’azzeramento del contributo di quelli in abitazioni, ma ha inciso anche il contributo negativo di quelli in impianti e macchinari. Nella seconda parte dell’anno la dinamica è attesa diventare negativa per la caduta dell’edilizia residenziale, che si acuirà nel 2025 quando anche gli altri incentivi edilizi saranno scaduti o torneranno alle aliquote ordinarie, e nonostante l’impatto positivo del taglio dei tassi di interesse. Il calo (-15%) riporterà nel 2025 gli investimenti in abitazioni su un livello a metà tra quelli del 2021 e del 2022, corrispondente ai valori del 2008. Agiranno a parziale compensazione le spese connesse all’implementazione del PNRR, che rafforzeranno gli investimenti in fabbricati non residenziali, e la ripresa degli investimenti in impianti e macchinari, già dalla seconda parte del 2024, che riguarderà gli investimenti ritardati dall’attesa di Transizione 5.0, misura che presenta alcune difficoltà applicative (la dimostrazione del risparmio energetico, la non chiara definizione delle regole di cumulo con altre misure finanziate da risorse europee e l’esclusione dall’incentivo di una parte del sistema produttivo in ottemperanza al principio del Do No Significant Harm). Su tutte le componenti degli investimenti, inoltre, agiranno positivamente sia il taglio dei tassi di interesse che le migliori prospettive economiche.
Reddito disponibile in risalita ma consumi frenati dalla ricostituzione del risparmio speso negli anni scorsi. La spesa delle famiglie per beni e servizi è tornata sui livelli pre-Covid grazie all‘ottima crescita registrata nel 2023 (+1,0% in media d’anno). Nella prima metà del 2024 è cresciuta ancora anche se in misura molto limitata (in media, +0,2% a trimestre). Sta risalendo lentamente anche la spesa per i beni, diminuita lo scorso anno (-1,3% in media).
Il reddito disponibile delle famiglie in termini reali ha registrato un lieve calo nel 2023 (-0,2% annuo) ma nella prima metà del 2024 è cresciuto (+2,2% ac- quisito al 2° trimestre) grazie al protrarsi dell’espansione dell’occupazione, al rafforzamento della dinamica salariale e alla moderata inflazione. L’elevata propensione al risparmio, arrivata molto oltre i valori “normali” (10,2% nel 2° trimestre, rispetto a 7,9% nel periodo 2015-2019) sta frenando i consumi e riflette l’intenzione delle famiglie di ricostituire il risparmio speso negli anni scorsi (a causa dell’alta inflazione) e l’incerto contesto geopolitico. In prospettiva, le famiglie dovrebbero tendere gradualmente a normalizzare il tasso di risparmio, aumentando i consumi. Inoltre, il taglio dei tassi già avviato e atteso proseguire, agirà favorevolmente sia sui prestiti sia riducendo i costi per le famiglie, con effetti positivi che saranno più evidenti soprattutto nel 2025.
La dinamica annua dei prezzi al consumo in Italia (0,7% annuo a settembre, al +1,1% nel 2024) è la più bassa tra le principali economie europee (+1,7% nell'Eurozona) e si mantiene molto sotto l’obiettivo BCE del +2,0%. Per questa ragione, in Italia i tassi di interesse ancora alti risultano più restrittivi che altrove in termini reali. Nel 2025, l’inflazione in Italia è attesa risalire in parte, tendendo ad avvicinarsi ai valori della misura core, cioè poco sotto il +2,0%.
In calo, atteso, le ore lavorate per occupato, a parziale rientro del forte allungamento degli orari osservato negli scorsi anni e alla luce di una serie di fattori, sia congiunturali (rallentamento dell’attività edile e debolezza del settore industriale) sia strutturali (ricomposizione dell’attività e dell’occupazione verso i servizi, caratterizzati da orari di lavoro più corti). Ciò porterà a un lieve miglioramento della produttività del lavoro: +0,6% quella per ora lavorata nel 2025, dopo i cali registrati negli anni precedenti (-0,6% nel 2024 e -1,5% nel 2023). Questo soprattutto nell’industria, dove pare essersi esaurito il fenomeno dell’occupazione senza crescita osservato dal 2022 (e sta crescendo il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni), e nei servizi, dove è in atto dal 2022 una ricomposizione a favore dei settori a più alta produttività (informazione e comunicazione e attività professionali, scientifiche e tecniche e servizi di supporto). In media d’anno, come già nel 2023, anche nel 2024, l’occupazione in termini di unità equivalenti (ULA) crescerà a un ritmo più sostenuto rispetto all’attività economica (+1,4% per le ULA contro il +0,8% del PIL). Già dalla metà di quest’anno, tuttavia, e nel 2025 le ULA sono attese avanzare ad un ritmo inferiore rispetto al PIL (mentre il numero di occupati continuerà ad aumentare come il PIL).
La dinamica retributiva nominale, insieme al rientro dell’inflazione, permetterà un graduale recupero delle retribuzioni reali, che avanzeranno del +4,3% nel biennio 2024-2025, dopo il -6,7% nel 2022-2023. La risalita è già iniziata nel 2023, trainata dal settore privato, dove le retribuzioni reali per ULA nel 2° trimestre 2024 avevano recuperato il 40% della perdita di potere di acquisto generata dall’impennata dell’inflazione (-5,0% sul 1° 2021, da un punto di minimo di -8,3% a fine 2022). Ciò grazie all’accelerazione delle retribuzioni contrattuali che è avvenuta prima ed è stata più ampia nell’industria (dove la copertura dei CCNL è stata pressoché completa nel biennio 2022-2023) e basata sul virtuoso meccanismo di adeguamento dei minimi tabellari definito tra le parti sociali nel 2009, che ha consentito un rientro più rapido dell’inflazione rispetto agli altri paesi europei. Al contrario, nel settore pubblico, a riflesso di due tornate di rinnovi dei contratti collettivi di lavoro in ampio ritardo, le retribuzioni reali pro-capite sono scese ancora di più con l’impennata dei prezzi (-13,2% nel 1° trimestre 2023 sul 1° 2021) e hanno iniziato a recuperare solo dalla seconda parte del 2023, attestandosi a metà 2024 su un livello ancora di quasi 9 punti percentuali inferiore a quello di inizio 2021.
Sale ancora il CLUP nel settore manifatturiero italiano sotto la spinta dell’accelerazione salariale contemporanea alla contrazione della produttività del lavoro: +5,6% nel 1° semestre 2024 sul 1° 2023, dopo il +5,9% medio annuo nel 2023. Il miglioramento della produttività del lavoro nel 2025 smorzerà il ritmo di crescita del Clup, che comunque è atteso ancora in espansione di circa 3 punti, data la dinamica salariale sostenuta.
L’export di beni è rimasto stagnante nei primi sette mesi del 2024 (-0,1% rispetto allo stesso periodo del 2023, dopo -1,2% lo scorso anno) a causa del calo della domanda europea (che assorbe il 52% dell’export italiano). È il risultato, infatti, di un aumento delle vendite nei mercati extra-UE (+1,8%), anche grazie al +3,3% verso gli Stati Uniti (secondo paese di destinazione delle vendite italiane), e una diminuzione in quelli UE (-1,6%), con un calo del -5,4% verso la Germania (primo paese di sbocco). Nonostante ciò, l’export italiano ha registrato una dinamica migliore della propria domanda potenziale, guadagnando quote di mercato nei propri mercati di destinazione. Le importazioni italiane di beni sono in forte calo quest’anno risentendo della debolezza della domanda interna di consumo e soprattutto di investimento, specie in macchinari, oltre che della stagnazione delle stesse esportazioni. Per questo l’export netto offre un forte contributo alla crescita del PIL nell’anno in corso (+1,2 punti percentuali) e resta marginalmente positivo nel prossimo anno (+0,1 punti) quando export e import di beni sono attesi ripartire a ritmi moderati favoriti da un miglioramento dell’attività manifatturiera mondiale e soprattutto europea (comunque sotto agli scambi mondiali). Significativa la contrazione degli acquisti dall’estero, quest’anno, di beni energetici (gas e petrolio, pari all’11% dell’import italiano nel 2023), favorita da un precedente accumulo di scorte e da temperature invernali miti, ridotti di oltre un quinto, a prezzi costanti, rispetto allo stesso periodo del 2023, contribuendo per oltre la metà al calo dell’import totale.
L’ottima performance dell’export è il risultato di una serie di aggiustamenti avvenuti negli ultimi 10-15 anni: la contrazione della base produttiva tra il 2011 e il 2022 del -16% (67mila imprese) che ha interessato le classi micro-piccole mentre è aumentato il numero delle medie e grandi dal 2015; il riequilibrio della produttività comparativamente alle altre imprese europee dovuto principalmente alle imprese di piccola e media dimensione (tra i 10 e i 249 addetti) il cui vantaggio di efficienza nei confronti delle omologhe tedesche e francesi è quasi costantemente aumentato (il gruppo dei produttori “migliori” è costituito da poco meno del 20% delle imprese manifatturiere italiane, che occupano più del 50% degli addetti e producono circa il 50% del valore aggiunto); l’aumento della quota di imprese esportatrici da meno del 21% nel 2011 a più del 22% nel 2022 perché le esportatrici sono diminuite meno delle altre, accompagnato anche da un aumento dell’export medio per impresa indipendentemente dalla classe dimensionale di appartenenza.
I nodi della competitività. Nei prossimi anni diversi fattori mettono a rischio la crescita del Paese.
Il declino
demografico accrescerà la carenza di lavoratori, che già oggi è un problema: prima della pandemia vi erano difficoltà di reperimento per il 26% delle assunzioni previste (1,2 milioni), mentre nel 2023 la quota ha superato il 45% (quasi 2,5 milioni). Fattori quali la scarsa mobilità interna, la fuga di cervelli, la carenza di lavoratori extra-UE tendono ad accrescere il problema. Sulla base delle proiezioni demografiche Istat, il saldo naturale della popolazione residente in Italia è previsto ridursi di 1,5 milioni tra l’inizio di quest’anno e il 2028. Nonostante il saldo migratorio positivo con l’estero atteso pari a 1,2 milioni, la popolazione in età lavorativa sarà di 850mila unità inferiore. A parità di tasso di occupazione, l’offerta di lavoro tra 5 anni si ridurrà di 520mila unità. Una modesta crescita economica (del 4,9% cumulato nel 2024-2028) implicherebbe un fabbisogno di occupazione aggiuntiva di circa 815mila unità. Il mismatch, quindi, potrebbe ampliarsi di 1,3 milioni unità nel 2028. A livello territoriale, sarebbe più contenuto al Nord, comunque sotto la media nazionale al Centro, mentre si accentuerebbe nel Mezzogiorno. Difficile pensare di compensarlo con il solo aumento del tasso di occupazione, che dovrebbe salire di 3,7 punti percentuali. Assumendo un aumento del tasso di occupazione di due punti (obiettivo più verosimile sull’arco di un quinquennio), mancherebbero ancora 610mila unità che dovrebbero essere reperite con un ampliamento degli ingressi di lavoratori stranieri di circa 120mila unità in più all’anno, se si vuole evitare che la disponibilità di lavoratori limiti la crescita dell’attività economica.
Costi di alloggio troppo elevati rispetto a produttività e quindi salari, nelle diverse aree territoriali, frenano la mobilità dei lavoratori. I costi di alloggio sono un fattore chiave nella decisione di trasferirsi per lavoro in un’altra area geografica. In un mercato ideale, i costi di alloggio dovrebbero essere proporzionati al livello di produttività della regione e quindi ai salari medi. Prezzi delle case troppo alti rispetto alla produttività, anche in zone ad alta domanda di lavoro, creano una barriera per i lavoratori che potrebbero trasferirsi in tali aree. In Italia, questo problema si manifesta in maniera particolarmente evidente in alcune province come Milano, Como, Venezia, Bologna, Firenze e Roma, oltre che in generale nel Nord-Ovest e nel Centro Italia. Il risultato paradossale è che alcune aree geografiche con alta domanda di lavoro sperimentano carenze di personale, mentre altre aree con produttività più bassa e minori opportunità lavorative soffrono di alti tassi di disoccupazione. Misure di sostegno per i canoni di locazione e un piano composito, volto a favorire la costruzione o riqualificazione di immobili a prezzi calmierati, potrebbero aiutare a ridurre questi squilibri e accrescere la mobilità dei lavoratori.
I prezzi del gas e dell’elettricità sono ancora più alti in Italia, sia rispetto agli altri grandi paesi europei come Francia e Germania, sia rispetto agli Stati Uniti penalizzando la competitività delle imprese rispetto ai principali partner occidentali. Oltre agli interventi già avviati, un utile contributo potrà venire dalla riforma del mercato elettrico, per separare il prezzo dell’elettricità da quello del gas, così come, nel lungo periodo, dallo sviluppo del nucleare.
Il crollo del settore dell’auto, tornato circa al livello di produzione di inizio 2013, data la sua rilevanza, mette a rischio la crescita italiana sia di breve che di medio-lungo periodo: -26,1% la produzione a luglio 2024 rispetto a luglio 2023 contro il -3,8% della produzione industriale totale; nel comparto autoveicoli propriamente detti il calo è ancora più profondo (-34,7%). Il fenomeno, seppur legato alla debolezza della domanda, non è solo congiunturale (è aumentato, sebbene di poco, l’import di autoveicoli in Italia del +2,0% tendenziale). C’è anche qualche cambiamento nelle abitudini che riduce la domanda: tra i giovani sarebbe più basso il desiderio di utilizzare un’automobile rispetto alle precedenti generazioni; è in forte crescita il vehicle-sharing. Ma incide sicuramente anche il costo: in Europa nel 2023 l’automobile elettrica più economica sul mercato era del 92% più costosa del corrispettivo più economico a combustione interna, a causa delle batterie, che incidono circa per il 40% sul totale dei costi; le differenze di prezzo aumentano man mano che si riduce la dimensione del veicolo. Prendendo a riferimento due motorizzazioni alternative di una stessa automobile di piccola taglia, su un arco di tempo di 10 anni, includendo tutti i costi, passare all’auto elettrica comporta un aggravio di spesa per un automobilista italiano pari a circa 5.700 euro, il 15% in più. Inoltre, i tempi di ricarica sono più elevati, l’autonomia di percorrenza notevolmente ridotta, la disponibilità delle infrastrutture per la ricarica ancora limitata e la performance della batteria si riduce progressivamente. L’associazione tra le trasformazioni in corso e il crollo della produzione nel settore dell’auto non sembra essere casuale. Ma il settore è troppo rilevante per l’economia italiana ed europea: solo il settore “core” rappresenta il 13% del fatturato manifatturiero europeo, il 6,3% della produzione manifatturiera italiana, un valore aggiunto di 15 miliardi e 170mila occupati in Italia. E senza contare tutto l’indotto domestico generato (con il quale il settore pesa il 5,6% del valore aggiunto complessivo secondo Anfia), che coinvolge soprattutto l’industria dei prodotti in metallo ma anche la gomma-plastica, le attività metallurgiche, la fabbricazione di macchinari e le apparecchiature elettriche.
Il sempre più stringente sistema ETS parallelamente all’operatività del CBAM accresce il rischio che alcune delle attività produttive regolate, che rappresentano il 9% del valore aggiunto manifatturiero sia in Italia sia nella media europea, vengano trasferite fuori dall’UE. L’UE ha fissato un limite massimo alle quote di emissioni totali consentite rivisto e ridotto su base annuale che porterà a ridurle del 62% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005. La riduzione rilevante delle quote in circolazione e la possibilità che operatori esterni al sistema possano acquistare sul mercato le EU allowances hanno comportato un aumento molto significativo dei prezzi di acquisto delle quote: da inizio 2021 a oggi, il prezzo è aumentato del 42% determinando uno svantaggio competitivo per le imprese europee. Svantaggio già evidente nel 2021, quando i prezzi del carbonio applicati alla produzione di acciaio, alluminio e cemento nei paesi UE sono stati generalmente superiori, spesso in modo sostanziale, rispetto a quelli vigenti nei mercati di importazione ed esportazione, mentre era inferiore per paesi fuori dal sistema come gli Stati Uniti. Secondo una semplice simulazione condotta dal Centro Studi Confindustria, l’eliminazione delle quote gratuite utilizzate nel 2022 dalle imprese italiane nell’ambito dell’ETS, prevista nel 2034, comporterebbe in media un incremento dei costi diretti di produzione del 3% per le imprese regolamentate. L’incremento medio supererebbe il 5% per le imprese che producono derivati dalla raffinazione del petrolio e prodotti ottenuti dalla lavorazione di minerali non metalliferi (prodotti refrattari, cemento, calcestruzzo, gesso, vetro, ceramiche, ecc.), e il 7% per il 25% delle imprese più esposte. Se si considera inoltre l’effetto, già presente, dell’ETS sul costo dell’energia elettrica che determina uno svantaggio competitivo per l’intera UE, si comprendono le enormi criticità di tale meccanismo e l’impatto che potrebbe avere sulla propensione delle imprese a investire in Europa.
L’entrata in vigore del CBAM dal 2026, che imporrà una tassa sul carbonio alle importazioni di un gruppo di prodotti ad alta intensità di emissioni, quali ghisa, ferro, acciaio, alluminio, cemento, fertilizzanti, elettricità e idrogeno provenienti dai paesi extra-UE, presenta i medesimi rischi. Le importazioni UE da paesi extra-UE nei settori che saranno colpiti dall’imposta CBAM sono superiori al 4% del totale importato fuori dal mercato unico e alimentano un deficit commerciale di circa 15 miliardi di euro. L’Italia è, tra i principali paesi manifatturieri europei, quello con una esposizione maggiore, pari al 7,5% delle importazioni totali, e ha un deficit commerciale extra-UE di -5,0 miliardi in tali prodotti, pur registrando un surplus se si considerano gli scambi all’interno del mercato unico. Poiché le imprese europee competono in contesti dove il carbonio non viene prezzato (es. diversi stati USA) o ha un costo inferiore (es. Cina), si determinerà una perdita di competitività su tali mercati. Peraltro, l’applicazione dell’imposta a monte della catena di produzione, in quanto colpisce beni che in molti casi rappresentano semilavorati o materie prime e non i prodotti finiti, finisce per penalizzare, di fatto, l’industria europea che è, principalmente, un’industria di trasformazione. Infine, oltre a essere facilmente eludibile, la sua applicazione richiede una serie di informazioni che accrescono l’onere amministrativo lungo tutta la catena di produzione, soprattutto per le piccole e medie imprese, e la mancanza di un metodo univoco di calcolo delle emissioni accresce il rischio di sanzioni per le imprese che non riusciranno a soddisfare i requisiti.